[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


filosofia & religione

ITINERATIO COME VITA

RIFLESSIONI ESISTENZIALI SULLA CONCEZIONE KIERKEGAARDIANA DELLA RIPRESA

di Martina Piantoni

 

«Ciascuno di noi è completamente isolato in se stesso, anche se tra noi il legame è strettissimo. La vita intera non è altro che un tentativo ininterrotto di ritrovarci». Le parole di Thomas Bernhard tratte da Perturbamento, romanzo costellato da feroce nichilismo che caratterizza tutta la sua opera, fanno luce sul significato imprescindibile della vita: un costante ritornare a sé stessi.

 

A fronte di questo ritrovarsi, un pensatore come Kierkegaard ha ancora oggi un peso a dir poco rilevante circa la condizione umana, in effetti il filosofo danese riuscirà a restituirci quella che è la realtà della vita attraverso quel movimento della riappropriazione di sé stessi.

 

Lo studio, usando le parole di Kierkegaard, sarà un tentativo di articolare quella categoria fondamentale che è la Gjentagelsen, all’interno dei tre stadi esistenziali. Tentativo che verrà analizzato attraverso quella condizione necessaria di vitale importanza per ogni individuo che è l’amore.

 

Si seguirà come file rouge il testo La Ripresa, una narrazione con impliciti riferimenti biografici. L’anno prima della pubblicazione, l’autore aveva rotto il fidanzamento con Regine Olsen, evento di grande rilevanza per la vita del pensatore; e La Ripresa ne è il riflesso, “a caldo”, e, al tempo stesso, l’espressione di una ferma volontà di superamento, nel senso specificatamente kierkegaardiano del procedere ricordando.

 

La ricerca ha l’intenzione di rilevare e approfondire la categoria della ripresa che, per mezzo dell’amore, attraverserà tutti e tre gli stadi esistenziali: dalla immediatezza estetica, alla riflessione etica fino al paradosso religioso.

 

Solo dopo diversi fallimenti e false speranze, si raggiungerà il fine ultimo del nostro percorso, un fine posto dal nostro autore nella paradossale fede del mistico, l’unico in grado di restituire il disperato e il rassegnato alla sua esistenza. Quel fine che ci permetterà di riconoscere il vero significato della ripresa in termini kierkegaardiani; un significato che, come vedremo, sarà da comprendere come una rinascita intesa in senso cristiano grazie alla quale l’uomo, perduto per il mondo, riottiene sé stesso, come Giobbe davanti a Dio.

 

Nelle linee che seguono cercheremo di presentare le caratteristiche generali dei tre stadi usando il testo Enten-eller, più consono probabilmente alla trattazione, con lo scopo di mantenere sempre quel file rouge che ci siamo proposti di affrontare.

 

Indichiamo prima in breve ciò che risulta più rappresentativo nella filosofia di Kierkegaard: il concetto di stadio esistenziale. Il filosofo è spesso conosciuto per aver sintetizzato l’itinerario esistenziale sotto forma di progresso tra stadi; ma cosa è realmente questo stadio?

 

Uno stadio esistenziale è essenzialmente una concezione di vita e dunque, assumendo la realtà etica (decisione) come realtà essenziale dell’esistente, è l’unità del modo in cui un soggetto determina le proprie scelte.

 

Seguendo le parole del filosofo, “tutte le concezioni dell’esistenza si classificano rispetto alla determinazione dell’interiorizzazione dialettica dell’individuo”, di conseguenza si va assumendo questa decisione come la realtà essenziale dell’esistente. Kierkegaard determina teoreticamente tre stadi dell’esistenza ognuno dei quali ha una precisa modalità di scelta: stadio estetico, stadio etico e stadio religioso.

 

Queste dimensioni soggettive sono racchiuse in un rapporto di inclusione-esclusione del soggetto diveniente, proprio in questo risiede il significato della dialettica racchiusa in una delle opere più conosciute del filosofo: Enten-eller; in questo caso non si tratta di scegliere tra uno stadio e l’altro ma di scegliere il proprio divenire soggettivo insieme a tutte le conseguenze che la scelta comporta.

