[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 154 / OTTOBRE 2020 (CLXXXV)


contemporanea

POCHI SECONDI ALLA MEZZANOTTE
LA CRISI DEI MISSILI DI CUBA / Parte I

di Matteo Avallone

 

Mobile ordigno di dentate rote

lacera il giorno e lo divide in ore,

ed ha scritto di fuor con fosche note

a chi legger le sa: Sempre si more.

 

Ciro di Pers, Orologio da rote, Poesie

 

Giugno 1947. Il numero mensile del bollettino degli scienziati atomici dell’università di Chicago uscì con un’insolita copertina. I lettori disposti a spendere la modica somma di 25 centesimi di dollaro si trovarono di fronte a una prima pagina di sfondo arancione, dal quale emergeva la porzione finale del quadrante di un immaginario orologio.

 

La lancetta delle ore, un tozzo rettangolo di colore nero, era fissa a indicare il cerchio delle dodici, mentre un’altra, bianca, slanciata e più esile, si trovava poco più indietro, a sette minuti dalla mezzanotte. L’insieme appariva estremamente stilizzato: così semplice ed essenziale che si sarebbe potuto pensare all’opera di un bambino.

 

A ben vedere non si trattava che di elementari forme geometriche su di un foglio di carta, eppure l’intera combinazione comunicava l’idea di un movimento inesorabile, come un conto alla rovescia capace di trasmettere un senso di urgenza e di inquietudine. Non occorreva infatti un grande sforzo di immaginazione per figurarsi la corsa delle lancette, magari scandita da un sinistro ticchettio.

 

La mente che aveva ideato quella copertina destinata a divenire iconica era quella di una pittrice di St. Louis poco più che trentenne. In un momento di ispirazione aveva scarabocchiato il primo bozzetto sul retro di una sonata per piano di Beethoven. Si chiamava Martyl Schweig ed era la moglie di Alexander Langsdorf, uno dei ricercatori del Progetto Manhattan. Il suo geniale design grafico accompagnò nella storia il Doomsday Clock: l’Orologio dell’Apocalisse.

 

Per mezzo di un’immagine dell’immediatezza simile a quelle delle vetrate istoriate delle cattedrali medievali, gli scienziati americani intendevano fornire ai loro contemporanei un simbolo tangibile del pericolo che sovrastava l’intero genere umano. Idearono quindi un orologio allegorico, dove la mezzanotte rappresentava la fine del mondo e i minuti precedenti la distanza dalla catastrofe.

 

A quei tempi non era troppo difficile immaginare quale minaccia concreta si nascondesse tra le ombre di quell’allusione. Il mondo era da poco entrato nell’era atomica, e lo aveva fatto nella maniera più brutale possibile. Meno di due anni prima gli Stati Uniti avevano sganciato senza troppe remore morali due ordigni atomici sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, ponendo fine alla Seconda guerra mondiale ma causando oltre 100.000 vittime in pochi secondi.

 

Coloro che perirono all’istante nella palla di fuoco generata dall’esplosione furono i più fortunati. Nei giorni, o addirittura negli anni seguenti, molte altre persone sperimentarono il lato più crudele delle armi nucleari, morendo a causa delle atroci conseguenze del fallout radioattivo. La stragrande maggioranza era costituita da inermi civili.

 

Lentamente, la sensibilità collettiva della gente di metà Novecento si arricchì – per modo di dire – di un ulteriore livello nella scala dell’orrore e della paura: dopo Auschwitz l’epitome del male divenne Hiroshima, e il correlativo oggettivo della bestialità dell’essere umano un fungo atomico.

 

Appariva con sempre maggiore evidenza come l’uomo si fosse tramutato nel peggiore nemico di se stesso. Le più recenti armi che la scienza gli aveva messo nelle mani rappresentavano la negazione di ogni possibile fine politico all’uso indiscriminato della forza: in altre parole, la guerra sembrò perdere agli occhi di molti ogni tipo di giustificazione teorica, in quanto anticamera della distruzione totale.

 

Eppure, l’agenda delle grandi potenze mondiali sembrava non tenere conto dei pericoli insiti in questo nuovo scenario. Due anni dopo quel numero del “Bulletin of the Atomic Scientists” l’Unione Sovietica testò con successo la sua prima bomba atomica in Kazakistan, nella desolazione del poligono nucleare di Semipalatinsk. Era il 29 agosto 1949.

 

L’opinione pubblica americana non lo apprese che un mese più tardi, quando il presidente Truman rese noto che i risultati di rilevazioni dei livelli di radioattività dell’atmosfera conducevano a ritenere che in un punto imprecisato dell’Asia centrale fosse avvenuta un’esplosione. Il Cremlino si trovò costretto a confermare l’ipotesi.

 

Con largo anticipo su quanto avessero preventivato, quel giorno gli americani persero il monopolio nucleare, e con esso buona parte del senso di invulnerabilità derivante dal riposare su di un continente virtualmente inattaccabile perché protetto dal resto del mondo da due oceani.

 

Gli scienziati guidati da Igor Kurčatov avevano consegnato a Stalin la prestigiosa tessera n. 2 del club nucleare. La conseguenza più diretta appariva scontata: l’URSS avrebbe iniziato a fabbricare e accumulare un numero sempre crescente di ordigni atomici, proprio come gli Stati Uniti, i quali, sentendosi ora minacciati, avrebbero a loro volta incrementato il ritmo di crescita del proprio arsenale. Si annunciava l’innesco di una nuova corsa agli armamenti, i cui effetti avrebbero alterato in maniera imprevedibile gli equilibri di forza tra gli Stati.

