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N. 6 - Giugno 2008 (XXXVII)

COSTANTINOPOLI È CADUTA
Quando l’Europa si scoprì vulnerabile

di Cristiano Zepponi

 

Il declino dell’Impero bizantino, già in atto da tempo, fu accompagnato nella sua fase finale dalla sostanziale indifferenza del mondo cristiano. Le sue radici, tuttavia, affondavano nei secoli precedenti, e trovarono terreno fertile negli avvenimenti del VII sec. d.C.
L’espansione islamica del periodo, infatti, privò l’Impero di gran parte dei suoi territori: in prima istanza Siria, Mesopotamia ed Armenia, in seguito l’Egitto e le altre provincie africane. A ciò si aggiunse la pressione esercitata sulle frontiere nord-orientali dalle popolazioni seminomadi degli Slavi (stanziati in ampie aree della penisola balcanica) e dei Bulgari (la cui indipendenza – all’interno del territorio imperiale - fu formalmente riconosciuta da Bisanzio nel 681).

Per Guillou, “le sorti dell’impero seguono quelle del suo territorio”: ed il suo territorio, in quegli anni, si ridusse di più di due terzi rispetto a quello governato da Giustiniano, un secolo e mezzo prima.


Fu così che gli imperatori Maurizio (582-602) ed Eraclio (610-641) si trovarono costretti a ridisegnare la sistemazione politica, amministrativa, militare e culturale dell’organizzazione statuale: l’introduzione del “thèma” (una circoscrizione – originariamente militare, e sita in zone di frontiera – affidata alla guida dello “stratego”, un funzionario che concentrava nella sua persona i poteri militari ed amministrativi), la formazione di un esercito nazionale di “stratioti”, reclutato su base regionale, cui erano affidate terre trasmissibili ai figli e stipendiato per la permanenza sotto le armi, la sostituzione della lingua latina col greco come lingua ufficiale, la scomparsa degli uffici di derivazione romana (sostituiti da grandi ministeri preposti all’esercito, alle finanze, agli affari imperiali ed alle comunicazioni), la progressiva eliminazione del diritto giustinianeo (rimpiazzato da consuetudini di provenienza orientale) ed anche la penetrazione a corte di fastosi e raffinati modi di vita, insieme all’abitudine di considerare l’imperatore stesso oggetto di culto, trasformarono quella che era stata la “pars orientalis” del mondo romano in un’entità geopolitica e ideologica nuova.

La controversia iconoclasta, legata al problema dell’autonomia dal potere imperiale degli ordini monastici (notoriamente ricchi ed estremamente influenti, anche grazie alle icone, sulla popolazione) ed alle istanze spirituali delle aree più strettamente a contatto con i musulmani e gli ebrei, si trasformò in un affare politico nel 726, quando l’imperatore Leone III Isaurico (717-741) vietò, per mezzo di un decreto, il culto delle immagini nel territorio dell’Impero. La vicenda travagliò la vita bizantina per ottant’anni, fino all’11 marzo dell’843, quando il culto delle icone fu solennemente riabilitato.

Il periodo che seguì lo scontro tra gli iconoclasti e gli iconoduli (= adoratori di immagini), però, fu caratterizzato da una notevole floridezza economica e culturale, oltre che da una rinnovata tendenza all’espansione militare. La dinastia Amorica (813-867) e soprattutto quella Macedone (867-1057) poterono così vantare nuovi successi: furono riconquistate la Cappadocia, la Cilicia, l’alta Mesopotamia, Bari (876) e gran parte del meridione, l’Armenia (entro il 1054) e Creta. Nel 1014, inoltre, il regno di Bulgaria fu sconfitto ad opera di Basilio II (976-1025).

Le popolazioni slave furono “bizantinizzate”, grazie soprattutto alla conversione al cristianesimo (dovuta all’evangelizzazione di Cirillo e Metodio presso gli Slavi, e del patriarca Fozio presso i Bulgari). In aggiunta, i bizantini portarono a queste popolazioni “un’idea di stato, nuove forme di governo e un nuovo diritto, un’educazione intellettuale e consuetudini sociali destinate a sopravvivere a Bisanzio stessa” (Gallina). Una nuova epoca d’oro per le arti e le lettere, una ritrovata fioritura commerciale incentrata sul ruolo delle città sembravano allora testimoniare la rinascita di una stabile compagine orientale, che potesse tenere gli infedeli lontani dalla vecchia Europa.

