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                          N. 3 - Marzo 2008 
                          
                          (XXXIV) 
									
									
									
									IL COLORE DEL CAMALEONTE 
									
									
									
									Viaggio nel mondo 
									dell’informazione che ha raccontato la 
									seconda repubblica 
									
                                    
									di Cristiano Zepponi 
						
                                      
						
						Penso 
						da diverso tempo a questo tema, con una certa intensità; 
						è diventato, devo ammetterlo, una sorta di chiodo fisso. 
						  
						
						
						Innanzi tutto, mi riservo il diritto di non considerare 
						questa inchiesta (o comunque la si voglia definire) un
						articolo, nel senso letterale del termine, ma 
						piuttosto un esperimento. Ciò, naturalmente, se 
						non assopisce i miei doveri di completezza, chiarezza e 
						dimostrazione di ogni tesi, ed ogni polemica, 
						sottintende la necessità di godere di una certa dose di
						pazienza, eventualmente concessa da parte del 
						lettore. 
						
						
						Solitamente, temi così imponenti necessitano di 
						schematizzazioni, scalette, divagazioni misurate e 
						percorsi lineari, né dubito della razionalizzazione e 
						semplificazione che da ciò deriverebbe, ai Vostri occhi. 
						  
						
						
						Tuttavia, ho scelto consapevolmente (accettando in pieno 
						la possibilità di sbagliare) la formula di un “viaggio”, 
						per così dire, improvvisato, che trascenda i luoghi ed i 
						tempi, per mostrare come alcune dinamiche rimangano 
						stabili, pur alterando la messa a fuoco (e l’obiettivo) 
						dell’indagine. 
						
						Ho 
						scelto questa via perché ritengo che queste variabili, 
						comunque le si giudichino, siano diventate 
						strutturali, in un mondo comunque (e come sempre) 
						variegato e strabiliante. 
						
						  
						
						
						Ritengo, come molti, che l’informazione sia il “cane da 
						guardia” del potere, come si usa dire negli States; che 
						non possa esserci democrazia, né politica senza di essa, 
						tanto è profondo il legame tra i rappresentanti del 
						popolo (i quali, checché ne dicano i benpensanti, 
						mentono per mestiere) ed i giornalisti (i quali, checché 
						ne pensino molti di loro, esercitano un mestiere rivolto 
						a contraddire, criticare e svelare retroscena, 
						ambiguità, manchevolezze e malefatte dei primi); e che 
						la sola responsabilità di un giornalista, sotto 
						qualunque governo o editore, sia costituita dal dovere 
						di informare (lettori o ascoltatori, 
						indifferenziatamente) diffondendo notizie accertate e 
						provate. Immagino che molti si ritroveranno in questi 
						precetti generici (ovvietà?); ma presto vedremo come 
						siano rimasti a languire nel registro delle buone 
						intenzioni, abbandonati dalla gran parte di coloro che 
						conoscono l’onore di esercitare il mestiere. 
						  
						
						“Il 
						camaleonte ha il colore del camaleonte solo quando si 
						posa su un altro camaleonte”, ironizzava Groucho Marx: 
						e la maggioranza di loro si concentra, purtroppo, nelle 
						colorite redazioni di questo sfortunato Paese. 
						
						  
						
						In 
						questa sede ho ritenuto corretto affrontare il periodo 
						recente, senza dilungarmi estesamente sul periodo 
						democristiano. L’ho fatto perché credo di poter 
						individuare una boa, intorno alla quale ruotò l’intero 
						sistema mediatico italiano. 
						  
						
						Non 
						che i “vecchi” partiti non avessero colto le possibilità 
						offerte dal mondo dell’informazione, e della tv in 
						particolare; ma generalmente si contentavano di piegarle 
						a fini tradizionali, coprendo le gambe delle ballerine, 
						censurando la satira di Dario Fo e mostrando 
						un’interminabile panoplia di paesaggi regionali e 
						sceneggiati storico/letterari. La rai esercitava una 
						funzione morale e pedagogica fondamentale, oltre che 
						pienamente riconosciuta: “tra trent’anni gli italiani 
						non saranno come li hanno voluti i partiti ma come li 
						avrà fatti la televisione”, profetizzò infatti in tempi 
						non sospetti Ennio Flaiano. 
						
						Ma 
						sarebbe stato impossibile prevedere una deriva di questo 
						genere, e l’avvio di una fase caratterizzata da una 
						criminale regia nella gestione dell’idrante delle 
						notizie: aperto a dismisura quando la decenza e 
						l’umanità imporrebbero tatto, simil-desertico quando la 
						deontologia, il senso del dovere e l’amore per il 
						proprio mestiere imporrebbero inchieste, dibattiti, 
						accuse. 
						
						Ma 
						soprattutto fatti. 
						
