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										filosofia & religione 
										
										
										
										PRIMO CRISTIANESIMO  
										
										
										DALLE REPRESSIONI AL RICONOSCIMENTO
										 
										
										
										di Francesco Biscardi  
										
										
										  
										
										
										“Origine di questo nome era Cristo, 
										che sotto Tiberio era stato condannato 
										al supplizio dal procuratore Ponzio 
										Pilato; e, momentaneamente sopita, 
										questa esiziale superstizione di nuovo 
										si diffondeva, non solo per la Giudea, 
										focolaio di quel morbo, ma anche a Roma, 
										dove da ogni parte confluisce e viene 
										tenuto in onore ogni cosa vi sia di 
										turpe e di vergognoso” (Annales 
										XV, 44). 
										
										
										  
										
										
										Questo breve estratto degli Annales
										di Tacito mi sembra un buon punto di 
										partenza per sintetizzare come veniva 
										considerato il Cristianesimo agli inizi 
										del II secolo: una superstitio 
										propria di una setta fanatica, diffusasi 
										inizialmente fra gli ebrei e i popoli 
										siro-palestinesi grazie alla missione 
										evangelizzatrice di San Pietro e fra i 
										“gentili” (o “pagani”, vocabolo da noi 
										prediletto ma cronologicamente 
										posteriore) per opera di San Paolo.
										 
										
										
										  
										
										
										Premesso che il Cristianesimo delle 
										origini fu essenzialmente una “religione 
										urbana”, in quanto le campagne rimasero 
										sostanzialmente radicate nei loro 
										antichi culti (definiti successivamente 
										“pagani”, da pagus, villaggio), i 
										primi nuclei di fedeli si radunarono 
										attorno a delle “chiese locali”, godenti 
										di sostanziale autonomia l’una 
										dall’altra. A capo di queste comunità vi 
										erano i preti o presbiteroi 
										(anziani) assistiti da dei diaconi, 
										laici con il compito di coadiuvare i 
										primi nello svolgimento delle funzioni 
										religiose e nell’assistenza ai poveri.
										 
										
										
										  
										
										
										Successivamente, sentitasi l’esigenza di 
										un’autorità che potesse coordinare 
										l’attività dell’intera ecclesia 
										(assemblea) dei fedeli, emersero delle 
										figure carismatiche, denominate vescovi 
										o episkopoi (sorveglianti), con 
										il compito di amministrare e dirigere. 
										Poi, fra III e IV secolo, essendosi 
										moltiplicate le sedi vescovili, si 
										precisò l’inquadramento della rete delle 
										comunità in un doppio livello 
										organizzativo: quello episcopale e 
										quello delle provincie o metropoli, a 
										capo delle quali vi era il metropolita o 
										arcivescovo. In seguito, nel corso della 
										Tarda Antichità, si affermò la 
										supremazia di cinque sedi metropolitiche: 
										Roma, Costantinopoli, Antiochia, 
										Gerusalemme e Alessandria.  
										
										
										  
										
										
										Se, da un lato, il Cristianesimo 
										incontrò dei presupposti favorevoli alla 
										sua affermazione (come l’unità politica 
										e l’estensione dell’Impero romano o la 
										conclamata decadenza del paganesimo), 
										dall’altro lato, trovò anche non pochi 
										ostacoli, come le persecuzioni. 
										
										
										  
										
										
										Non siamo in grado di datare con 
										certezza la nascita della prima comunità 
										cristiana a Roma. Sappiamo però che nel 
										57 una matrona romana, tale Pomponia 
										Grecina, fu accusata di professare la 
										superstitio externa cristiana e il 
										suo probabilmente non fu un caso 
										eccezionale; possiamo così ipotizzare 
										che alla fine degli anni Cinquanta il 
										cristianesimo avesse già cominciato a 
										impiantare le sue radici in una capitale 
										che alternò ostilità, indifferenza e 
										disponibilità all’integrazione verso 
										quella che, ancora, altro non era che 
										una setta. 
										
