[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

180 / DICEMBRE 2022 (CCXI)


contemporanea

PER UNA PROBLEMATIZZAZIONE DEL CONCETTO DI STORIA

LO SGUARDO VIGILE DI PRIMO LEVI

di Francesco Perri

 

Abbiamo tutti in mente il fenomeno dell’antisemitismo e i suoi meccanismi contorti di negazione assoluta dell’uomo. Non solo di negazione, ma di abbattimento e di prosciugamento continuo di ogni significato umano e dunque possibile e accettabile. Nell’immaginario collettivo la realtà di questo fenomeno è indiscutibilmente documentata e registrata da ogni punto di vista, in primis da quello storico, e non potrebbe essere diversamente.

 

Il peso della storia è significativo di un processo che sta alla base dell’Olocausto: la condanna. Attraverso una rigida documentazione dei fatti, è giusto condannare il carnefice e assolvere la vittima. Proprio quello che accade nella storia antisemita dell’Italia fascista, qui l’ebreo vittima e qua il fascista carnefice, aguzzino se si vuole utilizzare una parola più forte. La condanna non è solo l’epilogo di un processo, ma diventa responsabilità e giustizia se si parla di memoria e di ricordo. Diventa concreta individuazione del pericolo da scampare e dunque da stigmatizzare senza alcuna resistenza.

 

Pur partendo dall’importanza storica della condanna, è interessante volgere lo sguardo su determinati aspetti, utili all’interno del dibattito nazionale per una comprensione onesta del fenomeno e scevra da ogni convenzionale banalizzazione.

 

Vale sempre una tale suddivisione tra vittima e carnefice? Quanto e in che modo la separazione tra i due poli risulta utile? Sono questi gli interrogativi da cui si deve partire, al fine di cogliere la complessità stessa del fenomeno e non la sua verità più ovvia, comune e, ancora una volta, convenzionale. Ebbene sì, in questa prospettiva, l’intento è lottare contro la convenzionalità dell’idea storica corrente, il che non vuol dire rivedere o peggio ancora rivalutare fatti e avvenimenti storici, ma caricarli di maggiore consapevolezza e di spirito critico, spesso assente o nullo nelle indagini storiche.

 

Primo Levi rappresenta l’apice di questa lotta, finalizzata a rafforzare la complessità del fenomeno della Shoah. Lontano in apparenza dall’idea storica presente nell’immaginario collettivo, Levi con una scrupolosità sconvolgente accentua ogni problema, partendo da una domanda fissa: la vittima è anche il carnefice?

 

Se una risposta venisse pronunciata, agli occhi di Levi, l’interrogativo rimarrebbe incompleto, non verrebbe affrontato criticamente ma solo superficialmente. Piuttosto, ci si deve impegnare a comprendere il fenomeno nella sua compiutezza. La linea che delimita il confine tra vittima e carnefice è labile rispetto all’idea che tutti abbiamo nell’antisemitismo. È questa una realtà di cui tener conto se si vuole afferrare il problema nella sua interezza, e per interezza è giusto intendere la complessità e la profondità di vedute e di riflessioni.

 

L’indirizzo di analisi non è quello di individuare chi sia la vittima o il carnefice, ma è dettato dall’urgenza di sottolineare consapevolmente asimmetrie che a partire da Levi hanno il diritto di essere esaminate nella loro complessa articolazione e non nella loro struttura più accomodante e rinunciataria.

 

L’Italiano, fascista e non, manifesta dei dubbi sull’effettivo contesto in cui vive, pone domande ed esprime incertezza a proposito del clima persecutorio degli anni che vanno dall’emanazione delle leggi razziali e che vedono umiliati e mortificati gli ebrei. Questa è una verità a cui Levi fa riferimento e che merita grande attenzione, in quanto al centro di una riflessione, come ricorda Cavaglion, decisamente inattuale rispetto ai nostri odierni parametri, con i quali siamo soliti a individuare convenzionalmente il colpevole dall’innocente.

 

Si veda, a tal proposito, quanto dice lo scrittore torinese in una conferenza pronunciata a Bologna proprio nel 1961: «Quando furono proclamate le leggi razziali avevo diciannove anni. Fra gli studenti i fascisti entusiasti erano pochi e non erano pericolosi, in generale. Anch’essi erano rimasti piuttosto perplessi davanti a quelle nuove leggi, che apparirono fin dall’inizio una stupida scimmiottatura delle analoghe e ben più feroci leggi tedesche; ma dominava un generale scetticismo da cui io stesso ero stato contagiato: era un clima di sordità e cecità a cui soccombevano tutti, studenti e professori, fascisti e antifascisti e vittime del fascismo».

