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N. 145 - Gennaio 2020 (CLXXVI)

Nuovo anno, vecchio business

Il commercio di armi nel 2018

di Gian Marco Boellisi

 

Si è appena concluso il 2019 e, come è solito fare in queste occasioni, è tempo di bilanci. Lo è nella vita quotidiana, in economia, in politica, ovunque. È interessante vedere come molte cose cambino con il passare del tempo, si evolvano, assumano diverse forme. Altre cose invece non cambiano mai.

 

Nel contesto internazionale un esempio di ciò è rappresentato dal commercio internazionale di armi e armamenti, in costante crescita da alcuni decenni a questa parte e senza alcun segnale di freno. Anzi, tutto il contrario. Gli innumerevoli scenari di crisi e instabilità globali, le minacce asimmetriche e le svariate guerre di procura nel mondo hanno portato le nazioni a rispondere alla crescente insicurezza con l’unica via ai loro occhi risolutiva, ovvero armarsi.

 

Sappiamo benissimo come politiche di questo tipo nei secoli passati abbiano portato a conflitti estremamente sanguinosi, di cui la Prima Guerra Mondiale è l’esempio più eclatante ma di certo non l’unico, senza che però ciò abbia insegnato nulla ai governanti succedutisi nel tempo. Nonostante dati aggiornati riguardanti il commercio di armi siano sempre di difficile reperibilità, è interessante analizzare quanto di dominio pubblico per comprendere cosa si cela dietro questo distruttivo quanto vitale commercio per la sopravvivenza economica e strategica degli stati moderni.

 

In attesa di un bilancio dell’anno appena conclusosi, la nostra analisi si baserà su uno studio sul commercio internazionale di armi riferito all’anno 2018 pubblicato nel dicembre 2019 dal SIPRI, ovvero lo Stockholm International Peace Research Institute (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma). Questo “think tank” è un istituto internazionale indipendente attivo dal 1966 nel monitoraggio dei conflitti, del traffico legale e illegale di armi e in generale sulle politiche di disarmo negli scenari di crisi. Il lavoro pubblicato dal SIPRI raccoglie le prime 100 compagnie al mondo per produzione di armi e ne analizza i trend e le dinamiche.

 

È importante premettere che molte di queste aziende hanno importanti partecipazioni statali, quindi, nonostante esse figurino come private, sono in tutto e per tutto espressione massima della politica estera dei propri stati di appartenenza. Questa classifica raggruppa società provenienti da ogni nazione del globo a esclusione della Cina, della quale si parlerà più avanti.

 

Nel 2018 le vendite di armi di queste 100 compagnie rappresentavano un volume pari a 420 miliardi di dollari, registrando un aumento del 4,6% rispetto al 2017. Questo importante aumento di guadagni è dovuto in particolar modo alle prime 5 classificate, le quali hanno tutte sede negli Stati Uniti e hanno registrato un importante incremento tra il 2017 e il 2018 a seguito delle politiche di Washington in tema di armamenti. Nel mercato delle armi esistono dei veri e propri colossi industriali, rappresentati dalle prime 10 società raggruppate dalla classifica del SIPRI. Per dare un’idea dei volumi di affari di queste 10 società, esse hanno dei ricavi pari a 210 miliardi di dollari su un totale di 420 dell’intera classifica. In pratica il monopolio applicato alla guerra.

 

Come accennato in precedenza, tutte queste società appartengono ai più disparati paesi. Come ci si può aspettare, il primato per numero va agli Stati Uniti, i quali detengono 43 compagnie su 100. Da sole esse detengono il 59% del mercato delle armi e della guerra nell’anno 2018, a testimonianza del fatto che, per quanto l’America sia un egemone in declino, essa è ben lontana dal cedere il proprio trono di paese più potente al mondo ancora per svariati anni a venire.