 

 

Lo stadio estetico: una falsa ripresa

 

«La mia mente bolle come un mare infuriato per le tempeste della passione. Se qualcuno potesse scorgere la mia anima in questo stato, gli sembrerebbe un caicco che affonda con la prua nel mare». Lo stadio estetico rappresenta, se così possiamo dire, il grado più basso di umanità, situato su quella barca che affonda nel turbine delle passioni, secondo l’autore la grande massa degli uomini è ferma a questo stadio.

 

Si può definire lo stadio estetico una malattia spirituale: la subisce colui che è privo di interiorità. L’esteta è un uomo che porta dentro di sé una “rottura interiore”, è un individuo manchevole di un io e, consapevole o no, si trova in uno stato di disperazione e angoscia. Stando alle parole del filosofo danese usate in uno dei suoi ultimi scritti, segue in estrema sintesi che “l’esistenza estetica è essenzialmente godimento”. Da qui si delinea la figura dell’esteta immediato, che più prende forma nel personaggio del Don Giovanni, presentato da Kierkegaard in un saggio dedicato alle opere liriche di Mozart. Il seduttore immediato è l’uomo animale, il suo amore non è fedele e la novità è l’unica cosa che esso trova invitante e seducente.

 

L’espressione più immediata del desiderio è l’erotismo che può essere tradotto solo mediante la musica, l’unica in grado di esprimere la potenza di questo desiderio erotico. Ciò che rende l’esteta immediato così potente e seducente è la forza del suo desiderio con il quale la donna viene travolta, infatti il desiderio ha una potenza seduttiva e l’essere desiderati in questo caso ha la capacità di trasfigurare la persona sedotta. Il desiderio è infinito e infinite sono le ripetizioni di momenti finiti che per il Don Giovanni si raffigurano nelle svariate donne. Esso, dunque, è la figura emblema dell’incarnazione della genialità sensuale che si identifica con la forza stessa del desiderio: è desiderio desiderante.

 

La seconda figura che da prendere in considerazione è quella dell’esteta riflesso, che in comune all’esteta immediato ha il godimento e la seduzione, ma ciò non viene subito consumato nell’immediatezza. Per l’esteta riflesso, che meglio chiamiamo seduttore, subentra in gioco un’opera di seduzione; in lui esiste un metodo e un ragionamento per possedere il desiderio della donna scelta. Niente di carnale, ma una tattica abile ed esperta, non più la violenza della passione ma la consapevolezza dell’arte del sedurre.

 

Questo particolare modo di agire è descritto con sconvolgente e inevitabile capacità introspettiva nel racconto Diario di un seduttore. Per una personalità estetica fedele a quella che andiamo descrivendo, ovvero quella dell’esteta riflesso, la massima espressione della possibilità nel rapporto umano è l’innamoramento, infatti, in questo caso l’amato non si trova ancora posseduto ma vi è possibilità sotto forma di resistenza.

 

Johannes, protagonista dell’epistola, girovagando al mercato nota una giovane ragazza, Cordelia, e comincia a vagheggiare con la propria immaginazione le possibilità di un eventuale rapporto con lei. Gli sviluppi che poi si prospettano ai suoi occhi sono così interessanti da convincerlo a intraprendere una storia.

 

La sua storia però non è propriamente una storia d’amore, ma una sperimentazione: egli vuole toccare con mano le diverse possibilità del rapporto con la ragazza, osservare le sue reazioni e godere di ogni singolo e sorprendete dettaglio. Da qui capiamo che l’esteta intraprende solo il fidanzamento: esso lega e non lega. Questa continua incertezza e oscillazione rendono il rapporto, per il seduttore, costantemente interessante e imprevedibile.

 

Non a caso, anche in La ripresa, il protagonista insieme a Costantin Costantius, è un giovane innamorato. Colto dal desiderio d’amore verso una giovane ragazza, egli è condannato a soffrire nel vivere la morte del suo amore prima ancora di averlo vissuto. Il sentimento infelice che lo lega all’amata non ha alcuna aderenza alla realtà perché, di fatto, la fanciulla non era la sua amata (ma) «l’occasione che risvegliava il suo fondo poetico e faceva di lui un poeta. […] Era penetrata in tutto il suo essere, avrebbe vissuto in eterno nella sua memoria».