 

Il tema della scimmiottatura e dello scetticismo ritorna in maniera cruciale anche nel romanzo Se non ora quando?: «Ci hanno aiutati non ‘benché’ fossimo ebrei, ma ‘perché’ lo eravamo. Hanno aiutato anche i loro ebrei; quando hanno occupato l’Italia, i tedeschi hanno fatto tutti gli sforzi che potevano per catturarli, ma ne hanno preso e ucciso solo un quinto; tutti gli altri hanno trovato rifugio nelle case dei cristiani, e non solo gli ebrei italiani, ma molti ebrei stranieri che si erano rifugiati in Italia. [...] Che cosa sia un pogrom, spiega Chaim, in Italia, non lo sa nessuno, neppure che cosa voglia dire la parola. È un paese-oasi. Gli ebrei italiani sono stati fascisti quando tutti gli italiani erano fascisti e battevano le mani a Mussolini; e quando sono venuti i tedeschi, alcuni sono scappati in Svizzera, alcuni sono andati con i partigiani, ma per la maggior parte è rimasta nascosta in città o nelle campagne, e sono stati pochi quelli che sono stati scoperti o denunciati, anche se i tedeschi promettevano molto denaro a chi collaborava con loro».

 

Alberto Cavaglion con una precisa acutezza d’ingegno afferma che se queste parole, sopra riportate, le avesse scritte un ricercatore alle prime armi, subito qualcuno avrebbe invitato a firmare un appello sdegnato contro le pericolose e dannose derive del revisionismo o peggio ancora del negazionismo. In verità a scrivere un contenuto così articolato e apparentemente contraddittorio è stato Levi, il quale offre un giudizio sul fascismo, di cui abbiamo avuto prova riportando un passo della conferenza di Bologna, o ancora sul tessuto storico italiano in generale, tutt’altro che comune. La serietà e la lucidità critica spingono l’autore ad accertare una forte complessità del tema, nella pretesa di uno sforzo continuo a ricercare l’onestà della verità, a costo anche di rendere laboriosa l’analisi del problema.

 

A questo punto è giusto chiederci quale sia la percezione dell’antisemitismo in Italia fra il 1938 e l’autunno 1943. E, ancora una volta, non manca certo la scrupolosità dello scrittore, secondo il quale la travagliata storia d’Italia di quegli anni ha “favorito la maturazione di una specie di vanità collettiva, che spinge a inghiottire i rigidi sistemi morali altrui, smorzandone gli estremi […] una forma di superiore saggezza, mascherata da alterigia: una virtù-vizio”.

 

Tale concetto viene ripreso dallo stesso autore in un articolo dal titolo Pugno di Renzo, descritto come un “viluppo di pietà, tolleranza e cinismo”. Dunque, sono queste tre, pietà, tolleranza e cinismo, le categorie attraverso le quali Levi definisce la sua percezione dell’antisemitismo.

 

L’insistenza è proiettata verso la considerazione di categorie nuove, poco considerate dall’immaginario comune, nel quale invece risultano imperanti le categorie fisse e intoccabili di vittima e di carnefice, da un lato quella del bene e dall’altro quella del male. Categorie oltre che fisse, convenzionali, in quanto dettate da uno schema consacrato nel tempo e mai messo in discussione.

 

Le tre categorie a cui fa riferimento Levi, esprimendo il suo giudizio sul 1938 e sulle leggi razziali, sono le stesse che caratterizzano la sua testimonianza della conferenza di Bologna del 1961: «Tra i compagni studenti e tra i professori non incontravo manifestazioni né di solidarietà, né di ostilità. Tuttavia, a una a una le amicizie ariane si andarono liquefacendo, eccetto per quei pochissimi che non temevano di passare per pietisti o per ‘ebrei onorari’, come suonava la terminologia fascista ufficiale. Ma, in privato, gli stessi gerarchetti del Guf ci guardavano con una certa aria di imbarazzo colpevole».

 

Un’altra fonte è tratta dall’articolo di Eugenio Gentili Tedeschi, La resistenza è cominciata in via Roma, in cui si fa riferimento all’episodio di manifesti antisemiti affissi per le strade del centro a Torino nel 1941. Secondo Gentili, a strappare quei manifesti sono stati i primi partigiani. Levi al contrario, con lo sforzo scrupoloso di comprendere fino in fondo che lo contraddistingue, ricorda la presenza delle stesse autorità fasciste rionali in quel gesto di ribellione, arrivando a proclamare una tesi inedita: «È probabile che l’episodio vada inquadrato nel profondo disaccordo che esisteva fra fascisti e nazisti sulla questione razziale». Le forze dell’ordine non esprimono una cruda avversione antisemita, ma “una debolezza rivelatrice, un vistoso timore di possibili complicazioni”, misto di pietà, cinismo e tolleranza, categorie sulle quali si basa il pensiero leviano.