						  
						
						
						Curzio
						Maltese (“Modesta proposta di sopravvivenza al 
						declino della nazione”) contrappone, all’uso 
						criminoso della televisione imputato a Luttazzi, Biagi e 
						Santoro dall’allora presidente del Consiglio Silvio 
						Berlusconi, due casi simbolici e interessanti (oltre 
						che decisamente più meritori di tale definizione): 
						quello di Alfredo Rampi e del dr. Di Bella. 
						
						Noi, 
						avendo a disposizione più tempo e spazio, crediamo di 
						poterne individuare qualcun altro; in questa prima 
						parte, in particolare, volgeremo lo sguardo a Bruno 
						Vespa. Ma è bene partire da qui: dal bambino e dal 
						vecchietto, e dalle loro tristi vicende.
						 
						
						  
						
						
						PARTE PRIMA 
						
						  
						
						
						L’insostenibile leggerezza del dramma: quando nacque la 
						tv del dolore. 
						
						  
						
						La 
						sera del 10 giugno 1981 un bambino, Alfredo Rampi, 
						che stava passando qualche giorno con i suoi genitori 
						nella casa di campagna della Borghesiana, cadde in un 
						pozzo artesiano situato in località Selvotta, vicino 
						alla Via di Vermicino. Fu individuato abbastanza 
						rapidamente, e subito il comandante provinciale di Roma, 
						Elveno Pastorelli, cominciò ad organizzare i soccorsi. 
						Il bambino, 6 anni e una malformazione cardiaca, 
						stazionava a trentasei metri sotto terra: tuttavia fu 
						possibile parlarci, attraverso un microfono tenuto ad un 
						capo dal Vigile del Fuoco Nando Broglio. 
						  
						
						Nel 
						corso del primo tentativo di salvataggio si calò nel 
						pozzo una tavoletta di legno per far aggrappare il 
						bambino, ma il pezzo restò incastrato a 22 metri di 
						profondità, e si trasformò così in un ostacolo 
						determinante per tutte le mosse successive, limitando di 
						fatto le possibilità di intervento. Tullio Bernabei, 
						speleologo del soccorso alpino, tra i primi ad arrivare 
						sul posto, provò a calarsi nel pozzo alle prime luci 
						dell'alba di giovedì 11 giugno; raggiunse la tavoletta e 
						provò a segarla, ma un tubo nel pozzo glielo impedì, 
						mentre si cercava una trivella per scavarne un altro, 
						parallelo. Questa arrivò nelle prime ore della mattina 
						di giovedì 11 giugno; si decise allora di scendere a 38 
						metri e intercettare il bimbo grazie ad un tunnel di 
						raccordo. 
						  
						
						Il 12 
						giugno le operazioni di scavo rallentarono: arrivò 
						un'altra trivella, più grande e potente, mentre il 
						Vigile Nando continuava a parlare col bambino e cadeva 
						anche l'ultimo diaframma che separava il pozzo scavato 
						dai soccorritori da quello dove era incastrato 
						“Alfredino”. Ma il piccolo nel frattempo era scivolato 
						ancora più giù, a 61 metri di profondità. La situazione 
						andò progressivamente peggiorando, e nel caos 
						generalizzato si ricorse a misure improvvisate e 
						disperate, pescando disperatamente nel quadro di un 
						circo colorito di nani, giocolieri, speleologi ed 
						esperti di pozzi. 
						  
						
						Tra 
						questi c'era Angelo Licheni, che riuscì ad eludere i 
						controlli dei carabinieri e superare la bolgia dei 
						curiosi: insieme a Donato Caruso furono gli ultimi due 
						volontari riusciti a toccare il piccolo. Licheri, un 
						tipografo che non aveva nessuna esperienza di pozzi, si 
						calò quindi a testa in giù nella strettoia di 25 cm. 
						  
						
						Alle 
						23,50 di venerdì 12 giugno Angelo Licheri riuscì a 
						raggiungere il piccolo, che respirava ancora ma era 
						pieno di fango, e quindi dopo vari tentativi di 
						afferrarlo Licheri rinunciò per riemergere visibilmente 
						stordito e sanguinante. Poi toccò a Donato Caruso, che 
						però non ottenne risultati migliori, perché "se tiravo 
						lo portavo su a pezzi, è intrappolato nel fango." 
						  
						
						La 
						mattina del sabato, dal microfono, non si sentiva più 
						alcun suono; il dott. Fava confermò che il piccolo era 
						spirato. Le operazioni di recupero del corpo durarono un 
						mese, ed il pozzo venne sigillato.  
						
						Il 
						funerale di Alfredino Rampi si tenne il 17 luglio del 
						1981 nella Basilica di San Lorenzo Fuori Le Mura. 
						