 

Questo giovane frusta sé stesso per un difetto d’astrazione, una continua idealizzazione. Lui persevera a poetare il reale che, anziché essere vissuto, precipita nell’abisso dell’inconsistenza perché il poeta incaglia nel ricordo, dal momento che l’errore, l’equivoco di fondo proprio del poeta risiede nel porsi alla fine del proprio “salto” (tra passato e presente), nonostante lui non l’abbia ancora compiuto, intrappolato com’è nel ricordare ciò che non è più. La fanciulla apparentemente desiderata, di cui il giovane era innamorato, rappresentava semplicemente l’occasione che risvegliava la sua ars poetica, rendendolo così compositore.

 

Anche il secondo personaggio, nonché voce narrante del libro, è arenato esistenzialmente allo stadio estetico, creandosi l’illusione di false ripetizioni: egli intraprenderà un viaggio a Berlino col tentativo di verificare l’effettiva possibilità della ripetizione, giungendo però alla conclusione negativa che quel viaggio intrapreso non si verificò identico a quello intrapreso la prima volta. Questa esperienza quindi si rivela un fallimento nella conferma che sul piano estetico ciò che è passato rimane nel passato e chi tenta di tornare su i propri passi nella speranza di ritrovare la felicità nel punto in cui l’aveva lasciata s’ingannerà e perderà sé stesso lungo la strada.

 

L’esteta, dunque, è vittima di quel voler incapsulare la fugacità dell’esistenza nella gelida artificiosità dell’istante, l’esteta è colui che si lascia essere, lascia la vita trascorrere senza prendere le redini della sua propria esistenza personale. Qualunque sia l’occasione, come abbiamo visto, in cui si manifesta questo attaccamento estetico alla possibilità, l’esteta – riflesso o meno – è burattino della propria immediatezza.

L’unico che però ammetterà ciò che abbiamo appena delineato è l’esteta riflesso: «non sono dunque io il padrone della mia vita!», «mi manca insomma la pazienza di vivere. Non posso vedere l’erba crescere, ma non potendolo, non ho affatto desiderio di guardarla».

 

Questo perenne attaccamento alla possibilità si traduce nella paradossale immobilità del desiderio: un desiderio che costantemente si realizza e si annulla che si afferma e si contraddice. Un’oscillazione che distoglie l’esistente dalla realtà, facendone di essa una sola elegante ma vana chimera.

 

Lo stadio etico: una ripresa ostacolata

 

Attraversati da quella condizione di noia e disperazione che caratterizza lo stadio estetico, vediamo ora come nello stadio etico ci sia invece una forte presa di coscienza del proprio valore. Per lo stadio etico la determinazione personale fondamentale è la scelta, nello specifico la scelta di sé stessi.

 

Sono proprio le parole del filosofo danese a dirci: «che cosa si sceglie, dunque? Si sceglie se stessi, non nella propria immediatezza, non quali quest’individuo contingente, ma si sceglie se stessi nel proprio eterno valore».

 

Questa scelta di sé stessi avviene dentro di sé, proprio perché il fine ultimo è solo che da ricercare dentro di sé a differenza dell’uomo estetico che lo cerca al di fuori. L’uomo etico sviluppa il sé partendo da quell’imperativo pratico socratico conoscere sé stesso, di fatto scegliere non significa crearsi, porsi, ma significa entrare in rapporto con qualcosa di già dato: «ciò che io scelgo non lo pongo, perché qualora non fosse posto non potrei sceglierlo, e però qualora non lo ponessi grazie al fatto che lo scelgo, non lo sceglierei. Esso è, perché qualora non fosse non potrei sceglierlo; esso non è, perché viene ad essere solo grazie al fatto che lo scelgo, e altrimenti la mia scelta sarebbe un’illusione».

 

L’esito di questa scelta dunque è l’autentica appropriazione di sé stessi che come ultimo in assoluto si rivela essere la libertà. Per l’uomo etico la massima manifestazione della libertà e del dovere, il quale è espressione concreta della scelta, si configura nel matrimonio. Kierkegaard dedica un intero saggio – Validità estetica del matrimonio – per mostrare l’importanza di questo rapporto etico: un rapporto vivo, vivificante. Il matrimonio, osserva l’autore, si fonda su un amore radicalmente diverso dalla sensualità, quest’amore non è segnato dall’immediatezza ma bensì dalla libertà; un amore dettato da una volizione, ossia da quella scelta che caratterizza dal principio l’uomo etico.