 

Fatturando 246 miliardi di dollari, le aziende americane hanno aumentato le proprie vendite del 7,2% rispetto all’anno precedente. La più grande tra esse, ovvero la celeberrima Lockheed Martin, non solo è la più grande compagnia americana ma è anche la prima venditrice di armi e armamenti al mondo. Da sola la Lockheed costituisce l’11% delle armi vendute nel mondo nel 2018, con una crescita del 5,2% rispetto all’anno precedente. Giusto per rendere l’idea di quanto sia grande questo titano degli armamenti, la Lockheed Martin è la prima produttrice di armamenti al mondo in termini di guadagni in miliardi di dollari dal 2009 a oggi senza mai essere stata scalzata da nessuno.

 

In attività sin dagli anni della Seconda Guerra Mondiale, inaugurò il proprio successo proprio durante questo conflitto con la produzione in massa con aerei di grande successo, quali i P-38 Lightning. Da allora la Lockheed ha visto una costante crescita fino ad arrivare alla vetta dell’industria degli armamenti al giorno d’oggi. Tra le cause che hanno portato a un aumento dei guadagni in questi anni sicuramente ha inciso in maniera significativa l’aumento degli ordini dei caccia bombardieri stealth F-35. Questi, nonostante le critiche di alcuni paesi, incluso l’Italia, risulta essere probabilmente il più avanzato velivolo che a oggi l’essere umano sia mai riuscito a far librare da terra.

 

Il Dipartimento della Difesa statunitense ha dichiarato che l’aumento generale delle spese militari delle compagnie americane è stato necessario come contromisura per contrastare i propri avversari strategici nel globo, ovvero Cina e Russia. Un’altra causa concomitante, al momento di peso minoritario, ma negli anni di certo non più, è stata probabilmente la revisione della strategia missilistica statunitense a seguito dello scioglimento del trattato INF, ovvero l’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty.

 

Questo trattato è stato abbandonato da Stati Uniti e Russia, riportando i due paesi a effettuare grossi investimenti sui missili a media gittata. Le conseguenze della fine di questo importante trattato al momento non sono percettibili nel contesto internazionale, ma questa situazione di equilibrio instabile per certo non si manterrà a lungo.

 

Dal 2017 in poi, gli Stati Uniti hanno iniziato a perseguire una politica generale di ammodernamento dei propri armamenti: dalle ricerche per adottare un nuovo fucile d’assalto con calibro maggiore alla classica cartuccia 5.56x45 mm N.A.T.O. agli investimenti in ambito missilistico, dallo sviluppo di componenti Hi-Tech oggigiorno sempre più vitali in un campo di battaglia agli studi di fattibilità per realizzare un nuovo carro armato in sostituzione ai vecchi M1 Abrams.

 

Washington è ben conscia che la sua posizione in ambito internazionale, se vuole essere mantenuta, è fortemente dipendente dalla componente militare. Qualora questa venisse a mancare, o anche solo si indebolisse rispetto alla forza preponderante che ha in questo momento, le conseguenze politiche per gli Stati Uniti sarebbero difficilmente quantificabili. Questo tipo di politica da parte del governo ha portato i grossi colossi dell’industria bellica a muoversi rapidamente. Essi infatti hanno letteralmente fagocitato molte piccole realtà del settore pur di acquisire il più vasto know-how possibile nonché la più grossa fetta di mercato prima dei competitor.

 

Tali dinamiche ci portano anche a dedurre che vi è una profonda riorganizzazione nelle politiche strategiche di Washington. Basti pensare che l’ultima volta che si assistette a sviluppi simili fu a metà degli anni ’90, poco dopo la fine della Guerra Fredda, proprio quando gli Stati Uniti cercarono di diventare egemoni dell’intero contesto internazionale, fallendo il loro progetto solo qualche anno più tardi.

 

Passando ora dall’altro lato dell’oceano, il Vecchio Continente si difende egregiamente quando si tratta di commercio di armi, come dimostrato innumerevoli volte nel corso della storia. Tra le prime 100 società d’armi, 27 sono europee con guadagni per 102 miliardi di dollari, registrando un aumento dello 0,7% rispetto al 2017 e una fetta del 24% del commercio di armi mondiale. Di queste 27 compagnie, 8 sono inglesi, 6 francesi, 4 tedesche, 2 italiane, 1 polacca, 1 spagnola, 1 svedese, 1 svizzera e 1 ucraina. Le ultime 2 da enumerare, ovvero Airbus Group and MBDA, sono considerate trans-europee poiché aventi sedi in più paesi dell’Unione Europea.