						  
						
						Come 
						si vede, e come la maggioranza degli italiani ben sanno, 
						fu una storia drammatica, sofferta e struggente, 
						associata ad alcuni topoi inconsci ma decisamente 
						diffusi (del giovane morto anzitempo, della discesa 
						nell’oltretomba). La vicenda del bambino che perse 
						un’identità personale per acquisirne una collettiva (da 
						Alfredo ad “Alfredino”), protagonista di un evento in 
						cui non comparve mai direttamente ma catalizzò il gioco 
						dell’ansia che si svolgeva in superficie, tra presenti e 
						telespettatori, racchiuso in un’inaccessibile oscurità a 
						contatto con la morte, richiamava troppi istinti 
						primordiali nel pubblico, e non solo. 
						
						  
						
						
						Intervenne il presidente della Repubblica, Sandro 
						Pertini; e soprattutto intervenne il servizio pubblico: 
						il vicedirettore del Tg1, Emilio Fede, decise 
						infatti di inviare una troupe per seguire in diretta le 
						varie fasi di quello che Furio Colombo chiamò “il gioco 
						dell’orrore”. 
						  
						
						La 
						criminale diretta a reti unificate scandalizzò i più, ma 
						incollò l'Italia intera davanti al video: dalle 14.00 
						alle 20.00 del giorno 12 venne registrata una media di 
						12 milioni di telespettatori. La Rai intraprese una 
						campagna mediatica senza precedenti nella storia del 
						Paese, moltiplicando e amplificando la presenza sul 
						posto dell'agguerrita compagine delle tv private. La 
						placida campagna della Borghesiana si trasformò in un 
						teatro all'aperto, il pozzo di Vermicino divenne 
						l'ombelico d'Italia: sembrava che tutte le storture del 
						Paese, il terrorismo, la corruzione, la crescita 
						stagnante dipendessero dalla storia di Alfredo; sembrava 
						che un filo invisibile legasse la salvezza del bambino a 
						quella della nazione, e che dopo averlo estratto dal 
						tugurio tutto si sarebbe sistemato, come per incanto. 
						
						“La 
						diretta paralizza l’Italia davanti al piccolo schermo”, 
						scrisse Aldo Grasso (“Enciclopedia della 
						televisione”, 1996), “[…] e solleva inquietanti 
						interrogativi sul ruolo del mezzo televisivo, sul senso 
						della sua presenza, sul significato della messa in 
						scena”. 
						
						Nacque 
						allora un genere destinato ad un radioso futuro, e che 
						in molti chiamano, efficacemente, “la tv del dolore”. 
						
						  
						
						  
						
						Il 
						cancro come prosecuzione della politica con altri mezzi: 
						la vicenda Di Bella. 
						
						  
						
						La 
						parabola Di Bella è tipica di un Paese abituato ad 
						improvvisare, dimentico di alcuni precetti illuministici 
						e insieme incapace di distinguere l’aspetto dalla 
						sostanza, e la persona dal personaggio, fiero e convinto 
						di poter sopravvivere al declino affidandosi unicamente 
						alla propria inventiva. Così, nel 1998, un anziano 
						oncologo osò l’impronunciabile, e rivelò al mondo 
						nientemeno che la scoperta di una cura contro il cancro: 
						un mix di medicine già usate per alleviare le sofferenze 
						dei pazienti (vitamine, ricostituenti) che prometteva di 
						seppellire il ricorso a chirurgia, radio e 
						chemioterapia. Un fulmine nel deserto. 
						  
						
						
						Sbucarono alcuni pazienti pronti ad assicurare che nei 
						loro casi il tumore era regredito, o scomparso, e mentre 
						la vicenda avrebbe potuto concludersi con attendibili 
						test scientifici (niente di più, niente di meno) 
						prevalse la mozione del sentimento, e della psicosi 
						collettiva. 
						  
						
						
						Partiti, organizzazioni ma soprattutto cittadini comuni 
						scesero in strada, reclamando rumorosamente il diritto 
						alla cura, e lo stesso accadde al mondo 
						dell’informazione, risucchiato senza resistenze nel 
						circolo dell’ossessione: su Di Bella fioccarono speciali 
						ed approfondimenti, consessi di colleghi e ricostruzioni 
						biografiche, improvvisate esaltazioni ed accesi 
						dibattiti. 
						
						Come 
						spiegato da Maltese, “piaceva tanto l’immagine di questo 
						medico con l’aria di mastro Geppetto che, zitto zitto, 
						nel suo laboratorio di provincia, fa fessi i 
						professoroni americani e i Nobel di mezzo mondo 
						scoprendo quasi per caso nell’alambicco spumante la cura 
						del secolo. Piaceva alla destra cialtrona che mobilitò 
						le piazze per ottenere il finanziamento statale alla 
						cura Di Bella. E incredibilmente lo ottenne.” 
						  
						
						
						  
						
						  
						
						Vespa, 
						di cui tratteremo più avanti, è il conduttore del più 
						importante programma d’informazione politica della sesta 
						o settima potenza mondiale, e in quei giorni mostrò 
						perché. Evidentemente accecato dall’ imperdibile 
						opportunità si precipitò ad invitare il figlio 
						dell’attempato ricercatore (è incredibile constatare 
						come i nostri aspiranti eroi nazionali si distinguano in 
						genere per un’agghiacciante mediocrità), che a sua volta 
						rassicurò sul carattere del genitore: “in tutta la vita 
						papà non ha guadagnato una lira, i suoi colleghi 
						compravano le barche e noi non potevamo permetterci le 
						vacanze”. 
						
