.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

antica


N. 149 - Maggio 2020 (CLXXX)

La Rivolta di Nika

insurrezione all’Ippodromo

di Matteo Picconi

 

“Nika, nika!”. O, meglio, nikā, cioè “vinci”. Questo fu il grido di battaglia del popolo di Costantinopoli che per un’intera settimana mise sotto scacco la corte di Giustiniano nel 532 d.C., quinto anno del suo regno sull’impero bizantino.

 

Per comprendere appieno le ragioni che spinsero la classe nobiliare e le masse popolari, da sempre acerrime nemiche, a unirsi contro il loro imperatore, è necessario inquadrare il contesto delle fazioni cittadine e descrivere quello che per secoli è stato il cuore della città: l’ippodromo.

 

Questi spettacoli, dopo il divieto dei combattimenti dei gladiatori, rimasero gli unici che riscuotevano il favore del grande pubblico e l’ippodromo divenne quindi il centro delle manifestazioni collettive della popolazione e l’unico luogo dove si poteva incontrare l’imperatore e i suoi ministri”.

 

Così lo storico Livio Zerbini, in “Grandi e piccoli eroi che hanno cambiato la storia”, descrive brevemente il Circo Romano di Costantinopoli, inizialmente edificato da Settimio Severo nel III secolo e ultimato da Costantino nel 330, quando Bisanzio diventò la “nuova Roma”.

 

Progettato sul modello del “nostro” Circo Massimo, l’ippodromo era quindi il centro degli affari cittadini, dove si concludevano accordi economici e si stringevano alleanze politiche. Costituiva quindi un’eredità romana, non soltanto da un punto di vista ludico-sportivo. Era consuetudine, già dai tempi di Nerone, che gli aurighi (i conduttori dei carri) fossero suddivisi in squadre, rispettivamente Verdi, Azzurri, Rossi e Bianchi.

 

Come nella Città Eterna, anche a Costantinopoli prendere le parti di una di queste “squadre” andava ben oltre l’essere meramente un simpatizzante, un tifoso diremmo oggi. Così scrive nella sua “Storia della decadenza e rovina dell'impero romano” lo storico inglese Edward Gibbon: “Costantinopoli adottò le follie, non già le virtù, dell’antica Roma; e le fazioni istesse, che aveano agitato il circo, infierirono con maggior furore nell’Ippodromo”.

 

 

Interessante notare come i sostenitori dei rispettivi raggruppamenti occupassero dei settori specifici sugli spalti dell’ippodromo. Frontalmente alla terrazza imperiale, collegata al Gran Palazzo (proprio come il Circo Massimo), sedevano i sostenitori dei Bianchi e dei Rossi, tifosi neutrali e di numero esiguo, i quali non occuparono mai un ruolo significativo nella vita sociale e politica di Costantinopoli.

 

A occupare la curva delle carceres vi erano invece gli Azzurri, detti anche Veneti. Appartenevano al ceto popolare, erano fedeli sostenitori dell’ortodossia cristiana e godevano dell’appoggio della corte giustinianea, in particolar modo di Teodora. Il favore dell’imperatrice derivava dal suo vecchio risentimento nei confronti dei Verdi che avevano abbandonato lei e la sua famiglia dopo la morte del padre, ammaestratore di orsi del circo. Attrice e prostituta, la sua “folgorante” scalata sociale fu dovuta (anche) alla fazione degli Azzurri.

 

Nella curva opposta, chiamata sphendoné, sedevano invece i Verdi, detti anche Prasini o “contribuenti” (in spregio agli azzurri, denominati i “miserabili”). Erano in gran parte i membri dell’aristocrazia cittadina, che occupavano ruoli strategici nella vita politica e militare e sostenevano la tesi del monofisismo (ovvero dell’unica natura divina del Cristo). Tra i rappresentanti più in vista c’erano i nipoti dell’ex imperatore Anastasio I, Pompeo e il console Ipazio.