Ma gli eventi, che tante volte avevano già cambiato un quadro apparentemente stabile, presero a volgersi contro l’impero. Il progressivo allontanamento tra la chiesa orientale e quella occidentale, già segnalato dalla contrapposizione riguardo l’iconoclastia, la giurisdizione sulla chiesa bulgara, l’adesione della chiesa greca ad una struttura organizzativa di tipo conciliare – a differenza della verticistica piramide romana - ed alcune secondarie questioni dottrinali (la posizione da attribuire al Figlio ed allo Spirito Santo nell’ambito della Trinità), culminò nella scomunica reciproca del 15 luglio 1054, tra papa Leone X ed il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario.

L’invasione normanna del sud Italia, sostanzialmente conclusa con la presa di Bari nel 1071, privò poi l’impero dei thèmata meridionali, proprio mentre sul fronte orientale prendeva corpo il pericolo legato all’avanzata dei turchi “selgiùchidi” (dal nome dell’emiro Selgiuq): in quello stesso, catastrofico anno, infatti, i Turchi strapparono la vittoria sul campo di Manzikert.

La situazione continuò a peggiorare nel decennio seguente, quando i Turchi penetrarono profondamente in Asia Minore, dove costituirono il sultanato di Iconio, e occuparono Siria e Palestina.
La progressiva svalutazione della moneta bizantina, il nomisma, s’accompagnò ad una rapida contrazione del territorio sotto il controllo imperiale, con le drammatiche perdite dell’Anatolia e dell’Armenia.

Venezia, allora, approfittò delle difficoltà dell’impero, attaccato dai normanni nella penisola balcanica: concesse a Bisanzio l’uso della flotta, ma riuscì a strappare in cambio - in seguito alla “bolla d’oro” emanata dall’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) – l’attracco completamente esente da dazi ed imposte in tutti i porti dell’Adriatico, dello Ionio e dell’Egeo, in seguito esteso anche alle isole di Cipro e Creta.
I mercanti occidentali presero così a monopolizzare gli scambi con l’Oriente, gettando le economie locali della costa bizantina in una fase di profonda recessione, proprio mentre un nuovo, inatteso nemico s’aggiungeva a quelli tradizionali: nel 1204, infatti, gli eserciti della quarta crociata, dirottati dall’abile politica veneziana, occuparono e saccheggiarono Costantinopoli, che mai aveva subito niente di simile.

In verità l’ultimo avamposto in Oriente, l’ultimo erede di Roma, cadde allora. Una parte della città venne incendiata e le sue ricchezze saccheggiate, per abbellire Venezia e le altre città occidentali; ed il tradimento occidentale ebbe un fortissimo impatto emotivo, stimolando un diffuso sentimento di diffidenza nei confronti dei correligionari dell’ovest.
In verità, a partire dalla fine del XII secolo, almeno, i bizantini (traumatizzati dalle prime conquiste turche, spaventati dal passaggio degli eserciti crociati, preoccupati per le ripetute ribellioni dei popoli balcanici), avevano maturato una certa tendenza alla xenofobia, manifestatasi clamorosamente nel 1182, in occasione del massacro di una parte dei Latini residenti nella capitale. Cominciarono allora a sentirsi prima di tutto dei greci; ed in molti, alla vista delle milizie cristiane impegnate nell’opera di distruzione della città, cominciarono a ritenere che la mezzaluna fosse preferibile alla croce del papa di Roma.

Dopo la conquista, i vincitori divisero l’impero in principati feudali: accanto all’impero latino di Costantinopoli, nacquero i ducati di Atene e Tebe, il principato di Acaia ed il regno di Tessalonica; i veneziani, come prevedibile, s’impadronirono dei principali centri mercantili.
Quel che restava delle aristocrazie bizantine tentò allora un ultimo sussulto, organizzandosi in diverse, minuscole formazioni politiche: l’impero di Nicea (sulle coste dell’Asia minore), il regno di Trebisonda (sulla costa meridionale del Mar Nero) ed il despotato di Epiro sulla costa balcanica.
Solo il primo riuscì però, sotto la dinastia dei Lascaridi (1204-1259), a mobilitare le forze necessarie ad elaborare un progetto di riconquista: e lo mise in atto, sfruttando il collante ideologico della difesa dell’ortodossia, in occasione dell’insediamento del clero latino a Costantinopoli.