						Non 
						abbiamo motivi per dubitarne, ma allora nessun test 
						aveva ancora dimostrato la veridicità di quanto 
						affermato dall’oncologo. E invece oggi sappiamo, 
						purtroppo, che i pazienti-cavie della terapia morirono 
						tutti, nonostante l’ex ministro della Sanità Storace 
						continuasse ad illudere i malati, promettendo una 
						ripresa della sperimentazione, e a sperperare denaro di 
						una Nazione che per la ricerca sui tumori spende “una 
						cifra inferiore al valore di due centravanti come Vieri” 
						(per usare le parole di Umberto Veronesi). 
						
						  
						
						Di 
						fronte al fallimento, nessuna marcia indietro. Il 
						fulmine ingranò la retromarcia e scomparve dai 
						palinsesti, veloce com’era venuto. 
						
						La 
						ricerca invece restò lì a marcire, in silenzio. 
						
						  
						
						  
						
						
						Imparate il mestiere, e fate il contrario: l’esempio 
						Vespa. 
						
						  
						
						L’arte 
						di “parlar d’altro”, per dirla alla Travaglio, è una 
						nota caratteristica dell’informazione italiana, come i 
						campanili, le valli e il mare per il paesaggio. 
						
						E’ 
						comprensibilmente arduo, ma spesso gratificante: non si 
						rischiano richiami dall’Ordine dei giornalisti, né 
						polemiche dal pubblico, che naturalmente, in genere, non 
						conosce la verità, mentre in compenso si scalano 
						velocemente scalini e posizioni di notevole attrattiva 
						professionale. 
						
						  
						
						Le 
						cause scatenanti possono essere molteplici, 
						diversificate, combinate o casuali: 
						
						“C’è 
						chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, 
						impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di 
						informarsi, di aggiornarsi. 
						  
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché trovare le notizie costa 
						fatica e si rischia persino di sudare. 
						  
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e tira a 
						campare galleggiando, barcamenandosi, slalomando. 
						  
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, 
						delle cause civili, delle richieste di risarcimento 
						miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e 
						attirano i fulmini dell’editore stufo di pagare gli 
						avvocati per qualche rompicoglioni in redazione. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché si sente embedded, fa 
						il tifo per un partito o una coalizione, non vuole 
						disturbare il manovratore. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché sennò lo attaccano e vuole 
						vivere in pace. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano 
						più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di 
						destra e leader di sinistra, controllori e controllati, 
						guardie e ladri, puttane e cardinali, principi e 
						rivoluzionari, fascisti ed ex-lottatori continui, dove 
						tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare 
						nessuno. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché confonde l’equidistanza con 
						l’equivicinanza. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del 
						giornale. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché l’editore preferisce così. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché aspetta la promozione. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché fra poco ci sono le 
						elezioni. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché quelli che li raccontano se 
						la passano male. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché certe cose non si possono 
						dire. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché “hai visto che fine hanno 
						fatto Biagi e Santoro”. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché è politicamente scorretto 
						affondare le mani nella melma, si rischia di spettinarsi 
						e di guastarsi l’abbronzatura, molto meglio attenersi al
						politically correct. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché altrimenti diventa 
						inaffidabile e incontrollabile e non lo invitano più in 
						televisione. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché fa più fine così: si passa 
						per anticonformisti, si viene citati, si crea il 
						“dibattito”. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti anche a se stesso, perché ha paura 
						di dover cambiare opinione. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti per solidarietà con Giuliano 
						Ferrara, che è molto intelligente e magari poi si sente 
						solo. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché i servizi segreti lo pagano 
						apposta. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti anche se non lo pagano, ma magari 
						un giorno pagheranno anche lui. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché il coraggio uno non se lo 
						può dare. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché nessuno gliel’ha ancora 
						chiesto, ma magari, prima o poi, qualcuno glie lo 
						chiede. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché così poi qualcuno lo 
						ringrazia. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché spesso sono tristi, 
						spiacevoli, urticanti, e non bisogna spaventare troppo 
						la gente che vuole ridere e divertirsi. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché altrimenti poi tolgono la 
						pubblicità al giornale. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché sennò poi non lo candida più 
						nessuno. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché così, poi, magari ci scappa 
						una consulenza col governo o con la Rai o con la Regione 
						o con il Comune o con la Provincia o con la Camera di 
						commercio o con l’Unione industriali o col sindacato o 
						con la banca dietro l’angolo. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché deve tutto a quella persona 
						e non vuole deluderla. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché altrimenti è più difficile 
						volare gabbana quando gira il vento. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché altrimenti poi la gente 
						capisce tutto. 
						