 

L’obiettivo di tutte le determinazioni etiche è di realizzare nel concreto ciò che è umano, la realizzazione dell’uomo comune, a differenza dell’esteta che vedeva il compimento nella straordinarietà. Questa realizzazione è sottoposta alla propria azione, al proprio agire – realizzabile da chiunque – e non soggiace a una dialettica esterna. Dunque, domandiamoci se per l’uomo etico l’unica cosa possibile e doverosa è quella di mantenere ferma la propria scelta e la propria azione di fronte a qualunque pericolo? Ebbene sì, lo stadio etico è interamente concentrato sull’atto della scelta: «nello scegliere non importa tanto di scegliere ciò che è giusto, quanto l’energia, la serietà e il pathos con cui si sceglie».

 

Per lo stadio etico il cambiamento della scelta sta nella ripetizione di essa. Soltanto ribadendo la scelta, la personalità può effettivamente stare scegliendo e, in questo modo, riaffermare e potenziare la scelta tramite ripresa. Infatti per l’etico la ripetizione non consiste nella banale replica del medesimo atto, ancora e ancora, quanto piuttosto nel miglioramento e nel progresso che è possibile apportare a una scelta quando essa viene ripresa, ribadita, migliorata e costruita.

 

La ripresa incomincia a prendere forma proprio nell’uomo etico, poiché essa implica volontà, azione e intervento attivo, parole d’ordine della concezione etica, notiamo sin da subito come questa categoria marchi il confine tra i due stadi esistenziali, estetico ed etico. Proprio nel matrimonio si rappresenta la ripresa, che lega passato e futuro conferendo una continuità a una storia che sarebbe frammentaria; non è un semplice accadere, il matrimonio conferisce una storia al primo amore.

 

Nonostante il matrimonio possa così sembrare l’emblema e la sintesi dell’uomo etico, vediamo come esso – l’uomo etico – si possa auto ingannare nel tentativo eroico di vivere l’eternità nel tempo e quindi di calare l’infinito nel finito. Giunti però a questo punto si potrebbe dire che l’uomo etico abbia la vittoria in pugno, appunto perché l’importante era giungere a quella scelta, ma se non fosse così?

 

Il dubbio risiede nel come si fa a scegliere tra il bene il male, nel come si fa a scegliere quel bene supremo. L’uomo etico di fronte a questa domanda non sa rispondere, la sua conquista pertanto è solo temporanea. Messa di fronte all’esigenza religiosa anche la sua labile vittoria impallidisce e le sue risposte non hanno più quel significato certo: esse sono incerte.

 

 

Lo stadio religioso: una ripresa come vita

 

L’uomo ora vacilla in quell’incertezza radicale e concreta, un’incertezza che dunque lo rende incerto di quelle possibilità astratte ma soprattutto incerto delle proprie possibilità, della propria realtà, in breve, di sé stesso. A questo punto, quando qualunque azione perde completamente di significato, entra in gioco un’esigenza religiosa, che si traduce in quell’esigenza di basarsi su qualcosa nell’incertezza più totale.

 

Questa esigenza risulta essere una contraddizione assoluta, che nondimeno si traduce in quella forma essenziale dell’edificante che, seguendo le parole del filosofo: «è il predicato essenziale di ogni religiosità». Solo in questa dialettica continua di certezza e incertezza è possibile comprendere il religioso, dunque la fede è certezza nell’incertezza: un’azione sotto forma di determinazione dialettica che rapporta continuamente i contradditori.

 

Il compito dell’individuo religioso è quello di abbandonare totalmente il proprio sé immediato per riuscire a rapportarsi concretamente al fondamento assoluto, a Dio. È un rapporto che si concretizza nell’interiorità e non ha nessuna espressione nell’esteriorità: la dialettica del religioso autentica “appartiene all’interiorità, e non si deve esprimere nell’esteriore”.

 

Dopo il primo salto compiuto dalla sfera estetica a quella etica, si compie qui il secondo e ultimo salto nella sfera religiosa che rende possibile la rinascita dell’uomo, proclamando dunque una rottura definitiva con i primi due stadi.

 

Notiamo ora come il concetto di ripresa acquisti qui la sua forma più assoluta, perché è proprio attraverso essa – la ripresa – che la libertà dell’individuo spinge sé stessa dal piano del non essere (da ciò che non c’è più) a quello dell’essere, dalla non verità alla verità: di accedere cioè alla dimensione della trascendenza.