Nel 1261, quindi, Michele VIII  Paleologo riuscì a riconquistare la città: ma l’incuria, le devastazioni, i saccheggi e la scarsezza di manutenzione l’avevano ormai resa l’ombra di ciò ch’era stata in passato; la grande aristocrazia fondiaria dominava la vita pubblica, veneziani e genovesi il commercio e la finanza; la peste aveva mietuto un gran numero di vittime, e ridotto grandemente la popolazione; ed infine, le limitate risorse reperibili era interamente assorbite dal pagamento degli eserciti mercenari, chiamati a difendere – in assenza d’alternative – un territorio che si andava, di nuovo, rapidamente restringendo.

Ma nel periodo seguente fu l’avanzata dei Turchi ottomani, ad attirare l’attenzione dell’Europa: nel 1354, infatti, questa popolazione turco-mongola superò lo stretto dei Dardanelli, nel 1361 conquistò Adrianopoli, nel 1389, a seguito della battaglia di Kosovo Polije, abbatterono il regno di Serbia e nel 1393 conquistarono il regno di Bulgaria, arrivando a minacciare l'Ungheria. Il tentativo di arrestarne l’avanzata del re ungherese Sigismondo portò alla disfatta sul campo di Nicopoli, nel 1396.

A quel punto, tutto indicava che Costantinopoli avrebbe costituito il prossimo obiettivo del nascente impero. Tuttavia, per uno di quei casi della storia che ne rallentano il tempo, prolungando le agonìe, la comparsa di un avversario come Tamerlano impose di volgere lo sguardo; nel 1402, furono pesantemente sconfitti ad Ankara, e lo stesso sultano Bayezid I Yildirim fu preso prigioniero. Ma la morte, saggiamente, riportò gli eventi al loro giusto corso, eliminando dalla scena il condottiero orientale, il cui impero si sfasciò improvvisamente.
L’avanzata riprese allora sotto la guida del sultano Murad II che, nel 1444, sconfisse a Varna un'armata composta prevalentemente da Serbi, Polacchi e Ungheresi.
Il campo, adesso, era libero per suo figlio.

Maometto II (1430-1481), infatti, dovette attenderne la morte – nel 1451 - per succedergli come sultano, nonostante avesse già dato pessima prova di sé tenendo precedentemente la reggenza del sultanato per un biennio.
Nonostante ciò, dev’essersi reso conto della favorevole situazione che gli era toccata in eredità. E da subito cominciò a preparare l’attacco.

La cattiva fama che lo circondava, però, autorizzò la diffusione di un moderato ottimismo in tutto il mondo cristiano, tanto che l’umanista Francesco Filelfo inviò al re di Francia Carlo VII una missiva in cui lo invitava a porsi a capo di una nuova spedizione contro gli ottomani; peccato che costui avesse ben altro da fare, e dovesse prima cacciare gli inglesi dalle coste francesi.

Il basileus Costantino Paleologo, contemporaneamente, s’avvide del pericolo, e cominciò a lanciare appelli alla cristianità, mentre un suo ambasciatore, Andronico Leontaris Briennio, visitava Venezia e Roma per ottenere la riunificazione delle due Chiese.

Niccolò V, il pontefice di Roma, scosso dall’interminabile serie di rovesci incassati in precedenza, non poteva però fare molto di più che concedere indulgenze particolari – a mezzo stampa - per la difesa delle isole mediterranee minacciate dagli ottomani, come Cipro.
Alfonso il Magnanimo, re di Napoli, abbozzò invece un tentativo di largo respiro, ma poi, dopo aver varato un pugno di navi, comprese che l’impresa si presentava in effetti assai ardua, e preferì desistere; Francia e Inghilterra restavano assorbite dalle fasi finali del loro secolare macello; nei Balcani, nessun alleato – ad eccezione di Scanderbeg, arroccato nella formidabile fortezza di Kruja tra le montagne albanesi – poteva prestarsi all’improbabile causa bizantina.

Alla fine, per ironia della sorte, furono proprio Genova e Venezia, che avevano sensibilmente accelerato la fine dell’Impero, ad assumersi la responsabilità di contribuire almeno in parte alla difesa della città. L’appello dei coloni genovesi di Pera, infatti, richiamò l’attenzione sugli sforzi ottomani di fortificare gli Stretti: un chiaro preludio alle ostilità, dato che in quel modo si poteva controllare il traffico navale, e, di conseguenza, gli approvvigionamenti della città.