						C’è 
						chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva 
						Victor Hugo, ‘c’è gente che pagherebbe pur di vendersi’“. 
						(M.Travaglio, la scomparsa dei fatti, pag. 9). 
						
						  
						
						La 
						lunga citazione (me ne scuso, ma chiarisce perfettamente 
						i termini del problema) ci consente di tornare a Vespa & 
						co. 
						
						Per 
						sdrammatizzare, ognuno valuti per un minuto gli 
						argomenti sopracitati, in silenzio, e poi consideri se è 
						possibile applicarli ai principali e riconosciuti 
						professionisti (?) dell’informazione. 
						
						Io, 
						modestamente, credo di sì. 
						
						  
						
						L’uomo 
						ha un certo talento, devo riconoscerlo - innanzitutto 
						nella genuflessione. D’altro canto, ammetto di aver 
						provato a leggere una delle sue (celebrate) produzioni 
						letterarie, ma purtroppo, causa evidenti limiti 
						personali (di noia, pazienza, tempo ed abitudini 
						libresche) ho desistito. Ciononostante, ammiro 
						visceralmente la sua istrionica capacità di tacere. 
						
						A 
						Porta a porta, il simpatico teatrino in onda 
						sulla rete ammiraglia del servizio pubblico, si dibatte, 
						si discute, si parla e si consuma ossigeno. Di fatti, 
						nemmeno l’ombra: ognuno ha eguale diritto alla parola, 
						ma nessuno ha diritto alla confutazione, e così voci su 
						voci, opinioni su opinioni, pareri su pareri, e non si 
						arriva mai ad una soluzione definitiva. E’ la casa delle 
						libertà di Nientologi (e la mente va alla 
						definizione di Balzac nel pamphlet “I giornalisti”: 
						colui “da cui sgorga una spaventosa mistura 
						filosofico-letteraria. La pagina ha l’aria di essere 
						piena, ha l’aria di contenere idee, ma quando l’uomo 
						istruito vi mette il naso sente l’odore delle cantine 
						vuote. E’ profondo e non c’è niente, l’intelligenza vi 
						si spegne come una candela in un sotterraneo senz’aria”) 
						attualmente rinominati Tuttologi, pervicacemente 
						impegnati a pontificare sullo scibile umano, senza alcun 
						appiglio reale, senza dati condivisi, senza mai 
						un’obiezione, e, spesso, senza conoscere affatto 
						l’argomento in questione (frase-tipo: “ammetto di non 
						conoscere la questione nei minimi particolari..”; 
						esempio-recente: Brunetta ad anno zero, che, 
						dibattendo sul caso rifiuti, candidamente rivendica il 
						merito di aver “studiato” in una settimana, cioè 
						dall’invito in trasmissione, i termini del problema, con 
						l’aria gongolante dello studente che non compra i libri 
						e riesce comunque a prepararsi la mattina stessa 
						dell’interrogazione). 
						
						
						  
						  
						
						Vespa 
						è comunque, più di ogni altro, l’archetipo del 
						giornalista nostrano, incapace anche solo di fare 
						domande. Ma non la prima (per quella siamo capaci 
						tutti, dal tappezziere al falegname, basta scriverle a 
						casuccia): è la seconda quella che conta, 
						che screma il giornalista dall’uomo immagine, o dal pr. 
						La domanda che svela, critica, contraddice.  “La” 
						domanda, e basta. 
						
						  
						
						  
						
						Sempre 
						che di argomenti degni di questo nome si parli. 
						Ricapitoliamo, in breve, alcune performances più 
						o meno recenti: dopo la condanna in primo grado di 
						Cesare Previti al processo Sme per corruzione del 
						giudice Renato Squillante, Vespa si occupò del Viagra; 
						dopo la condanna a Dell’Utri per estorsione insieme ad 
						un boss mafioso, di calcioscommesse (ospiti illustri 
						Aldo Biscardi e Maurizio Mosca); dopo la bocciatura 
						rifilata a Buttiglione, impegnato nel tentativo di 
						divenire commissario UE dal Parlamento Europeo (ne 
						parleremo, ne parleremo..), di risveglio dal coma 
						(ospite Alba Parietti); dopo la vittoria del 
						centrosinistra alle elezioni suppletive 2004 (in 7 
						collegi su 7), di Isola dei Famosi (ospite 
						Supersimo Ventura); dopo la condanna di Dell’Utri a 9 
						anni per mafia ed il salvataggio di Berlusconi 
						attraverso l’arma della prescrizione (parleremo anche di 
						questo..), di taglio delle tasse (ma l’apice è raggiunto 
						la sera seguente: si filosofeggia di reality shows con 
						Del Noce, don Mazzi, Crepet, Zecchi, Paola Perego, 
						Carmen di Pietro e le Lecciso, 1 e 2); dopo la 
						bocciatura operata da Ciampi della riforma 
						dell’ordinamento giudiziario (perchè “palesemente 
						incostituzionale”), di Christmas in Love (indimenticato 
						cult Boldi-De Sica); dopo la condanna definitiva in 
						Cassazione di Previti a 6 anni, di dieta mediterranea 
						(Travaglio, op. cit.). Senza dimenticare (e come 
						farlo? Ho la pelle ancora accapponata) le insistite 
						perizie, ricostruzioni e intercettazioni propinate con 
						cadenza bisettimanale, fino ad arrivare - esempio di 
						climax ascendente - al plastico di casa Cogne, 
						prontamente approntato per dimostrare dove si trovavano 
						le ciabatte, le vesti, gli arredi insanguinati, dove il 
						piccolo Samuele, dove le possibili vie di fuga (o 
						d’accesso) a quella folta platea di magistrati che 
						almeno un paio di volte l’anno prende il nome di popolo 
						italiano (come d’abitudine diviso a metà, tra 
						colpevolisti e innocentisti). 
						  
