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medievale


N. 141 - Settembre 2019 (CLXXII)

l'esperienza comunale in italia

formazione e sviluppo

di Gian Giacomo Bonaldi

 

Il fenomeno comunale italico si inserì in un processo di autogoverno urbano che interessò più zone dell’Europa, favorito dalla generale ripresa demografica ed economica; solo nell’Italia centro-settentrionale, però, si arrivò all’indipendenza politica.

 

Al sud del Paese il processo venne interrotto quando, nel 1130, Ruggero II d’Altavilla formò il Regno di Sicilia, creando così una forte controparte monarchica alle rivendicazioni cittadine – come succedeva nel resto d’Europa – anche se più di un centro urbano mantenne una forte identità.

 

Un’altra peculiarità dell’evoluzione comunale italica fu la fonte dell’iniziativa politica: essa non si dovette ai soli ceti mercantile e artigiano, ma collaborarono alla formazione del comune anche gli elementi di spicco della società precomunale (come i funzionari imperiali), gli aristocratici cittadini o trasferitisi dalla campagna, i ricchi proprietari fondiari, i giudici, i notai.

 

Nelle generali similitudini, comunque, i fattori scatenanti non furono sempre gli stessi: le rivendicazioni politiche vennero alimentate ora dalla diffusa avversione ai detentori del potere, ora dalle lotte tra aristocratici e mercanti-artigiani che cercavano sempre più forza politica. Per di più, le diverse evoluzioni dei comuni italiani furono lente e senza nette scansioni temporali.

 

Lo sviluppo di questi autogoverni fu decisamente favorito dall’absentia regis, per usare le parole di Ottone vescovo di Frisinga, zio di Federico I Barbarossa: le difficoltà per gli imperatori germanici a intervenire in Italia erano sempre state presenti a causa dei fattori geografici e il fenomeno si accentuò durante le lotte tra Impero e Papato per le investiture (dalla metà dell’XI secolo al 1122), fino ad arrivare a un buco totale di controllo imperiale sull’Italia tra il 1125, anno di morte dell’ultimo imperatore di Franconia Enrico V, e il 1150.

 

A ciò si aggiungevano gli interventi teorici dei grandi intellettuali come Bartolo da Sassoferrato, il maggiore giurista medievale, il quale sosteneva che le città che non riconoscevano un potere superiore rappresentassero l’ideale di governo più vicino a Dio.

 

I grandi centri urbani di età antica erano sopravvissuti, anche se in condizioni talvolta molto difficili, come sedi vescovili. Il vescovo aveva il controllo della città, affiancato dalle più influenti famiglie locali che componevano la grande aristocrazia cittadina (i milites, dai quali spesso il vescovo proveniva). Con un patto di concordia, o coniuratio, queste famiglie gradualmente si ritagliarono un effettivo spazio di potere, sostituendosi all’imperatore nella conservazione della città.

 

Questo processo vide prima l’esautoramento del conte (che di fatto si era già spostato nel contado, esercitando solo lì il proprio ruolo di funzionario pubblico) da parte del vescovo e delle famiglie a lui vicine e poi, dalla fine dell’XI secolo, l’allontanamento dal potere anche del vescovo da parte di quelle stesse famiglie e di altre emerse nel frattempo. Dove era forte l’autorità vescovile ci fu un primo periodo di coesistenza di vescovo e comune, in quanto il potere del primo, anche fuori dalle mura, era utile alle nuove forze politiche per sostituirsi a esso.

 

L’esautoramento del conte prima e del vescovo poi non furono violenti, in quanto entrambi non fecero resistenza per mantenere il controllo della città; gli scontri armati avvennero, invece, quando le città cercarono di togliere il potere ai signori anche nel contado. Le università che stavano prendendo forma nelle città rappresentavano la formazione di un gruppo sempre più ampio di elementi in grado di governare.

 

Convenzionalmente si considera come data d’inizio del comune quella del primo documento che attesti la presenza di un console: tra le prime si annoverano quindi Pisa (1090 ca.), Milano (1097) e Genova (1099), seguite a breve distanza da diverse altre città; a Venezia il doge era già presente da tempo, ma solo dalla metà del XII secolo si parlerà espressamente di commune Veneciarum.