										
										  
										
										
										Tuttavia, al contrario di quello che si 
										è soliti pensare, nei primi due secoli 
										dell’era cristiana è improprio usare il 
										termine “persecuzione”: spesso i 
										cristiani venivano accusati di varie 
										colpe, come quella di non prestare 
										omaggio all’imperatore e di radunarsi 
										segretamente, suscitando 
										conseguentemente diffidenza e ostilità, 
										ma le autorità solevano limitarsi a 
										intervenire per “correggere” i 
										comportamenti devianti. 
										
										
										  
										
										
										Paradigmatica è la vicenda di Plinio il 
										Giovane che, in qualità di legatus 
										pro praetore della Britinia, chiese 
										all’imperatore Traiano come si dovesse 
										comportare con questa setta “folle” e 
										“superstiziosa”, che si rifiutava di 
										sacrificare al princeps e di 
										rispettare gli dei, dedita a orge, 
										incesti e cannibalismo (accuse, queste 
										ultime, riportate ma dubitate dallo 
										stesso Plinio). La risposta del sovrano 
										fu di limitarsi a perseguire solo i 
										diretti interessati in caso di pubblica 
										denuncia senza correre il rischio di 
										degenerazioni. 
										
										
										  
										
										
										Simili vicende testimoniano come il 
										trattamento riservato ai cristiani non 
										era dissimile da quello tenuto verso i 
										fedeli di altri culti. Anche verso gli 
										ebrei, visti con ostilità per il loro 
										isolazionismo e per l’attività di 
										proselitismo, le autorità erano solite 
										limitarsi a stroncare i comportamenti 
										indesiderati con atti che prevedevano 
										divieti di proseliti o di circoncisione, 
										fino ad ammende fiscali o, nei casi 
										peggiori, espulsioni.  
										
										
										  
										
										
										Solo nella Tarda Antichità e solo quando 
										il Cristianesimo era assurto a religione 
										di stato iniziarono a essere varati 
										provvedimenti repressivi contro il 
										giudaismo, mentre precedentemente vere e 
										proprie azioni di forza furono 
										intraprese solo in episodi estremi (come 
										accadde per le rivolte stroncate da Tito 
										e Adriano). 
										
										
										  
										
										
										Di solito si attribuisce a Nerone la 
										responsabilità di aver dato il via alle 
										persecuzioni, ma non è propriamente 
										così: quello dell’imperatore fu più una 
										sorta di pogrom fomentato nei 
										confronti di una popolazione già vittima 
										di sporadici episodi di ostilità e che, 
										per le diffidenze cui si accennava, bene 
										si prestava a essere incolpata 
										dell’incendio del 64 e a svolgere il 
										ruolo di capro espiatorio, ma non fu una 
										vera e propria persecuzione anche perché 
										concentrata nell’Urbe e destinata a 
										cessare nell’arco di pochi anni. 
										 
										
										
										  
										
										
										Similarmente, secondo la storiografia 
										recente, nemmeno quella di Domiziano può 
										essere definita persecuzione stricto 
										sensu: pare che il principe, 
										adirato, si fosse scagliato contro 
										alcuni nuclei di cristiani per essersi 
										rifiutati di prestare omaggio alla sua 
										persona. Sembra anche che lo stesso 
										imperatore, incuriosito, si fosse 
										premurato di saperne di più su quel Gesù 
										che era riuscito a dare vita a questa 
										setta così ostinata nel proprio credo da 
										anteporre la morte all’abiura. 
										
										
										  
										
										
										Fino alla metà del II secolo, a parte in 
										eccezionali periodi come questi, le 
										comunità cristiane non dovettero 
										ritenersi particolarmente minacciate. Le 
										cose cambiarono sotto Marco Aurelio: 
										proprio l’“imperatore filosofo”, 
										tradizionalmente riconosciuto come uno 
										di più miti e saggi a essere asceso al 
										trono augusteo, dette avvio a quella che 
										può essere considerata la prima vera 
										persecuzione, non limitata ad alcune 
										zone circoscritte, ma estesa a tutte le 
										province dell’impero. Era accaduto che, 
										a partire dal 166, a causa del dilagarsi 
										della peste, il princeps fu 
										indotto dai sacerdoti pagani a 
										considerare i cristiani i veri 
										responsabili del morbo e a scatenare 
										vendetta su di loro. 
										