Maometto, nel frattempo, proseguì nella scia di provocazioni massacrando gli abitanti di Epibation, che ispirò a Giorgio di Trebisonda l’orazione, indirizzata al pontefice, “Pro defendenda Europa”: ma era Costantinopoli, e subito, che si doveva salvare.

Il Papa, dal canto suo, vinse il suo personalissimo tiro alla fune sull’unico punto che sembrava interessargli: l’unione effettiva (ed immediata) delle due Chiese, come condizione ad eventuali aiuti.
Stavolta, gli ortodossi dovettero cedere: il 12 dicembre del 1452 la fine dello scisma fu celebrata dal cardinale Isidoro di S.Sabina, patriarca latino di Costantinopoli, nella cattedrale di S.Sofia. E bastò questo, nonostante la clausola di revisione una volta allontanato il pericolo ottomano, a scatenare disordini e discordie.

Maometto II, nell’occasione, dimostrò talento diplomatico confermando il trattato con Venezia ed offrendo una pace accettabile ad Hunyadi, grazie alla quale potè liberare reparti bloccati dalle truppe ungheresi; ma si rivelò anche incapace di celare le proprie bellicose attività, e presto si sparse la voce che mastri europei appositamente assoldati – nella fattispecie, il fabbricante ungherese Urban - stessero fondendo enormi cannoni (tra cui la “Basilica”, una bombarda di otto metri capace di sparare palle di pietra di 270 chili), mentre il partito greco antiunionista, guidato da Giorgio Scholarios, fungeva ormai da serbatoio di spie e sabotatori. La guerra si avvicinava, e la Sublime Porta non faceva nulla per nasconderlo.

Costantinopoli, la città sul Bosforo, cominciò allora a contare i propri difensori: ne formavano il nerbo, innanzitutto, duemila latini - per la maggior parte veneziani e genovesi, che notoriamente convivevano in uno stato di perenne disaccordo – in aggiunta ai circa cinquemila combattenti locali; meno di diecimila armati, quindi, risiedevano in città. Nel gennaio del 1953, però, il basileus ottenne i servizi del capitano di ventura Giovanni Giustiniani, accompagnato da alcune centinaia di cavalieri ed arcieri particolarmente rinomati per l’abilità nella difesa dei tratti di mura; la flotta della Serenissima comandata da Jacopo Loredan, invece, si arrestò prima di raggiungere (e rinforzare) la “Nuova Roma” .
Le tre cinte murarie che sbarravano l’accesso da terra, vecchie di secoli, non si trovavano d’altra parte in buone condizioni; furono quindi rabberciate alla meglio, confidando nella celebre robustezza dimostrata nel corso di una ventina di precedenti assedi. Minore attenzione fu invece rivolta all’altra cinta, che avvolgeva l’estremo lembo della penisola ed il cuore della città, costituendone l’estrema difesa.

Lentamente, dunque, la città cominciò ad essere soffocata con un blocco inizialmente navale e poi anche terrestre, mentre i bizantini s’abbandonavano alla speranza che le allarmanti notizie sollevassero l'interesse degli occidentali.

L’esercito ottomano, guidato dal sultano in persona, giunse in vista nei primi giorni d’aprile, annunciato da una massiccia nube di polvere. I giannizzeri, reclutati attraverso lo strumento del devşirme (dal turco "devşir", "ramazzare"), strappando cioè i figli alle comunità cristiane d’ambiente rurale - con una sensibile predisposizione per le aree albanesi, bosniache e bulgare – comparvero allora in reggimenti ben ordinati, seguiti dai fanti della Rumelia, del Caucaso, delle provincie tributarie e poi da serbi, bosniaci, croati, bulgari, romeni, ungheresi, albanesi, greci, dai corpi speciali di genieri, artiglieri e balestrieri, dai cavalieri spahis, dai cammelli e dalle vettovaglie. Stime credibili valutano in 90.000 uomini l’entità dell’armata, ma qualcuno arriva a sostenere che, accampati davanti alle fortificazioni, stazionassero 250.000 soldati.

Il 12 di aprile, comunque, giunsero in vista anche 300 navi turche al comando dell'ammiraglio Balta Oghlu, che completarono il cordone d’isolamento aprendo il fuoco sulle fortificazioni costiere. La principale insenatura del porto (il “Corno d’Oro”) rimase però aperta ad eventuali soccorsi, protetta da una catena di sbarramento che correva dalla torre del Kentanarion alle mura della fortezza di Galata.