 

Tra tutti gli stati europei, è la Gran Bretagna a ritagliarsi la fetta maggiore di mercato. Le vendite inglesi da sole registrano guadagni per 35,1 miliardi di dollari, costituendo l’8,4% del mercato mondiale di armamenti. Nonostante questi valori siano estremamente alti per un singolo stato come la Gran Bretagna, le compagnie inglesi hanno subito un calo importante nel 2018 rispetto all’anno precedente, ricalcando un trend generale europeo. La Francia è al secondo posto in Europa e raggiunge i 23,1 miliardi di dollari, soddisfacendo da sola il 5,5% del mercato mondiale. Anch’essa tuttavia ha subito una flessione nel corso del 2018. Stesso destino per la Germania, la quale con 8,4 miliardi rappresenta il 2,0% del valore mondiale del mercato.

 

Per non dimenticare nessuno, come non poter parlare dell’Italia, all’apparenza sempre defilata quando si parla del business della difesa, ma storicamente tra i più grossi produttori di armi nel mondo. Basti pensare che la celeberrima Beretta, compagnia leader nella produzione di pistole e fucili d’assalto con sede a Brescia, è l’azienda di armi più vecchia nel mondo. Risale infatti al 1526 il primo contratto in cui Mastro Bartolomeo Beretta ricevette una commessa per 185 canne di fucile da parte della Serenissima Repubblica di Venezia.

 

L’industria bellica in Italia ha registrato guadagni per 11,7 miliardi di dollari, corrispondenti al 2,8% del totale del mercato globale. Leonardo, da anni fiore all’occhiello dell’industria italiana nel mondo, è l’ottava società produttrice di armi nel mondo, registrando vendite per 9,8 miliardi nel 2018 con un aumento del 4,4% rispetto al 2017. La seconda società italiana tra le prime 100 è Fincantieri, la quale ha registrato un fatturato di 1,9 miliardi di dollari, aumentato rispetto al 2017 dell’8%. La grandezza di questi numeri testimonia ampiamente quanto gli italiani non siano solo “pizza e mandolino” agli occhi dei nostri partner internazionali.

 

Nonostante l’importanza delle cifre finora riportate, i veri colossi europei degli armamenti sono rappresenti dalle cosiddette società trans-europee, le quali insieme hanno avuto ricavi per 15,5 miliardi nel 2018. La prima è Airbus Group, compagnia classificatasi settima tra 100, la quale ha venduto armamenti e tecnologie militari per 11,7 miliardi, il 9% in più rispetto al 2017. Questo importante incremento è stato dovuto per lo più alla vendita di svariati elicotteri da guerra e di aerei da trasporto A400M. La seconda invece è MBDA, la quale è impegnata prevalentemente nella produzione di missili. Questa compagnia ha avuto guadagni per 3,8 miliardi di dollari, il 4,4% in più rispetto al 2017.

 

Spostandoci ancora più a est incontriamo la Russia, la quale risulta essere un contesto che merita di essere trattato a parte proprio come gli Stati Uniti. Tra le 100 maggiori compagnie di produzione di armi, 10 sono russe con un volume di ricavi totale di 36,2 miliardi di dollari, in leggera flessione del 0,4% rispetto al 2017. Con queste cifre la Russia costituisce da sola l’8,6% del fabbisogno mondiale di armamenti. Per quanto le cifre siano elevate, non sono neanche lontanamente comparabili con quelle degli Stati Uniti, sia in termini qualitativi che quantitativi. Basti pensare che tra le prime 10 società al mondo ve ne è solamente una russa. Già solo questo dato ci porta a capire quanto la vera competizione odierna nello scenario internazionale non sia più tra Mosca e Washington, come invece siamo ogni tanto indotti a pensare, ma si sia spostata verso altri epicentri.