										
										  
										
										
										In realtà questi non doveva essere 
										particolarmente felice e convinto 
										dell’azione persecutoria: nel suo 
										profondo probabilmente sentiva di non 
										avere altra possibilità se non di 
										additare ai sudditi un capro espiatorio, 
										mentre, nel suo Ad se ipsum, si 
										chiedeva come potessero i cristiani 
										essere così irragionevoli da andare 
										incontro a martirii ed eccidi. 
										 
										
										
										  
										
										
										Partendo da questo presupposto non 
										sorprende che sul finire del suo 
										principato decise di porre fine alle 
										persecuzioni. Il pretesto fu offerto da 
										un episodio occorso in occasione della 
										guerra contro i marcomanni: una legione, 
										composta da cristiani, invocò l’aiuto 
										del proprio Dio contro i nemici e, alla 
										preghiera, seguirono fulmini e grandine 
										sugli avversari che facilitarono la 
										vittoria romana. 
										
										
										  
										
										
										Per un riacutizzarsi delle persecuzioni, 
										fatta eccezione per una breve parentesi 
										sotto Caracalla, dobbiamo fare un salto 
										alla metà del III secolo, al principato 
										di Decio, fervente sostenitore della 
										necessità di un ripristino dell’ordine 
										anche in materia di culto. Nel 250 
										questi emanò un editto, a noi non 
										pervenuto ma dal contenuto ipotizzabile, 
										in cui imponeva a tutti i sudditi 
										dell’impero di comparire dinnanzi ad 
										apposte commissioni o all’imperatore 
										medesimo per compiere pubblico atto di 
										devozione; i recalcitranti sarebbero 
										stati sottoposti al carcere o alla 
										tortura.  
										
										
										  
										
										
										Il provvedimento ottenne buoni risultati 
										giacché le abiure, secondo le fonti, 
										furono numerose in ogni terra soggetta a 
										Roma. Non furono pochi nemmeno i 
										cristiani che si sottomisero al 
										diktat dell’imperatore, per quanto 
										la maggior parte avesse preferito andare 
										incontro al martirio o fuggire sulle 
										montagne, fino a costituirsi in bande 
										“partigiane” aventi lo scopo di liberare 
										i prigionieri. È nel quadro di questa 
										persecuzione che si inserisce il celebre 
										episodio dei “sette dormienti di Efeso”: 
										sette cristiani murati vivi e, secondo 
										la leggenda, miracolosamente 
										sopravvissuti immersi in un sonno 
										profondo.  
										
										
										  
										
										
										L’atteggiamento ostile verso il 
										Cristianesimo si affievolì nelle decadi 
										seguenti per tornare in auge sotto 
										Diocleziano, fautore del più micidiale 
										tentativo intrapreso dal potere 
										imperiale di annientare la religione di 
										Cristo. In questo caso è d’obbligo fare 
										una importante precisazione: anche se 
										per numero di morti questa è stata 
										giustamente ribattezzata “la grande 
										persecuzione”, non tutte le regioni 
										dell’impero conobbero le stesse atroci 
										azioni repressive, le quali rimasero 
										prevalentemente confinate in Oriente.
										 
										
										
										  
										
										
										Siamo nel periodo della “tetrarchia”, 
										del “governo dei quattro”, e, sebbene le 
										disposizioni principali avessero 
										validità su tutte le diocesi, la diversa 
										giurisdizione degli Augusti e dei Cesari 
										non rese uniforme l’attività esecutiva. 
										Anzi, la Gallia e la Britannia, per 
										volere del Cesare Galerio, scamparono 
										alle persecuzioni, le quali furono 
										generalmente miti in tutto l’Occidente. 
										Proprio questi, nel 311, divenuto 
										Augusto e tramontata l’età dioclezianea, 
										poco prima di morire, decise di 
										promulgare un editto, anche a nome degli 
										altri tetrarchi, nel quale si 
										riconosceva ai cristiani libertà di 
										culto e si restituivano loro le chiese e 
										i beni confiscati.  
										