 

Il punto che merita di essere sottolineato è dettato dal tentativo di sciogliere questo nodo composto dalle tre categorie individuate da Levi: dove la tolleranza finisca e lasci posto all’intolleranza, dove la pietà possa trasformarsi in crudeltà e spietatezza. Uno sforzo questo che non è dato analizzare integralmente, ma che esige di essere compiuto, al fine di garantire una visione ampia del fenomeno, nella lotta contro ogni tipo di pregiudizio schematico e riduttivo.

 

Da poco è ritornata alla luce una deposizione resa a Roma per il processo Eichmann risalente al giugno 1960, oggi custodita al Yad Vashem Archive di Gerusalemme, nella quale Levi ripercorre le fasi del suo arresto e il momento della detenzione ad Aosta. Ma la figura sulla quale si sofferma, e a noi qui interessa porre l’attenzione per garantire continuità al discorso, è quella di Fossa, il centurione fascista che lo interroga dopo l’arresto.

 

Fossa rappresenta il simbolo di quel nodo tolleranza-pietà-cinismo che in questa analisi si cerca di sciogliere: «Fossa, il cui vero nome era Ferro, era un esemplare d’uomo che non avevo mai incontrato, un fascista da manuale, stupido e coraggioso, che il mestiere delle armi (aveva combattuto in Africa e in Spagna e se ne vantava con noi) aveva cerchiato di solida ignoranza e stoltezza, ma non corrotto né reso disumano. Aveva creduto e obbedito per tutta la sua vita, ed era candidamente convinto che i colpevoli della catastrofe fossero due soli, il re e Galeazzo Ciano, che proprio in quei giorni era stato fucilato a Verona: Badoglio no, era un soldato anche lui, aveva giurato al re e doveva tener fede al suo giuramento. Se non fosse stato del re e di Ciano, che avevano sabotato la guerra fascista fin dall’inizio, tutto sarebbe andato bene e l’Italia avrebbe vinto. Mi considerava uno sventato, guastato dalle cattive compagnie; nel profondo della sua anima classista, era persuaso che un laureato non poteva essere veramente un ‘sovversivo’. Mi interrogava per noia, per indottrinarmi e per darsi importanza, senza alcun serio intendimento inquisitorio: lui era un soldato, non uno sbirro. Non mi fece mai domande imbarazzanti, e neppure mi chiese mai se ero ebreo».

 

La scelta di riportare questo preciso passo della deposizione è utile non solo per districare quel viluppo presente nel pensiero di Levi, ma anche per porre domande e interrogativi, ai quali sarebbe difficile rispondere in maniera completa e definitiva, ma che possono ugualmente rappresentare lo sforzo in questa sede di affrontare il tema nella sua complessità.

 

Ferro viene rappresentato come un fascista stereotipato, da manuale, stupido e allo stesso tempo coraggioso, aggettivi giustificati anche dall’attitudine dell’uomo ad aver creduto e obbedito per tutta la vita; non chiede mai se il prigioniero sia ebreo, domanda che reputa ‘imbarazzante’. Sono già questi i tratti sui quali soffermarsi per poter inquadrare in termini più precisi il discorso e per delineare, abbandonando ogni parametro di giudizio, è bene ricordarlo sin da ora, una traccia della presunta convenzionalità nell’idea storica corrente.

 

Per onestà e chiarezza della verità, la domanda che è giusto porsi è che cosa sapeva Ferro, in quell’istante, del futuro di un ebreo? E che cosa sapeva Levi? Che grado di conoscenza avevano, l’uno e l’altro, delle conseguenze che avrebbe avuto il dirsi ebreo?

 

Si fermerebbe qui l’analisi di Cavaglion, ma rincarando la dose, entrambi potevano mai pensare a un pericolo così forte da mortificare e umiliare parte del genere umano? O ancora, erano in grado di prevedere dove potesse spingersi la crudeltà, dove potesse portare la crudeltà se non alla morte e all’abbattimento della dignità dell’uomo?

 

D’altronde, come pensare e immaginare che si sarebbe arrivati a così tanto, quel tanto che è bastato a sterminare un intero popolo ebraico e a creare una voragine incolmabile nella storia dell’umanità?

 

Non sono solo domande retoriche, si potrebbe rispondere ma è qui il problema. Ogni risposta equivarrebbe a semplificare e a ridurre la complessità dell’indagine, degna di poter essere invece conosciuta integralmente. Nella deposizione leviana, il profilo delineato dell’Italiano fascista apparirebbe simile a quello dell’ebreo, incredulo e non consapevole del futuro che lo attende. Entrambi senza alcuna certezza e senza alcun serio obiettivo. L’impressione è che Levi stia assolvendo quel fascista che lo ha interrogato. Ma non è così.