 

Come avevamo già detto all’inizio, il testo La ripresa, è suddiviso in due parti, ed è proprio nella seconda parte la definitiva interpretazione religiosa. Avevamo lasciato uno dei protagonisti, Costantin, alla fine del suo viaggio a Berlino, un viaggio compiuto con la speranza di scoprire il significato vero della ripresa anche se alla fine sarà lui stesso ad affermare che la ripresa non è possibile attuarla sul piano estetico. Si conferma qui la possibilità di parlare della ripresa, solo sul piano religioso, questa sarà testimoniata attraverso la lettura del libro di Giobbe compiuta dal giovane poeta, in forma epistolare.

 

Ma procediamo con ordine, prima di tutto giunti a questo punto cerchiamo di delineare le coordinate precise del significato della ripresa, seguendo le parole del nostro filosofo. Già dalle prime righe, l’autore, con lo pseudonimo di Costantin, si esprime, affermando: «Ditene quel che volete, questo problema verrà a giocare un ruolo assai importante nella filosofia moderna, dacché ripetizione è un termine risolutivo per ciò che fu ‘reminiscenza’ presso i Greci. Come dunque costoro insegnarono che ogni conoscere è un ricordare, così la filosofia nuova insegnerà che la vita intera è una ripetizione. L’unico filosofo moderno ad averlo intuito, è Leibniz. Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti».

 

Risulta che il concetto di ripresa è quel costante rinnovamento della vita, il momento più peculiare ha luogo quando il vecchio si rivela nel nuovo, quando il movimento stesso si rivela in avanti, e non permane confinato nel passato. Nel ricordo, il passato è privo di consistenza in quanto risulta slegato dal flusso vibrante dell’esistenza. Nella ripresa invece c’è un irrompere del nuovo che spezza il piano immanente del ricordo per aprire al passato una dimensione altra che si traduce nella continuità della vita.

 

Ne consegue che solo l’uomo capace di eseguire il movimento dialettico della ripresa, ossia il procedere ricordando, può vivere una vita realizzata; chi si ritrova a trattenere il disporre della propria vita ottiene come risultato ultimo la perdita di essa, di una vita, che possiamo definire, mancata. La scoperta centrale nella ripresa non la si ha nel tempo, dove è possibile solo la redintegratio in statum pristinum della personalità, ma bensì nell’eternità, perché è proprio qui che vengono restituiti i beni perduti: quel che è stato, sarà.

 

La riflessione svolta dal nostro autore circa la figura biblica di Giobbe, spalanca al giovane poeta un orizzonte inatteso; l’ultima parte dell’opera si compone di lettere scritte dal giovane poeta attraverso la lettura del libro biblico. Il giovane, oramai disperato, trova conforto in questa figura peculiare, si rispecchia nell’afflitto Giobbe, che giunto al culmine della sofferenza, dove tutti i beni erano perduti, persino i figli, resta fermo verso l’amore per Dio.

 

Giobbe però possiede quel coraggio – categoria fondamentale per compiere la vera ripresa – di discutere con Lui capendo che tutto quello che gli stava accadendo non era una semplice punizione, ma piuttosto una prova, dove il giusto risulta tale, non tanto nella situazione di benessere, quanto nel momento del più atroce dolore. Esattamente in questo attimo in cui tutte le certezze e le probabilità umanamente concepibili si dimostrano impossibili, e dove “con ciò svanisce progressivamente la speranza, in quanto la realtà, ben lungi dall’intenerirsi, depone invece conclusioni sempre più dure a suo”, nell’immediato tutto sembra perduto, ma Giobbe ritrova i beni perduti, tutto gli viene restituito raddoppiato, i servi, gli armenti, i monili e le monete, soltanto i figli non ritroverà.

 

Quello che è stato appena descritto è il movimento della vera ripresa, che soltanto nell’eternità possiamo attenderci. Nella prospettiva cristiana le cose non possono tornare identiche a sé stesse nel piano del finito, ovvero nelle medesime condizioni spazio-temporali; possono, però ritornare sul piano dell’assoluto mediante quel movimento volontario reso possibile in forza del religioso.