										
										  
										
										
										Quel che seguì è cosa nota: Costantino 
										risultò essere il vincitore delle lotte 
										civili e il grande imperatore che emanò, 
										insieme con il collega d’Oriente Licinio, 
										l’editto di Milano del 313, sancente 
										libertà di culto e inaugurando un nuovo 
										corso nella storia romana che giungerà a 
										compiuta maturazione con l’editto di 
										Tessalonica del 380, con cui veniva 
										ufficialmente stabilito che sola 
										religione dell’impero dovesse essere 
										quella che “il divino apostolo Pietro ha 
										insegnato ai romani”. 
										
										
										  
										
										
										Costantino fu un sovrano controverso e 
										sulla motivazione della sua scelta filo 
										cristiana sono stati avanzati i più 
										svariati dubbi: era un fervente 
										cattolico, come sua madre Elena, oppure 
										fu sempre pagano e le sue scelte 
										politico-religiose furono dettate da 
										meri tatticismi? 
										
										
										  
										
										
										Per cercare di rispondere al quesito è 
										lecito partire con una precisazione: a 
										inizio IV secolo, il Cristianesimo non 
										si stava avviando a divenire la prima 
										religione dell’impero come spesso si 
										crede; sebbene ormai i cristiani si 
										“annidassero” in ogni lembo della 
										società, questo assunto è errato e anzi 
										furono le scelte di Costantino a 
										costituire presupposto essenziale per la 
										piena affermazione della religione.
										 
										
										
										  
										
										
										I calcoli più attendibili stimano, ai 
										tempi dell’editto di Galerio, una 
										popolazione di fede cristiana di circa 9 
										milioni, pari a più o meno il 15% dei 
										sudditi dell’impero (per giunta non 
										omogeneamente distribuiti: si andava da 
										regioni dove la loro presenza era 
										capillare a regioni dove era 
										intermittente se non semiassente). 
										L’imperatore sapeva bene che abbracciare 
										la fede in Cristo non significava 
										adeguarsi al credo della maggioranza dei 
										suoi sudditi, né il suo temperamento 
										irascibile e incline alla vendetta era 
										consono ai dettami cristiani. 
										 
										
										
										  
										
										
										Due opposte tesi che hanno avuto 
										entrambe i loro sostenitori in passato 
										sono oggi respinte: sia una prima, che 
										possiamo definire “paganeggiante”, la 
										quale riduceva Costantino a cinico 
										politico convertitosi per soli scopi 
										politici, che una seconda, “cristianeggiante”, 
										che lo dipingeva come un fermo fedele in 
										trepidante attesa dell’occasione giusta 
										per manifestare i suoi reali sentimenti, 
										sono fuorvianti. È perciò giusto 
										immaginarlo come un uomo dotato di 
										grande acume e dominato dalla volontà di 
										pacificare un impero sconquassato da 
										crisi e guerre e di riportarlo 
										all’antica auge: precondizione per la 
										riuscita di questo disegno era la fine 
										degli atti persecutori verso una 
										religione che, ormai, aveva guadagnato 
										alla sua causa fedeli di ogni rango 
										sociale. 
										
										
										  
										
										
										È dunque da Costantino che iniziò il 
										vero cammino ascensionale del 
										Cristianesimo, il quale, nonostante 
										alcuni tentativi di estrema e 
										anacronistica difesa del paganesimo come 
										quello di Giuliano “l’apostata”, andò 
										incontro a un mirabolante successo, 
										sebbene non destinato a dare vita a un 
										composito universo cristiano: 
										domineranno le dispute teologiche, la 
										volontà di autonomia delle principali 
										sedi metropolitiche contro i tentativi 
										di egemonia pontifici, la contesa fra 
										Roma e Costantinopoli e fra Chiesa 
										occidentale e orientale, destinata a 
										dare vita a una frattura esistente 
										ancora oggi.  
										
										
										  
										  
										
										
										Riferimenti bibliografici: 
										
										
										
										  
										
										
										Cardini F., Cristiani perseguitati e 
										persecutori, Salerno Editrice, Roma 
										2011. 
										
										
										Fraschetti A., La conversione. Da 
										Roma pagana a Roma cristiana, 
										Laterza, Roma-Bari 1999.   |