 

Il caso di Pisa è particolare, perché già qualche anno prima del 1190 si stava sperimentando un governo di “consoli”, che venivano scelti, come già accadeva per i vescovi, all’interno dell’aristocrazia urbana locale; ciò rendeva inutile la loro elezione, quindi, come limite alle faide tra le famiglie. Per questo motivo ci si rivolse a Daiberto, primo arcivescovo della città e futuro primo patriarca latino di Gerusalemme, che tra il 1088 e il 1092 emanò il lodo delle torri, famoso non tanto per le limitazioni alle costruzioni e agli innalzamenti delle torri difensive, quanto per la delega della vigilanza di queste limitazioni al popolo pisano: le querele sarebbero stato presentato al “comune colloquio della città”, le eventuali modifiche al lodo al “comune consiglio della città”.

 

Non è chiaro cosa fossero quei “consiglio” e “colloquio”, forse due nomi per la stessa cosa, così come altrove si usarono arengo (di origine germanica), concio o parlamentum: di base si trattava di un’assemblea di cittadini maschi e maggiorenni senza una precisa identità costituzionale ma convocata per conflitti, incertezze o convalide dell’incarico dei consoli. Ciò che conta, è che il governo della città si allargava a nuovi protagonisti.

 

Con una forte carica simbolica, l’assemblea pisana si riuniva nella curia marchionis, dove cioè i marchesi carolingi di Toscana tenevano le sedute giudiziarie: il lodo di Daiberto è stato quindi identificato come prima carta costituzionale del comune, distinguendo il momento in cui comparvero le prime figure definibili come consoli e il momento in cui invece alla gestione della città partecipò effettivamente l’intera cittadinanza (intendendo sempre i capifamiglia o, al massimo, gli individui maschi in età adulta).

 

A Milano la formazione del comune partì invece dalle rivendicazioni di quelli che nelle fonti vengono indicati come milites minori, i quali puntavano a ottenere l’ereditarietà dei beni ottenuti dai milites maggiori. Dopo un lungo periodo di tensioni, che vide intervenire l’imperatore Corrado II con la Constitutio de feudis e poi un violento scontro tra la parte aristocratica e quella popolare della città, cui si aggiunsero anche la riforma della Chiesa e la lotta per le investiture, per il 1097 compaiono le prime testimonianze scritte della coniuratio fra le famiglie più importanti e la prima apparizione nei documenti della magistratura consolare.

 

Anche a Roma, nel 1143, il popolo riuscì a formare un comune cacciando il papa (dopo un periodo che aveva visto opporsi due pontefici): la formazione di un comune era già avvenuta nei territori pontifici, ma non nel Lazio dove il potere delle famiglie romane era enorme.

 

In generale, i consoli restavano in carica sei mesi o un anno, variando da due a decine di elementi. Nel primo periodo comunale, le loro decisioni dovevano essere approvate dal parlamento (che, come visto, aveva diverse denominazioni), l’assemblea degli uomini in età adulta o dei capifamiglia, non solo dell’élite; solitamente le città medie non raggiungevano i 5.000 abitanti. Questa assemblea sostituiva l’equivalente conventus davanti alla cattedrale, tipico del periodo vescovile. Essa venne affiancata e gradualmente a sua volta sostituita da consigli minori, la cui elezione dei membri (così come quella dei consoli) variava da città a città. Il comune era prima di tutto esigenza di partecipazione.

 

Le caratteristiche comuni di questi “consigli” erano la votazione (si parla di maggioranza anche nel lodo di Daiberto) e la probabile presenza di consiglieri eletti che facilitassero l’espressione della volontà delle migliaia di persone che si riunivano in piazza – così sono stati interpretati i boni o sapientes menzionati nelle fonti.

 

Tutti i brevi dei consoli legavano ufficialmente gli affari di guerra al volere dell’assemblea, ma va considerato che senza il consenso dei milites, unici in grado di armarsi efficacemente, la città non avrebbe avuto un reale esercito.

 

A ogni modo, il consenso della collettività era necessario, per la guerra e quindi anche per le alleanze: a Milano l’atto di adesione alla Lega lombarda fu acclamato in piazza il 31 dicembre 1167 ripetendo per nove volte “sia”. Federico I Barbarossa, preoccupato per quelle che alla dieta di Roncaglia del 1158 definì con disprezzo “conventicole”, si affrettò a vietarle.