 

Per quanto ridotto enormemente dopo la fine della Guerra Fredda, l’apparato industriale russo rimane ancora oggi uno dei maggiori al mondo, specialmente quello orientato verso le tecnologie belliche. Questo retaggio, insieme ad alcune politiche dell’amministrazione Putin degli ultimi anni, fanno sì che la Russia risulti essere il secondo esportatore di armi al mondo subito dietro gli Stati Uniti. In generale si può notare un forte trend crescente nell’export della difesa russo nel periodo che va dal 2009 al 2018. Ciò prevalentemente a causa del piano di ammodernamento delle forze armate russe previsto nell’intervallo di tempo 2001-2020, il quale si traduce in una forte richiesta interna di armamenti, e in misura minore anche all’export verso compratori esteri. Nonostante i rosei propositi, questo progetto ventennale ha dovuto subire dei forti ritardi dal 2014 in avanti a causa delle sanzioni internazionali contro la Russia a seguito dell’annessione della Crimea. Ciò ha portato a una riduzione generale dei budget d’investimento, causando anche ritardi nella produzione di alcuni componenti che altrimenti sarebbero già da tempo in dotazione diffusa a tutto l’esercito russo o anche nella semplice manutenzione di asset ormai datati (un esempio fra tutti la portaerei Admiral Kuznetsov).

 

Tra le 10 società russe classificate tra le prime 100, Almaz-Antey è la maggiore. Essa ricopre la nona posizione all’interno della classifica, con guadagni pari a 9,6 miliardi di dollari nel 2018 e un incremento degli utili del 18% rispetto al 2017. Questo vertiginoso consolidamento è spiegabile sicuramente con un aumento della domanda interna russa di armamenti di nuova generazione, ma anche con un contributo importante da parte dell’export. In particolare, la vendita dei sistemi missilistici terra-aria S-400 ha un grande peso all’interno della società. Per dare un’idea della crescita esponenziale che ha avuto questa importante compagnia, dal 2009 al 2018 Almaz-Antey è passata dal 24° al 9° posto nella classifica delle prime 100 società al mondo, aumentando ogni anno sempre maggiormente i propri guadagni.

 

È però doveroso ricordare che tutte le compagnie russe presenti nella lista sono di proprietà esclusiva dello stato e perciò risultano essere dipendenti dalle politiche del Cremlino, sia per quanto riguarda il fabbisogno dell’esercito russo stesso di armi sia per quanto riguarda i contratti esteri verso gli alleati della Russia. Inutile dirlo, questo risulta essere un fattore di intrinseca debolezza da parte del settore della difesa russo, motivo per cui il governo sta tentando da alcuni anni a questa parte di differenziare la produzione bellica delle industrie, cercando di coinvolgerle attivamente anche nel settore civile.

 

Un caso a parte nella nostra analisi è costituito dalla Cina, la quale non presenta alcuna società tra le 100 compagnie produttrici di armi classificate dal SIPRI. Ciò tuttavia non perché la Repubblica Popolare non sia una produttrice di armi, ma perché non vi sono dati sufficienti affinché si possa fare una stima delle vendite di armamenti da parte delle società di Pechino. Questo delinea una precisa strategia del governo cinese di non rendere pubblica la propria capacità produttiva militare e quindi il suo potenziale effettivo.

 

Grande o piccolo che questo sia, è sicuramente una mossa scaltra da parte della Cina poiché qui tutte le aziende sono di proprietà dello stato. Quindi sapere la capacità di produzione di armi delle società cinesi equivale a conoscere le capacità reali di Pechino. Nonostante questa assenza di informazioni, si possono effettuare delle stime su 3 compagnie di armamenti cinesi in particolare, che risulterebbero tra le più grandi esistenti al mondo. Tutte e 3 queste società infatti rientrerebbero facilmente tra le prime 10 al mondo per produzione di armamenti. Esse sono AVIC, NORINCO e CETC. Almeno altre 7 società cinesi rientrerebbero probabilmente tra le prime 100 società al mondo di produzione di armi, tuttavia essendo i dati in merito insufficienti è impossibile stabilirlo con certezza.