Già dal 6 del mese, mentre Maometto II si impadroniva di Pera, le artiglierie aprirono il fuoco, e una coltre di fumo e polvere offuscò il cielo. Solo dodici giorni dopo, però, il sultano provò l’assalto: ma la breccia, eccessivamente stretta, non consentiva il passaggio della fanteria anatomica, che subì gravi perdite nel tentativo di allargarla.

Il morale dei difensori, già sollevato dal primo successo, salì alle stelle alla vista di quattro imbarcazioni che, il 20 del mese, apparvero a sud della città. Si trattava di tre navi da trasporto genovesi, provenienti da Roma, cariche di uomini e rifornimenti, e di una bizantina carica di cereali dalla Sicilia, che riuscirono a spezzare l’accerchiamento della flotta turca e a raggiungere il molo. Sembrò allora, che la cristianità si stesse muovendo.

Maometto, per impedire che ciò si ripetesse, ordinò di trasportare alcune navi via terra, dal porto del Diplokionon sulla collina di Galata; trascinate lungo i rulli di legno, le fuste superarono la cima della collina e furono poi rapidamente adagiate in un’insenatura del Corno d'Oro: aggirarono così lo sbarramento della catena di ferro. Dopo aver urgentemente convocato una riunione del consiglio di difesa in Santa Maria, veneziani e bizantini cercarono subito di rintuzzare lo stratagemma con una sortita notturna per incendiare le barche nemiche. Il contrattacco, però, giunse in qualche modo alle orecchie degli ottomani, e fu per questo respinto senza grandi difficoltà.

Il cannoneggiamento riprese allora, con rinnovata intensità. Il 6 maggio, di nuovo, Maometto credette di intravedere un varco favorevole all’attacco nei pressi della porta di S. Romano, dove il fiume Lycus entra in città; ma Giustiniani, saggiamente, preferì costruire un altro muro dietro la breccia, invece di riparare le fortificazioni. Il giorno dopo, venticinquemila uomini tornarono all’assalto. E ancora, dovettero ritirarsi dopo tre ore di combattimenti.

Man mano che i proiettili cadevano sulla città, gli assalti cominciarono a farsi più continui; il 12 di maggio, di nuovo, un attacco – stavolta al Blacherne – tentò l’agognato sfondamento, e solo l’intervento di Costantino e della Guardia Imperiale riuscì ad arrestare la marea avanzante. La flotta turca tentò ancora due volte, il 16 ed il 17, di spezzare la catena di sbarramento al Corno D'oro, ma sempre senza successo.

Di fronte ai continui fallimenti collezionati negli attacchi terrestri, Maometto decise di cambiare tattica: quattordici gallerie furono dunque scavate sotto le mura, ma Johannes Grant, abilmente, riuscì a neutralizzare anche questo pericolo, sia facendo franare i tunnel, sia massacrando i genieri ottomani per mezzo di esplosivi, allagamenti e l’uso del fuoco greco.
I turchi tentarono poi di utilizzare una torre d’assedio posta davanti alla porta Carisio, la più settentrionale della città, mentre le bocche da fuoco distrussero una delle torri difensive del settore; Costantino, comprensibilmente preoccupato, chiamò a raccolta volontari per distruggere la macchina d’assedio, e contro ogni pronostico, dopo aver colto di sorpresa le guardie turche, riuscì ad incendiarla, mentre altri compagni ricostruivano il tratto di mura e la torre difensiva distrutte. La mattina seguente, gli assedianti dovettero assistere al clamoroso successo del disperato tentativo bizantino.

Le perdite turche, ormai, erano diventate gravi. Le truppe erano stanche, sfiduciate ed impaurite da quella che sembrava la prova di una tradizione secolare: Costantinopoli, ai loro occhi, doveva apparire come una fanciulla meravigliosa e inarrivabile – la stessa fanciulla che Costantino il Grande diceva di aver sognato, prima di posare il suo sguardo sulla città, ormai più di mille anni prima.

Maometto prese in considerazione, in quei giorni, l’ipotesi di ritirarsi, volgere le spalle a quel pugno di affamati che continuava a battersi, senza riposo, e percorrere una delle mille strade del suo impero, magari convincendosi che, tutto sommato, non valeva la pena di consumare così il suo esercito. Alcuni ufficiali sostennero addirittura questa possibilità, scoraggiati ed imbarazzati.