						
						La 
						vergogna ed il disonore dovrebbero essere l’unica 
						ricompensa riconosciuta a chi, in preda a sconosciute, 
						ataviche istanze primordiali, si è tuffato allegramente 
						nel sangue, accantonando rapidamente alcuni vaghi ed 
						elementari sentimenti di rispetto, o almeno pietà. 
						
						  
						
						Il 
						tutto, peraltro, mentre G. Andreotti si salvava grazie 
						alla prescrizione, nonostante avesse (cito alcuni 
						stralci della sentenza
						
						della Corte d'appello di Palermo del 2 
						maggio 2003, poi confermata in Cassazione) "commesso" il 
						"reato di partecipazione all'associazione per 
						delinquere" (Cosa Nostra), "concretamente ravvisabile 
						fino alla primavera 1980", e si accertava che
						
						avesse una "propensione a intrattenere 
						personali, amichevoli relazioni con esponenti di vertice 
						di Cosa Nostra", per garantirsi "la possibilità di 
						utilizzare la struttura mafiosa per interventi extra 
						ordinem... forme di intervento para-legale che 
						conferisce, a chi sia in possesso dei canali che gli 
						consentano di sperimentarle, un surplus di potere 
						rispetto a chi si attenga ai mezzi legali", che avesse 
						"dialogato con i mafiosi e palesato la volontà di 
						conservare le amichevoli, pregresse fruttuose relazioni 
						con essi", indicando “ai mafiosi le strade da seguire” e 
						discutendo con questi “di fatti criminali gravissimi da 
						loro perpetrati... senza destare in essi la 
						preoccupazione di venire denunciati", oltre ad omettere 
						“di denunciare elementi utili a far luce su fatti di 
						particolarissima gravità, di cui è venuto a conoscenza 
						in di-pendenza di diretti contatti con i mafiosi". Così 
						in quegli anni la mafia proliferava e i boss si 
						sentivano, "anche per la sua autorevolezza politica, 
						protetti al più alto livello del potere legale": e 
						pensare che l’unica immagine che di tutto ciò è filtrata 
						ai più è l’immagine dell’avvocatessa che strepitava 
						“Innocente, innocente!!” al telefono, immediatamente 
						riproposta nelle aperture di tutti i tg (un filino 
						carenti nel sottolineare le differenze che distinguono 
						un’assoluzione da una sopraggiunta 
						prescrizione). 
						
						  
						