 

Nei primi anni del regno di Giustiniano, gli Azzurri costituivano la fazione dominante. Era gente semplice, bottegai, artigiani, non di rado uomini di malaffare. Avevano anche un proprio “look” che Procopio di Cesarea, nella sua “Historia Arcana”, descrive così: “lasciaronsi crescere la barba e i mustacchi, e questi venir lunghi all'uso persiano: si rasarono i capelli sulla fronte, e alle tempia; e al di dietro lasciaronli andar liberi e sparsi, come facevano i Massageti: costumanza che fu chiamata unnica”.

 

Principali protagonisti dei frequenti disordini che avevano luogo sugli spalti dell’ippodromo, nel corso del VI secolo le violenze degli Azzurri si spostarono sulle strade. “Giravano fra giorno con pugnali ascosi, poi la notte in numerose bande si permettevano qualunque eccesso contro i Verdi e i cittadini quieti (…) Il favore imperiale lasciava impuniti stupri, sacrilegi, assassinii, mentre gli oltraggiati e i Verdi esacerbavano quegli orrori o raddoppiandoli in città”. Così li descrive Cesare Cantù, a proposito dell’impunità di cui gli stessi godevano.

 

La fine del regno di Anastasio I nel 518 aveva di fatto indebolito la fazione dei Verdi. La ragione fu principalmente di natura religiosa: l’ex imperatore aveva abbracciato la tesi monofisita, bandita come eresia cristiana dal concilio di Calcedonia nel 451. Ciononostante il monofisismo restò largamente diffuso in molte regioni dell’impero, soprattutto tra gli esponenti del ceto aristocratico e, in gran parte, dei Verdi. Ma con l’avvento di Giustino I, e successivamente di suo nipote Giustiniano, i monofisiti furono perseguitati o lasciati alla mercé dei loro avversari.

 

Non vi era solo il pretesto religioso a giustificare le violenze perpetrate dagli Azzurri. Colpire i “contribuenti”, significava appropriarsi dei loro beni, usurpare la loro posizione sociale. Molti storici hanno concordato sull’ipotesi che il lassismo di Giustiniano rispondesse a un disegno politico ben preciso, volto a sbaragliare i suoi avversari politici.

 

D’altro canto i Verdi non rimasero del tutto inermi di fronte a tali vessazioni. A confermarcelo è sempre Procopio: “Dal canto loro i Prasini, che ìvano tumultuando, non si contennero: ma come videro di potere, abbandonaronsi ad ogni misfatto, quantunque di tempo in tempo con occulti supplizii fossero puniti: il che però ogni giorno li rendea più arditi”.

 

Per riassumere: violenza incontrollata degli Azzurri, malcontento dei Verdi, corruzione dilagante e, infine, il sovraccarico fiscale imposto da Giustiniano a tutta la popolazione. Queste le premesse con cui si arrivò a quel 11 gennaio del 532 quando, in occasione delle corse, i Prasini denunciarono pubblicamente le violenze della fazione rivale dinnanzi alla tribuna imperiale. Ignorati da Giustiniano i Verdi scatenarono dei disordini che dall’Ippodromo dilagarono per le strade.

 

La repressione fu brutale, lo storico Charles Diehl, nella sua opera dedicata a Teodora, ce ne offre uno spaccato: “Sfortunatamente il prefetto della città Eudemone commise un’azione poco prudente. Per eccesso di zelo aveva fatto arrestare un certo numero di facinorosi e, senza informarsi di quale partito fossero, ne condannò quattro alla decapitazione e tre all’impiccagione”.

 

Una distrazione che costerà caro a Giustiniano in quanto alcuni di loro appartenevano alla fazione “amica”. Dei tre condannati al cappio, un verde e un azzurro riuscirono a fuggire e a nascondersi nella chiesa di San Conone. La rappresaglia di Eudemone contribuì a unire le due fazioni che sotto il grido “Nika!”, cominciarono a mettere a ferro e fuoco la zona intorno all’ippodromo. Le richieste di grazia per i due sopravvissuti non furono accolte da Giustiniano e la rivolta si estese a tutta la città. Fu distrutto il palazzo della Prefettura e furono prese d’assalto le prigioni.

