.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

arte


N. 115 - Luglio 2017 (CXLVI)

SULLA COSTRUZIONE DELLA CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE
PONTEGGI E MACCHINE DI FILIPPO BRUNELLESCHI - PARTE IV

di Maria Laura Corradetti

 

È interessante notare come già nel termine “cantiere” venga in qualche modo esplicitata la problematica del trasporto del materiale da costruzione e del suo continuo approvvigionamento. Infatti la parola deriva dal greco κανθήλιος, asino da soma, divenuto in latino cantherius, ovverosia ronzino, passato poi a indicare il cavalletto di sostegno che a sua volta, per estensione, arrivò a significare il cantiere nel suo complesso.

 

Effettivamente Brunelleschi si interessò in toto alla movimentazione dei materiali, tant’è che progettò anche un grande battello detto il Badalone capace di risalire la corrente dell’Arno per far giungere a Firenze le pesanti lastre di marmo provenienti dalle cave sulle Apuane, dimostrando la sua inventiva e predisposizione per gli ingranaggi e le leggi della meccanica.

 

Secondo Manetti e Vasari la sua maestria nell’uso dei moltiplicatori, atti a potenziare l’efficacia delle macchine, si sarebbe affinata con la pratica maturata nella costruzione di meccanismi per orologi. Anche in questo caso non esistono prove certe e dirette, tuttavia è plausibile che al tempo di Brunelleschi fossero noti “prototipi” di orologi a molla, sulla scorta di un disegno (contenuto, ad es., in P. Galluzzi, Gli ingegneri del Rinascimento… op. già citata, p. 111) databile al 1475-80, opera di un anonimo ingegnere senese riproducente un orologio a molla elicoidale, ripreso da un disegno eseguito molti anni prima dal Taccola.

 

La ricostruzione delle macchine brunelleschiane, anche mediante modellini e riproduzioni virtuali in 3D, ha sicuramente beneficiato della loro replica nella manualistica del XVI secolo, ma per dedurre i congegni realmente pensati e impiegati da Brunelleschi è stato necessario, con un percorso “filologico” di comparazione delle testimonianze grafiche sopravvissute, eliminare alcuni fattori fuorvianti e di disturbo.

 

Nel Cinquecento infatti il plagio non si esauriva in una pedissequa imitazione dell’originale, ma era l’occasione attraverso cui confrontarsi intellettualmente con i predecessori. Questo significa che spesso e volentieri la trattatistica rinascimentale sulle macchine, nell’intento di superare i miti di riferimento, arrivò a concepire congegni del tutto teorici, “mentali”.

 

Non solo si proponevano, ad esempio, gru e argani di ogni tipo e stazza per i quali è impossibile stabilire il loro effettivo uso nei cantieri, ma sovente veniva meno la veridicità di rappresentazione che difettava o nell’apparato meccanico, trascurando tutti quegli elementi (ad es. carrucole, ecc.) che per la loro ovvietà non stimolavano la riflessione teorica dell’architetto rinascimentale, o nell’assenza del rivestimento strutturale conclusivo, interferendo così nella percezione delle dimensioni e di quanto fosse l’ingombro dei macchinari.

 

C’è poi da considerare che questi disegni erano per uso personale o, al limite, destinati a un pubblico di tecnici in grado cioè di interpretarli e decifrarli correttamente, per cui magari si privilegiava evidenziare tutti i dettagli significativi a scapito delle proporzioni tra le varie parti.

 

Non tutti gli artisti che si sono cimentati nella rappresentazione grafica delle invenzioni di Brunelleschi hanno raggiunto i medesimi esiti, al punto che secondo molti studiosi i più attendibili sotto il profilo tecnico sono stati Bonaccorso Ghiberti (Siena, 1451 – ivi, 1516; disegni sono contenuti nel suo Zibaldone, composto tra il 1472 e il 1483) e Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 – Cloux, 1519; disegni sono contenuti nel Codice Atlantico, raccolta formata da Pompeo Leoni alla fine del Cinquecento smembrando i taccuini originali di Leonardo da Vinci), il quale venuto nel 1469 a bottega dal Verrocchio proprio mentre questi doveva collocare la sua sfera di rame dorato sulla sommità della lanterna, ebbe modo di assistere in prima persona a tale operazione.

 

Comunque, gli altri artisti sono i già citati Mariano di Jacopo detto il Taccola (Siena, 1381 – ivi, 1453-58; i disegni sono contenuti nel suo libro De machinis libri decem, pubblicato nel 1449), Francesco di Giorgio Martini (Siena, 1439 – ivi, 1501; i disegni sono contenuti nel Codicetto, un taccuino da lui usato sino agli anni settanta.) e Giuliano da Sangallo (Firenze, 1443 c. – ivi, 1517. I disegni sono contenuti nel suo codice prevalentemente di architettura detto Taccuino senese redatto al termine della sua carriera).

 

In sostanza l’attenzione era tutta per la meccanica, sottovalutando invece le problematiche inerenti alla costruzione effettiva delle macchine stesse, intendendo cioè gli aspetti pratici da soddisfare affinché fosse possibile realizzarle sicure e funzionali. Ovviamente le macchine erano costruite, secondo le possibilità dell’epoca, in legno, corda, con elementi in ferro o bronzo, cioè materiali perlopiù altamente infiammabili o che potevano logorarsi, perciò altre difficoltà si presentarono proprio relativamente al loro utilizzo e all’usura dei loro rotismi dentati.

 

Gli espedienti per ridurre al minimo l’attrito, scongiurando così il pericolo di incendi, erano molto empirici, come ad esempio scegliere legname più resistente e specifico per l’impiego cui era destinato, o munire gli ingranaggi di denti girevoli in bronzo per attenuare le frizioni tra gli ingranaggi (detti “palei”), o bagnare le funi con vino, aceto, o acqua di mare (quella dolce poteva far marcire le corde).

 

È chiaro però come ogni cosa fosse frutto dell’ingegno di Brunelleschi, il quale non esitò a rivolgersi a un variegato e numeroso gruppo di artigiani, scelti sulla base delle loro competenze anche al di fuori del territorio fiorentino, purché eccellessero nel loro mestiere, dovendo trovare ancora una volta soluzioni a problemi apparentemente insormontabili.

 

La forza motore, poi, era data da cavalli o buoi, gli unici capaci di vincere gli attriti fra le parti in movimento, il che richiedeva però uno sforzo talmente enorme da consumarne le forze in breve tempo, per cui, solitamente ogni 6 mesi, era necessaria la loro sostituzione. Quindi per garantire un periodico rinnovo di animali si offrivano ingenti somme di denaro a chi cedeva le proprie bestie al servizio dell’Opera del Duomo, creando un continuo afflusso dalle campagne di contadini attratti dalle sostanziose ricompense.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.