						O 
						ancora, possiamo citare la puntata dedicata all’orgasmo 
						femminile (non riesco proprio a capire con quali criteri 
						sono stati selezionate le ospiti; tutte le donne del 
						pianeta avrebbe potuto prendere – a ragione - la 
						parola), le profetiche confidenze riservate (“Berlusconi 
						mi ha spiegato, ripetutamente, quanto avesse cercato di 
						convincere Bush a non fare la guerra”), la signora che 
						subisce un chirurgico palpeggiamento del seno (sotto gli 
						occhi attenti del conduttore e della semi-totalità degli 
						spettatori maschi, improvvisamente recuperati ala veglia 
						da questo lucente saggio di porno-soft), i calci 
						della Mussolini alla Belillo, il patetico tentativo di 
						sminuire la portata dello scontro Bossi-Fini (ottobre 
						2003) sull’opportunità di concedere il diritto di voto 
						agli immigrati non ancora cittadini - con annesso 
						epitaffio del Senatùr, che definì Vespa “il cerimoniere 
						dei palazzi romani” -, rinunciando ad ascolti sicuri, 
						“per non compromettere la stabilità del governo” (in via 
						confidenziale, va bene preoccuparsi della stabilità del 
						governo, basta fare un altro mestiere: il politico), la 
						psichiatrica rappresentazione stile-risiko 
						dell’invasione dell’Iraq (in cui il gen. Arpino, 
						sintomatico caso di arresto dello sviluppo, aggiornava 
						la tabella di marcia verso Baghdad spostando carri 
						armati colorati in miniatura al ritmo della cavalcata 
						delle valchirie, e ripetendo con cadenza ossessiva frasi 
						sconnesse tipo “stanno avanzando” o “bonificano la 
						zona”), mentre la spalla Vespa si preoccupava di 
						assolvere i soldati anche in caso di vittime civili, 
						come accaduto a Najaf il 31 ottobre 2003, vittime donne 
						e bambini: “Questi ragazzi sono molto giovani, hanno 
						l’incubo del kamikaze, sono pronti a sparare su chiunque 
						non si fermi all’alt”, l’inaspettato scatto rabbioso 
						quando un ospite ricordava i colpi dei militari italiani 
						sulle ambulanze, peraltro già provati da tempo (“Sta 
						dicendo questo???”, incalzava, dimenticando che la 
						favola dell’italiano buono – lettura consigliata: la 
						grande proletaria s’è mossa di Pascoli -  è morta 
						sessant’anni fa, nelle nuvole di gas coloniale), 
						l’inquietante presentazione all’ospite Berlusconi del 
						plastico del progettato ponte sullo stretto di Messina 
						(con annessa domanda graffiante da giornalista di razza: 
						“è un sogno?”; “uno spettacolo sconcertante e 
						repellente, una catastrofe per il servizio pubblico, 
						un’ignominia per il giornalismo” per Claudio 
						Petruccioli, presidente della Commissione 
						parlamentare di Vigilanza, che evidentemente pensava più 
						ad un incubo d’origine gastrica). 
						
						Ogni 
						mattina il buon giornalista deve dare un dispiacere a 
						qualcuno (B.Croce): come si vede, a Porta a porta 
						si preferiscono altre letture.  
						
						  
						
						Quando 
						si affronta questo problema esempi del genere emergono a 
						decine, ed ognuno di questi giustificherebbe una dura 
						reazione del pubblico, se questo non fosse ormai avvezzo 
						al “talk-reality show”, 
						all’intrattenimento mascherato da informazione 
						(altrimenti detto “infotainment”), 
						in cui ognuno rivendica i meriti della propria fazione, 
						intervallato dalla pubblicità, fino al fischio finale. 
						“Il nuovo regime” ha scritto Carlo Freccero, che 
						qualcosa ne capisce, “ha i suoi spazi in tv, nel salotto 
						di Vespa, dove il confronto è attutito, i dibattiti 
						volutamente svuotati di senso e simulati fra sostenitori 
						di una stessa tesi”. 
						
						  
						
						  
						
						Le 
						recenti intercettazioni della procura di Potenza 
						sui maneggi intorno al casinò di Campione d’Italia, ai 
						Monopoli di Stato e alla Rai, hanno smascherato però 
						l’abituale approccio alla professione di Vespa; 
						soprattutto, risalta agli occhi la conversazione 
						telefonica del 4 maggio 2005 con Salvo Sottile 
						(“Salvo”, il protagonista di “vallettopoli” e dei 
						“colloqui pre-assunzione” con alcune disponibili 
						vallette), portavoce di Gianfranco Fini. 
						
						La 
						trascrivo, parola per parola: 
						
						  
						
						VESPA: 
						“Pronto?” 
						
						
						SOTTILE: “Bruno? Salvatore” 
						
						V: 
						“ehi” 
						
						S: 
						“senti, come è strutturata la trasmissione?” (Porta a 
						Porta, ndr.) 
						
						V: “e 
						niente, dipende da voi” 
						
						S: 
						“no, aspetta (…)” 
						
						V: “gliela 
						strutturiamo, gliela confezioniamo addosso” 
						
						S: 
						“che fai, fai una… una ricostruzione sui documenti che 
						ci sono?” 
						
						V: 
						“facciamo, sì” 
						
						S: 
						“oppure fate (…)” 
						
						V: “no 
						no, allora lo, ti facciamo, il Berlusconi in Parlamento 
						
						S: 
						“Berlusconi in Parlamento” 
						
						V: 
						“perfetto” 
						
						S: 
						“Uhm” 
						
						V: 
						“Poi i due rapporti insieme” 
						
						S: “I 
						due rapporti insieme” 
						
						V: 
						“Poi un pezzo sull’inchiesta di, di Ionta eehh” (Ionta 
						Franco, pm romano che indaga sul terrorismo islamico, 
						ndr) 
						
						S: “Un 
						pezzo sull’inchiesta di Ionta” 
						
						V: 
						“Esattamente, e basta insomma. E poi facciamo un 
						pezzettino.. Niente, domani viene a fare una conferenza 
						stampa l’avvocato di Saddam Hussein” 
						
						S: 
						“Uhm” 
						
						V: “E 
						se a lui facesse piacere lo potremmo invitare, ma sennò 
						facciamo un pezzettino..” 
						