 

Questo è l’aspetto importante ora da dover analizzare. La condanna da un punto di vista strettamente storico deve esserci, è giusto che ci sia, è giusto che quell’uomo indipendentemente dalla sua attitudine e rivestendo un ruolo ufficialmente riconosciuto, sia condannato. Si dice che Ferro aveva creduto e obbedito per tutta la vita. Questo però non basta a riconoscere la subordinazione al potere dell’uomo e dunque l’inconsapevolezza del male che avrebbe generato. La verità storica si basa sulle condanne, senza le quali la possibilità di parlare di responsabilità e di giustizia nella storia sarebbe vana. O ancora impossibile.

Tuttavia, nell’analisi offerta da Levi non compare mai la posizione della vittima lamentosa, ma neppure del giudice inflessibile se non per il dato storico di cui sopra si è parlato. Lo stile è concentrato sui dettagli e sulla veridicità della propria testimonianza. Calibra bene le cose che sa e quelle che non sa. È lucido e attento a offrire una visione non distorta né semplicistica, ma sottilmente complessa e predisposta ad essere esaminata nella sua totalità.

 

Quello che bisogna sottolineare è l’assenza di commenti superflui e comunemente vicini all’orizzonte collettivo, per il quale le categorie di base sono due, indiscutibili e insindacabili: vittima e carnefice. Vittima l’ebreo e carnefice è il fascista e il nazista.

 

Storicamente è così e deve esserlo sempre al fine di proclamare, a testa alta, l’onestà nella comprensione e nella memoria storica. Si procede, come possiamo notare, verso una precisa direzione, attraverso la quale, pur partendo dal riconoscimento della memoria storica, si cerca di abbattere la consacrazione di queste due sole categorie, mettendone in luce altre: abbiamo parlato di tolleranza, pietà, cinismo ma possiamo prenderne molte altre a dimostrazione del fatto che non esista una separazione netta tra i due poli. Il confine resta labile, come labili sono le categorie che potrebbero appartenere sia all’una che all’altra parte.

 

Se si comprendesse un tassello di questo genere nello storico mosaico della Shoah, si inizierebbe finalmente a lottare contro la convenzionalità di schemi e dicotomie, troppo spesso diffusi nell’opinione corrente. L’abbattimento non è focalizzato sulla valenza storica degli avvenimenti e dei meccanismi che la storia stessa abbia nel tempo generato, ma si concentra sull’idea di estendere il proprio raggio d’azione, di espandere la mente e il pensiero dell’uomo, a costo anche di problematizzare la sola verità di cui disponiamo.

 

Il fascista è sempre stato aggressivo, violento, aguzzino nei confronti degli ebrei? Nella quasi totalità dei casi sì. Ma di questa totalità fa parte anche il gruppo minuto di fascisti di cui parla Levi e dei quali sottolinea dati e categorie mai illuminati nel dibattito storico nazionale: l’incredulità, lo scetticismo, addirittura l’imbarazzo. Ferro diviene il rappresentante di questo gruppo. Incredulo, scettico, imbarazzato e mai violento nei confronti del catturato ebreo. Questo non vuole dire assolvere il fascista carnefice, ma significa presentare sul tavolo delle indagini un elemento in più che, per quanto scomodo e inattuale, merita di essere preso in considerazione con cautela e giusto spirito critico. Ecco perché l’intento di cui si è parlato all’inizio mira a problematizzare una concezione statica e fissa nella sua organizzazione interna.

 

La problematizzazione coincide dunque con l’accettazione che il confine tra i due poli, vittima e carnefice, non sia possibile tracciarlo in maniera netta, ma solo in maniera labile. Solo cosi forse, con questo tassello aggiunto, l’onestà per il fenomeno della Shoah può essere garantita e rispettata. Il tassello di una verità che ammette di parlare anche dei carnefici in maniera inedita e a tratti paradossale, pur partendo dalla loro condanna nella storia.

 

Si rafforza pertanto la consapevolezza di un fenomeno complesso. Complesso in quanto disomogeneo e asimmetrico. Ma degno di essere studiato fuori da ogni semplificazione e riduzione possibile.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

D. Amsallem, Le symbolisme du chien: Primo Levi et la littérature juive après la Shoah, in “Chroniques Italiennes”, nn. 33-34, 1993.

W. Barberis, Storia senza perdono, Einaudi, Torino 2019.

M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda Editore, Milano 2015.

Cultura della razza e cultura letteraria nell’Italia del Novecento, a cura di S. Gentili e S. Foà, Carocci, Roma 2010, pp. 273-279.

F. Isman, 1938, l’italia razzista. I documenti delle persecuzioni contro gli ebrei, Guida, Napoli 2018.

P. Levi, Se non ora quando?, Einaudi, Torino 1997.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]