 

Poiché dopo secoli si tornava a parlare di assemblee cittadine, molti storici hanno voluto trovare dei precedenti embrionali in diversi riferimenti altomedievali a “popolo”, “conventum” e “assemblatorio”.

 

Nell’Ottocento risorgimentale arretrare il più possibile le origini del fenomeno comunale serviva a sottolineare il prestigio della cultura italica, ma Lorenzo Tanzini, occupandosi di questo argomento, ha osservato come di quelle forme di assemblea si sappia troppo poco per poter giungere a conclusioni; semmai, sembrerebbe trattarsi più di occasioni rituali per rafforzare l’identità della città, senza che la comunità si sostituisse al ruolo centrale del vescovo.

 

È possibile individuare più similitudini tra l’organizzazione comunale e le antiche assemblee germaniche, delle quali già Tacito aveva osservato il peso superiore a quello dello stesso sovrano: nell’Editto di Rotari si parla di “conventus ante ecclesiam”, la riunione davanti a un luogo sacro, ed emerge il carattere fortemente militare delle assemblee; a sostegno di questa tesi c’è anche il termine germanico arengo, che ha dato il nome al luogo di riunione dei consigli in molte città lombarde (arengario). Anche qui, però, i dati certi non permettono di andare oltre le ipotesi.

 

A ogni modo si parlava di “consilium” già da prima del lodo di Daiberto, come uno dei doveri che il vassallo aveva nei confronti del signore. Un documento Trevigiano del 1207, che verosimilmente riportava formule già in uso da tempo, dimostra come la terminologia dei milites fosse stata traslata nella nuova forma di governo, che prevedeva proprio i “consigli” da parte di tutti i partecipanti all’assemblea.

 

Anche nel mondo della Chiesa, al quale meno direttamente si assocerebbe l’idea di assemblea consiliare, erano invece presenti importanti esempi di consilia: primo fra tutti quello dei monasteri. La Regola di san Benedetto, ad esempio, prevedeva chiaramente che per ogni decisione l’abate convocasse tutti i fratelli per ascoltare l’opinione di ognuno, pur tenendo in maggior conto il consiglio dei monaci più autorevoli per evitare la creazione di fazioni in disaccordo. Nella Bibbia, poi, si trova più di un riferimento all’importanza dei consigli per agire correttamente.

 

I giuristi della Chiesa, dunque, trattarono il tema del consiglio sia dalle testimonianze bibliche che dalle fonti classiche: dal Codice giustinianeo venne ripresa la formula secondo la quale quello che tocca tutti deve essere approvato da tutti (quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet) – in realtà riferita al solo ambito della tutela dei minori e degli inabili, ma recuperata come massima generale. Innocenzo III fu il primo ad applicarla, vincolando al parere del capitolo cattedrale la nomina dei rettori delle chiese rurali da parte del vescovo.

 

Il quod omnes tangit si sarebbe diffuso anche nelle città comunali e nei parlamenti dei regni europei, ma rimaneva utopico il raggiungimento di una concordia comune: mentre nella Chiesa poteva rimanere vigente il principio dell’autorevolezza del parere, nei consigli cittadini questa politica non era attuabile.

 

Questa era dunque la situazione in Italia all’alba del XII secolo: le città andavano a sopperire all’assenza di un forte potere superiore con lo sviluppo di organizzati autogoverni, che cercavano un’ideale partecipazione dell’intera cittadinanza maschile; nei fatti rimanevano, come è naturale aspettarsi, elementi decisamente più potenti di altri.

 

Ciò non toglie la straordinaria importanza dello sviluppo comunale italico, che si distingueva dal resto d’Europa proprio per la maggiore autonomia e la partecipazione di diverse fasce sociali. Nonostante le generali similitudini, ogni città seguì un proprio percorso, dai motivi che avviarono la formazione del comune alla strutturazione dello stesso.

 

Si è discusso su quanto indietro nel tempo possano essere ricercate le origini dell’esperienza comunale, su quali elementi esterni possano averla ispirata, ma al momento le fonti garantiscono dati certi solo a partire dall’effettiva nascita dei comuni dalla fine dell’XI secolo in poi. In realtà anche per il primo periodo i dati non sono ricchi, bisognerà aspettare la fase podestarile, con la definizione dei più efficienti consigli ristretti e di una burocrazia più organizzata, per avere fonti più complete e attendibili.



 

 

 

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