La cristianità, di sicuro, avrebbe ricavato dalla vicenda un’insperata sicurezza, conscia che quello dell’imbattibilità degli ottomani era un mito senza fondamento; e il peso dell’umiliazione sarebbe stato troppo gravoso, per il giovane sultano.
Per questo, Maometto decise di insistere; per sua fortuna, i difensori erano troppo esausti per felicitarsi delle difficoltà dell’avversario, e troppo pochi per riposare.

Il tentativo più pericoloso, fino a quel momento, era stato quello effettuato nel punto in cui il fiume Lycus entrava in città: qui, dunque, decise di attaccare; una spia turca avvertì presto Costantino, che però non poteva più sfruttare una simile occasione.

Nel, frattempo, in città si riunì una folla silenziosa lungo l’arteria principale, la Mese, in processione dietro all’immagine della Madonna “Theotokos”, protettrice della città e dell'impero.
Di colpo, l'antica icona cadde dal baldacchino, per la prima volta a memoria d’uomo. Uno stupore spaventato, silenzioso e composto testimoniò la reazione consapevole degli abitanti: la Madonna non avrebbe più difeso le loro vite.
Costantinopoli sarebbe caduta.

A mezzanotte del 29 maggio, i turchi completarono lo schieramento su tre linee, mentre Maometto, alla testa di diecimila cavalieri ornati di stendardi di seta, si diresse verso il porto del Diplokionion ad ispezionare la flotta.

L’assalto iniziò alle 2,00 di notte, accompagnato dal boato della prima ondata formata dai Bashi Bazuk, le truppe meno affidabili dello schieramento ottomano, reclutate lungo il percorso e scarsamente addestrate: il sultano le lanciò come carne da macello, per sfiancare i cristiani.

Veneziani, genovesi e bizantini, guidati da Giustiniani, resistettero sugli spalti, e riuscirono a sterminarli con frecce ed armi da fuoco; ma proprio mentre l’attacco stava per esaurirsi, Maometto inviò nella mischia la seconda ondata, formata da truppe regolari anatoliche.
Giocò coi numeri, insomma, che d’altra parte erano tutti in suo favore, e per altre due ore tenne impegnate le forze bizantine, che però sostennero anche questo attacco.

A quel punto, partì la terza ondata, formata dai reggimenti di giannizzeri, che andarono ad impattare contro la linea cristiana, nella stretta breccia creata in precedenza.
I bizantini erano esausti, e furenti, e ancora respinsero l’avanzata, rovesciarono le scale, incendiarono gli strumenti d’assedio.

Assorbiti da tanta adrenalina, i fanti bizantini avevano naturalmente tralasciato la sorveglianza costante degli altri tratti di mura; se si voleva resistere, d’altronde, ogni uomo poteva essere necessario, anche i marinai delle navi. Tuttavia, un drappello di turchi approfittò della situazione e scoprì una piccola porta poco lontano, attraverso la quale riuscirono a raggiungere una torre presso il quartiere di Blacherne; qui, issarono la bandiera del sultano.

La voce si sparse subito: il fronte settentrionale era stato sfondato. Negli stessi istanti, a peggiorare le cose, Giovanni Giustiniani – la guida dei difensori – fu gravemente ferito.
Gli uomini, demoralizzati, cominciarono a cedere: un ulteriore assalto di unità giannizzere fresche, infatti, portò alla presa della porta di Adrianopoli, attraverso cui sciamarono gli ottomani.

Costantino, allora, guidò gli ultimi soldati rimasti verso la marea montante, e si fece uccidere così, insieme a loro. Con lui caddero i difensori, e gran parte dei suoi concittadini, non appena la città venne messa a sacco; i sopravvissuti, poi, furono ridotti in schiavitù.

Il senato veneziano recò la notizia al papa Niccolò V il 29 giugno; “mai avevamo perduto… una città o un luogo paragonabile a Costantinopoli”, si lasciò sfuggire Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II.

“L’Occidente parve scuotersi d’un tratto da un lungo torpore”, scrisse Cardini, e forse dovette avvertire un certo senso di colpa per la “morte annunciata” dell’impero d’oriente. Non aveva fatto altro che comportarsi come le trenta navi veneziane che la rappresentavano; le quali, raggiunte le acque della città nei giorni seguenti la sconfitta, alla vista delle bandiere turche volsero le prue, e fecero rotta verso l’Europa.



 

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