 

Nei giorni seguenti i rivoltosi alzarono la posta in gioco e chiesero la destituzione di Eudemone, del prefetto d’Oriente Giovanni di Cappadocia e del questore di palazzo Triboniano. Giustiniano questa volta acconsentì ma, ormai, la rivolta si era trasformata in rivoluzione. Diehl tratteggia uno scenario apocalittico: “Più di un quarto della capitale fu ridotto in cenere; e in mezzo alle rovine annerite dal fuoco, in mezzo al fumo, tra l’odore di bruciato che rendeva la città quasi invivibile, nelle strade coperte di cadaveri, tra cui quelli di molte donne, la battaglia continuava”.

 

Nel momento culminante della “sedizione dei Vittoriati”, come la chiamò Procopio, i Verdi pensarono addirittura di detronizzare lo stesso Giustiniano, tanto che nominarono un proprio imperatore. Riprendendo ancora Gibbon: “Nel mattino del sesto giorno, Ipazio, nipote dell’imperatore Anastasio, fu dal popolo proclamato imperatore: se l’usurpatore avesse seguito il consiglio del Senato ed eccitato il furore della moltitudine, il primo sforzo irresistibile di essa avrebbe oppresso o scacciato il suo tremante competitore”.

 

Giustiniano, rifugiatosi a palazzo, meditò seriamente di lasciare Costantinopoli. Gli studiosi concordano che a farlo desistere fu la moglie Teodora, che lo spinse a riprendere il controllo della città e ad affrontare la morte piuttosto che una vile fuga. L’imperatore mirò allora a dividere nuovamente le fazioni, corrompendo una parte degli Azzurri tramite ingenti quantità di oro. Di fatto Giustiniano stava prendendo tempo: a breve l’esercito di mercenari guidato dal generale Belisario, tornato vincitore dalla campagna africana, avrebbe fatto ingresso in città e sedato la rivolta in un bagno di sangue.

 

Le truppe imperiali costrinsero i rivoltosi a ripiegare nell’ippodromo. E proprio laddove ebbe origine la rivolta, si materializzò il tragico epilogo, ben descritto da Gibbon: “In questo spazio angusto la moltitudine disordinata e sorpresa non fu capace di resistere a un attacco fermo, regolare, che movea da due parti: gli azzurri segnalarono il furore del loro pentimento, e si conta che rimanessero uccise trentamila persone nella strage promiscua e spietata di quel giorno”.

 

Il giorno seguente Ipazio e Pompeo furono condannati a morte insieme ad altri diciotto sediziosi. Giustiniano celebrò la repressione della rivolta come una vittoria militare e Belisario fu acclamato come un eroe. La rivalità tra Azzurri e Verdi durò ancora a lungo. Ne è prova, molti anni dopo, il celebre discorso (riportato da Teofane il Confessore) di Giustino II, successore di Giustiniano: “Voi, Veneti, dovete sapere che v'è morto Giustiniano; e voi, o Prasini, avete da tenere per fermo che per voi Giustiniano rimansi ancora vivo”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Opere di Procopio di Cesarea, trad. di Giuseppe Compagnoni, tipog. Francesco Sonzogno, Milano 1828;

Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell’impero romano, Barbera Editore, Firenze 1863;

Cesare Cantù, Storia Universale, vol.VII, Pomba e C. Editori, Torino 1841;

Livio Zerbini, Grandi e piccoli eroi che hanno cambiato la storia, Newton Compton Editori, Roma 2016;

Charles Diehl, Teodora: Imperatrice di Bisanzio, Castelvecchi Editore, Roma 2015;

Michael McCormick, Vittoria eterna: sovranità trionfale nella tarda antichità, Vita e Pensiero, Milano 1993.



 

 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.