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N. 119 - Novembre 2017 (CL)

Cosimo Cristina

fine di un giornalista Senza peli sulla lingua
di Gaetano Cellura

 

I giornali lo tempestavano di richieste. E lui correva dappertutto. “Correva felice” ricorda la madre. Ma voleva un giornale tutto suo. Dove poter scrivere “senza peli sulla lingua”. Scrivere di mafia. Quella parola allora impronunciabile. Pronunciata solo dai comunisti. Scrivere quello che i giornali con cui collaborava non gli permettevano.

 

E così nel 1959 fondò il suo giornale, che si chiamava Prospettive Siciliane. Un giornalino. Ma era il sogno della sua vita. Più felice degli altri giorni, lo portò a sua madre. Che ebbe un tremito quando lesse il primo editoriale. Il destino del figlio le si delineò tragicamente: “senza peli sulla lingua” aveva firmato la sua condanna a morte.

 

Cosimo Cristina aveva venticinque anni quando venne trovato senza vita, di pomeriggio, nel tunnel ferroviario tra Termini Imerese, il suo paese, e Trabia. Era il 5 maggio del 1960. E fu il guardialinee Bruno Rizzo a darne via radio l’allarme ai treni in transito: “C’è il corpo di un uomo sui binari della galleria Fossola”. E i treni si fermarono. Straziante coincidenza, uno dei primi a vederne il cadavere era stato suo padre, impiegato delle Ferrovie.

 

Il cronista con il papillon elegante, i baffi e il pizzo ben curati che lo facevano apparire più grande, scriveva della mafia del proprio paese e delle Madonie. La voce subito messa in giro è quella del suicidio e nessuna autopsia viene eseguita. Caso chiuso, all’istante. E riaperto solo sei anni dopo, grazie allo zelo del vicequestore Angelo Mangano. Ma per confermare, riesumata la salma e disposta l’autopsia sullo scheletro, l’ipotesi del suicidio. In un contesto di perizie discutibili e poco propenso a fare chiarezza.

 

“Quando la mafia condanna – scrive in quei giorni Nicola Volpes sul Giornale di Sicilia – non torna sui suoi passi. Ne fa una questione di tempo e di luogo. Perché la mafia non combatte alla maniera dei Cristina, ma attende nell’ombra. Non ha bisogno di giornali, di inchieste coraggiose, di giudizi equilibrati. Condanna e basta. Fate uccidere quel tale. E c’è sempre qualcuno, nel mondo delle coppole, che non può dire di no”.

 

Non era uno qualunque il vicequestore Mangano. Al suo attivo aveva inchieste su Luciano Liggio, da lui arrestato a Corleone. E su Santo Gaeta e Giuseppe Panzeca, capimafia rispettivamente di Termini Imerese e di Caccamo.

 

Conosceva bene il territorio della provincia di Palermo ed era certo che a uccidere il giovane giornalista fosse stata la mafia. Con un colpo di spranga in testa, secondo la sua ricostruzione. E per l’ultimo suo articolo: un’intervista alla moglie del pregiudicato Agostino Tripi appena ucciso. La goccia, per la mafia, che fa traboccare il vaso. Tripi aveva fatto un attentato in una gioielleria. Protetto in un primo momento, era stato poi eliminato dalla mafia perché “non sapeva tenere la bocca chiusa”.

 

Cosimo Cristina era scomparso due giorni prima, dopo aver detto alla fidanzata Enza Venturella: “Vado a giocare una schedina del Totocalcio. Ti raggiungo a casa”. Ma non si videro più. Perché il suo corpo, a distanza di quarantotto ore, fu ritrovato dilaniato nel buio della galleria. Suicidio. E dunque nemmeno il diritto a un funerale cristiano.

 

Questa la fine di un giornalista “senza peli sulla lingua” che credeva nel suo lavoro e non si fermava davanti a nulla. Capimafia, consiglieri comunali collusi, istituzioni compromesse. Un lavoro svolto più per passione che per trarne compensi.

 

La zona del termitano era allora dominata dalla cosca mafiosa di Caccamo. Quel giornalista che firmava con le iniziali Co. Cri. le sue cronache, correva con la bicicletta da un posto all’altro e parlava di moralizzazione del territorio, quel giornalista, dava fastidio. Era andato, per la mafia, oltre ogni limite.

 

Non si accontentava delle corrispondenze per i giornali regionali e nazionali: da L’Ora al Gazzettino di Venezia, dal Messaggero al Corriere della Sera e al Giorno. Ne voleva uno in cui esprimere tutto il suo libero pensiero e in cui fare inchieste con nomi e cognomi di personaggi influenti, scavare su omicidi e fatti alla ricerca di verità nascoste o di falsità da smascherare.

 

Giovanni Cappuzzo, che fondò con lui Prospettive Siciliane, lo ricorda per “il fiuto della notizia da prima pagina”. Cristina “si era fatto da solo – dice – e con la sua ostinata capacità aveva affondato, per primo, il bisturi in certi temi tabù della nostra provincia”.

 

Erano tempi pericolosi. E ci voleva molto coraggio. Ciò che colpiva in lui era il senso del mestiere: benché molto giovane, mal pagato e sfruttato, mostrava di conoscerlo meglio dei più brillanti colleghi. Sue prerogative: l’entusiasmo e, appunto, il coraggio. Quello necessario per condurre inchieste sugli omicidi di Turiddu Carnevale, del sacerdote Pasquale Culotta. E di Agostino Tripi, che gli fu fatale.

 

Dalla galleria dove fu trovato il corpo di Cosimo Cristina e dalle sue tasche emersero una serie d’incongruenze che dimostravano come un depistaggio la tesi del suicidio. Ferite e ecchimosi, ma nessuna frattura. Nessuna traccia cioè riconducibile a un impatto con la littorina. Nelle tasche la schedina giocata e un messaggio per Cappuzzo. A cui chiedeva scusa per il gesto estremo e per l’interruzione del lavoro giornalistico appena incominciato.

 

È strano che un uomo con l’intenzione di suicidarsi tenti la fortuna al Totocalcio e che, scrivendo all’amico, abbia parole solo per la fidanzata e nessuna per la madre cui era molto legato. Lei se l’aspettava la fine del figlio, sin da quando lesse l’editoriale del primo numero di Prospettive Siciliane. Il giornale tutto suo in cui Cosimo poteva scrivere “senza peli sulla lingua”.

 

“Ecco, l’hanno fatto”. Queste le sue parole quando vennero a dirle che le ricerche del figlio erano finite. E che l’avevano trovato sul binario. Con la testa fracassata.



 

 

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