 

Per quanto riguarda il resto del mondo, alcuni altri grandi produttori di armi sono Giappone, Israele, India, Sud Corea e anche Turchia. Escludendo dai conti Stati Uniti, Russia ed Europa, le vendite di armi da parte degli altri attori globali ammontano a 36,2 miliardi di dollari, rappresentando l’8,6% del commercio mondiale. Da questo semplice dato si può dedurre come i “big players” nel campo degli armamenti siano anche i principali attori della scena politica internazionale. Seguire il flusso di armi ormai equivale a osservare i veri interessi politici e strategici degli stati moderni, motivo per il quale non sempre vi è chiarezza dei dati a riguardo.

 

In generale il trend che si evince da questa lunga analisi è che il commercio di armi a livello mondiale è in costante crescita. Alcuni stati più di altri stanno osservando un’importante e costante sviluppo in questo settore, soprattutto in virtù di determinate scelte politiche avvenute negli ultimi 20 anni. Basti pensare che delle 100 società considerate in questo studio, 70 sono situate tra Stati Uniti ed Europa, pesando per un 83% del totale commercio di armi mondiale. I ricavi sono enormi, pari a 348 miliardi di dollari, il 5,2% in più rispetto al 2017.

 

La cosa interessante è che, indipendentemente dallo schieramento politico delle amministrazioni che si susseguono negli anni all’interno dei vari paesi, la tendenza di tutti i grandi attori internazionali è quella di investire sempre maggiori risorse negli armamenti e nella tecnologia militare in generale, sia per esercitare una certa deterrenza nei confronti dei propri competitor sia per ottenere un vantaggio preponderante in zone di crisi e conflitto ove le proprie forze nazionali o quelle supportate indirettamente sono coinvolte.

 

L’unica nota in controtendenza è rappresentata dalla Cina, la quale non vuole far trapelare dati riguardo alle proprie capacità reali in modo da non scoprire le proprie carte prima del tempo. Essendo Pechino impegnata nel raggiungere importanti traguardi sia sul fronte interno che su quello estero, questo tipo di movimento rispecchia perfettamente il modus operandi discreto, silenzioso ma allo stesso tempo inarrestabile del dragone cinese.

 

Un altro andamento estremamente interessante che si può notare è la leggera flessione delle aziende con sede in Europa. A parte l’italiana Leonardo che costituisce nel mondo un vero e proprio colosso tecnologico, in generale le compagnie europee hanno registrato una diminuzione dei propri guadagni a favore invece dei propri competitor esteri. Questo è un interessante parallelismo con lo scenario politico globale. Infatti l’Europa risulta sempre meno protagonista a livello internazionale rispetto ad altri attori, quali Russia, Cina e Stati Uniti. A detta di molti studiosi infatti la vicenda portante del Novecento è stata la fine della centralità dell’Europa all’interno del contesto internazionale, e in questi 20 anni del nuovo secolo ne abbiamo avuto sempre più la prova. 

 

Nonostante queste considerazioni, la conclusione principale che può essere tratta da quest’analisi è che la guerra risulta essere uno tra i business più proficui esistenti oggi sul pianeta e le nazioni tutte ne sono pienamente consce. Per quanto siamo abituati a vedere sempre più spesso le immagini strazianti dei conflitti in giro per il mondo, ciò che spesso dimentichiamo è che svariati attori internazionali sono più che interessati a mantenere questo status quo di costante tensione.

 

Considerando che questa analisi non ha minimamente tenuto conto del traffico illegale di armi, vera e propria economia ombra nascosta agli occhi di tutti, possiamo solo immaginare quanto questi traffici influenzino le nostre vite direttamente e indirettamente. Fiumi di parole vengono spese tutti i giorni dalle grandi potenze per limitare le violenze in questa piuttosto che quell’altra area del mondo.

 

Tuttavia è doveroso ricordare che i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che teoricamente dovrebbero essere gli stati impegnati in prima linea per il mantenimento della pace nel globo, sono anche i 5 stati maggior produttori ed esportatori di armi al mondo. Per loro la guerra non è una tragedia da scongiurare, ma solo un business da alimentare, rendendo quanto mai attuale e sfruttando a proprio vantaggio l’antico detto romano “si vis pacem, para bellum”.



 

 

 

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