 

Il nucleare, con l’immenso potenziale distruttivo che rappresentava, non era semplicemente una carta nelle mani di una grande potenza, ma un intero mazzo di pericolose possibilità. E la maggior parte di esse era inesplorata. In linea di principio, dietro il volersi dotare dell’arma atomica risiedeva un fine di deterrenza e, accanto ad esso, di rafforzamento del proprio peso diplomatico e negoziale. Ma in realtà nessuno sapeva esattamente come impiegare questo potere entro margini di ragionevole sicurezza.

 

La ragione era banale: nessuno poteva fare affidamento su di un’esperienza pregressa dalla quale trarre insegnamenti. Politologi, capi di Stato e strateghi si ritrovarono in un territorio sconosciuto e di fronte a problemi del tutto nuovi: elaborare nuove dottrine di azione e reazione in un mondo dove la proliferazione nucleare avrebbe presto preso il sopravvento.

 

Visto oggi, il prodotto dei loro sforzi non appare intellettualmente entusiasmante. L’aspetto comune, e più sconvolgente, di questi tentativi era l’accettazione dell’utilizzo di armi atomiche. Presto o tardi, in un modo o nell’altro, si dava per scontato che sarebbero state usate.

 

Il meglio che l’amministrazione Eisenhower seppe fare nel campo della dottrina militare fu prevedere l’impiego massiccio e simultaneo di tutte le oltre 3.000 testate allora in possesso degli Stati Uniti. Più tardi, nel 1957, Henry Kissinger, giunse a conclusioni più raffinate, ma solo di poco. Nel suo saggio Nuclear Weapons and Foreign Policy, prospettò un uso flessibile e limitato delle forze nucleari, anche in caso di attacco da parte dei sovietici. La speranza – o se vogliamo l’abbaglio – stava nel voler costringere l’avversario a seguire delle regole comuni, cosa che poteva non essere affatto scontata.

 

Per questo motivo molti osservatori rimanevano in dubbio sul fatto che gli uomini di potere – o perlomeno una buona parte di essi – possedessero la maturità e la consapevolezza necessaria per gestire con giudizio simili sfide. La pianificazione militare e il fanatismo ideologico negli ultimi trent’anni avevano portato a due guerre mondiali: se questi fantasmi si fossero di nuovo ridestati sotto altre forme, questa volta avrebbero gettato il mondo nell’abisso dell’annientamento.

 

Una celebre battuta di quegli anni colse esattamente lo spirito e la natura del pericolo incombente: era difficile dire con quali armi si sarebbe combattuta la terza guerra mondiale, ma la quarta di sicuro avrebbe visto l’impiego esclusivo di pietre e frecce. La guerra nucleare – come forse tutte le guerre del passato – difficilmente avrebbe visto dei contendenti “responsabili”, in grado cioè di auto-limitarsi ponendo l’estensione del proprio potere distruttivo entro certe regole condivise di impiego. Si sarebbe combattuto come sempre si era fatto: al massimo delle proprie capacità e per infliggere il maggior danno possibile al nemico. Non ci volevano particolari doti di preveggenza per vedere la guerra nucleare come un inferno dal quale non esisteva ritorno.

 

Nel 1949, nel numero di ottobre del loro ormai famoso bollettino, gli scienziati di Chicago spostarono le lancette dell’orologio in avanti di quattro minuti. Adesso alla mezzanotte ne mancavano solamente tre. Tredici anni dopo, nell’ottobre del 1962, l’umanità si ritrovò da un giorno all’altro a guardare direttamente in faccia lo spettro dell’olocausto nucleare. Nel posto più impensabile del mondo, nella grande isola caraibica di Cuba, stavano avvenendo dei fatti che avrebbero potuto spingere la lancetta dei minuti del Doomsday Clock a compiere il suo giro finale.

 

Per tutta la prima metà del Novecento, Cuba era stata un semi-protettorato degli Stati Uniti o, volendo essere più precisi, una sorta di dépendance per ricchi americani. Un assolato paradiso di alberghi di lusso, spiagge, casinò, turismo spesso a sfondo sessuale, alcool, corruzione e criminalità. La terra e le attività economiche, in massima legate alla monocoltura dello zucchero, erano controllate dalle grandi corporations americane, le quali esercitavano un’autentica influenza neocoloniale.

 

Buona parte dei sei milioni di abitanti locali versava in condizioni poco più che miserabili. Solo un terzo dei cubani aveva un lavoro stabile e la metà dei bambini non veniva mandata a scuola. Le ricche miniere di nichel, ferro e rame dell’isola non producevano che per le esigenze del mercato nordamericano: da un censimento del 1958 a Cuba risultavano più prostitute che minatori.

 

L’asservimento che regnava da un punto di vista politico non era meno oppressivo di quello in campo economico. Fulgencio Batista, il brutale dittatore locale che deteneva il potere praticamente dagli anni Trenta, non era altro che uno squallido proconsole nelle mani dei poteri forti di Washington.

 

Nel 1960 Earl E.T. Smith, finanziere e diplomatico, in un’audizione alla commissione del Senato statunitense dichiarò candidamente che “… l’ambasciatore americano era la seconda personalità del Paese, spesso anche più importante dello stesso presidente cubano”.

 

Nessuno avrebbe trovato da ridire se sulla bandiera americana si fosse cucita una nuova stella.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]