 

Grazie alla lettura del libro di Giobbe, il giovane poeta, dopo aver scoperto che la dolce amata, nonché sua musa poetica, si era sposata, urla esultando “sono di nuovo me stesso – le macchine sono in moto”. A questo punto l’acconto essenziale della ripresa è quello del possesso di sé stessi, perché essa “è il pane quotidiano che nutre in abbondanza”, essa è la realtà della vita. Dicendo dunque che la vita è una Gjentagelsen si intende affermare che l’esistenza com’è esistita, viene a esistere ora, dando sfoggio di tutta la sua pienezza in rapporto con l’assoluto.

 

«La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso. La speranza è una donzella leggiadra che sguscia via tra le dita; il ricordo una donna anziana, bella sì, ma mai soddisfacente alla bisogna; la ripetizione una compagna amata di cui non ci si stanca mai, siccome è solo il nuovo ad annoiare. Il vecchio non annoia mai, e la presenza sua rende felici, e felice davvero sarà soltanto chi non inganna sé stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità, poiché allora verrebbe a noi».

 

Riavvolgendo ora il nostro file rouge che abbiamo cercato di sgrovigliare durante il cammino dei tre stadi esistenziali, in prima battuta possiamo affermare come il significato dell’amore sia affrontato da Kierkegaard non in termini puramente astratti e filosofici, ma egli descrive l’amore nelle sue diverse forme, alle quali corrisponde un diverso modo di amare. Un amore che a nostro avviso prende la sua forma più vera solo nell’animo religioso, l’unico capace di realizzare quell’esistenza autentica che si traduce in pensiero incarnato.

 

La riflessione poi, ci ha portato ad affrontare una delle categorie fondamentali dell’autore, quella della ripresa, una categoria che prende piena attuazione solo in virtù dell’assoluto. Nel percorso si è visto come la ripresa sia presente in tutti gli stadi del cammino della vita, ma solo alla fine essa, attraverso un atto di libera volontà, avrà il suo trampolino di lancio verso quella dimensione di certezza nell’incertezza.

 

In un certo senso possiamo affermare che l’autore ha scartato l’idea di ritorno all’uguale ancor prima che un grande pensatore come Nietzsche la mettesse al centro della sua dottrina dell’Eterno ritorno. Questa viene scartata sia per ragione di ordine logico ma sia per ragione di ordine etico, i due aspetti troveranno, come abbiamo ben visto, il punto di contro solo in quella dimensione trascendentale. La categoria della ripresa si rivela così centrale nell’uomo perché essa rappresenta quella che è la vita, la realtà della vita stessa.

 

Riprendendo ora le ultime parole del filosofo, possiamo dire che un rapporto basato esclusivamente sul rimpianto è tanto fallimentare quanto un rapporto basato sulla eterna speranza nel futuro, questi sono tutte e due modi diversi di fuggire davanti alla stessa responsabilità: quella del presente.

 

La nostra vita è qui e ora, ma non si esaurisce nel qui e nell’ora. Solo raggiungendo quella dimensione dell’assoluto ritroverà la sua natura essenziale, che dicendola con Kierkegaard è quella sintesi tra infinito e finito, eterno e temporale.

 

  

Riferimenti bibliografici:

 

Enten-Eller. Et Livs-fragment, Copenaghen, 1843; tr. it. a cura di Alessandro Cortese, Enten-Eller. Un frammento di vita, 5 voll, Milano, Adelphi, 1976- 1989.

Gjentagelsen. Et Forsøg i den experimenterende Psychologi af Constantin Constantius, Copenaghen, 1843; tr. it. a cura di Dario Borso, La Ripetizione., Milano, Bur Rizzoli, 2012.

Afsluttende uvidenskabeligt Efterskrift til de philosophiske Smuller. Mimisk-pathetisk-dialektisk sammenskrift, Existentielt Indlæg af Johannes Climacus, Copenaghen, 1846; tr. it. a cura di Cornelio Fabro, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia. Composizione mimico- patetico-dialettica, saggio esistenziale di Johannes Climacus, in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, 2 voll, Bologna, Zanichelli, 1962.

Saggi critici su Kierkegaard

Adinolfi Isabella, Il segreto di Abramo. Una lettura mistica di «Timore e Tremore», Il nuovo Melangolo, Genova, 2018.

Garff Joakim, Søren Aabye Kierkegaard. En Biografi, København, Gads Forlag, 2000; tr. it. a cura di Simonella Davini e Andrea Scaramuccia, Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, Roma, Castelvecchi, 2013.

Spera Salvatore, Introduzione a Kierkegaard, Bari, Laterza, 1993.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]