						S: 
						“Uhm, uhm” 
						
						V: 
						“..quello che dice nella conferenza stampa” 
						
						S: 
						“Ma, vabbè, fai un pezzettino delle confere..” 
						
						V: 
						“Come contraddittore?” 
						
						S: 
						“Eh, … non so, tu chi c’hai, Fassino, chi c’hai?” 
						
						V: 
						“Non lo so, no, uno che, che proponevamo noi se lui non 
						hai niente in contrario, sarebbe Rutelli” 
						
						S: 
						“Uhm” 
						
						V: 
						“Non gli va? (…)” 
						
						S: 
						“Non lo so, no.. . non lo so, aspetta un attimo (…) E di 
						altre persone chi c’è? Chi c’è in più?” 
						
						V: “Di 
						altre persone ci sarebbero Mario Arpino..” 
						
						S: 
						“Mario Arpino.” 
						
						V: 
						“Mario Arpino, eee, Margelletti eventualmente..” 
						
						S: 
						“Margelletti, ho capito” 
						
						V: “E 
						poi in collegamento Luttwak e Rula” (Jebreal, 
						giornalista di La7, molto apprezzata, ma non esattamente 
						dal punto di vista professionale, in un adolescenziale 
						fuori onda del solito Brunetta, ndr) 
						
						S: 
						“Minchia” 
						
						V: “Ma 
						se li volete, eh!” 
						
						S: “E 
						Ru..gente che ci va in punta di vanga..” 
						
						V: 
						“Sì, sì, sì” 
						
						S: “Sì 
						sì, ecco” 
						
						V: 
						“Sento però dei cenni di assenso, da parte del tuo 
						principale” 
						
						S: 
						“No, non senti nessun segno di assenso (….)” 
						
						V: 
						(ride) 
						
						S: 
						“Siccome sa che tu sei un pessimo giornalista” 
						
						V: “E 
						che, infatti. Allora chi… allora, che facciamo, proviamo 
						con Rutelli?” 
						
						S: 
						“Gianfranco, che dici, Rutelli?” 
						
						V: 
						“Proviamo” 
						
						S: 
						“Oooo, proviamo a Fassino?” 
						
						V: “E’ 
						che Fassino è venuto molto spesso, capisci? E’ venuto 
						sempre lui” 
						
						S: 
						“(…) Uno vale l’altro mi ha detto.” 
						
						  
						
						Non 
						pago, per difendersi, peggiorò la situazione: “Ogni 
						trasmissione viene cucita addosso al protagonista, si 
						chiami Fini, Prodi o Pippo Baudo. E potrei citare 
						infinite testimonianze sui legittimi dissensi che ci 
						sono stati, a destra e a sinistra, sul taglio 
						dell’abito” (abito?, ndr). E’ la regola, tutto a posto: 
						ma per i consiglieri Curzi e Rizzo Nervo “la sua 
						posizione non è molto diversa da quella del 
						caporedattore Scardina che concordava con Moggi chi 
						doveva seguire la Juve”. Opinioni. 
						
						  
						
						
						 Un’altra 
						volta, il 7 marzo 2005, Sottile parla con 
						un’assistente di Vespa, tale “Antonella”. 
						
						  
						
						
						ANTONELLA: “Allora Salvo, puoi parlare un secondo? Sono 
						Antonella” 
						
						
						SOTTILE: “Dimmi” 
						
						A: 
						“Allora no, diceva Bruno, lui pensava, al collegamento 
						per venti minuti, lui sa che voi Rutelli non lo volete, 
						per adesso, il collegamento di venti minuti, dopo che 
						lui è stato prima da solo, Fini no?” 
						
						S: 
						“Sì, sì” 
						
						A: “e 
						vabbè, eh o Rutelli o Fassino dice, perché lui non vede 
						altri.. sennò poi bisogna andare ai capigruppo, tipo 
						Angius” 
						
						S: 
						“Eh, fai un capogruppo scusa, che te frega, scusa, che 
						problema.. Fassino staaa..(…) martedì a, sul Tre là, 
						perché devi dargli un’altra..? 
						
						A: 
						“Ah, ah, ok e Rutelli non mi pare il caso (…). Allora 
						proviamo Angius?” 
						
						S: 
						“Prova Angius” 
						
						A: “Se 
						tu hai un’altra idea; a noi c’è venuto in mente questa 
						(..). Allora, o Angius o Castagnetti proviamo” 
						
						S: 
						“Sì, sì” 
						
						A: 
						“Eh? Vabbè, aspetta, poi invece come giornalisti 
						pensavamo Lucio Caracciolo da una parte e Galli della 
						Loggia o Panebianco dall’altra” 
						
						S: “E 
						quale sarebbe l’amico?” 
						
						A: 
						(ride) “Sarebbe Galli della Loggia o Panebianco” 
						
						S: 
						“Ah, ho capito” 
						
						A: 
						“No?” 
						
						S: 
						“No, vabbè, se lo decidete voi va bene..” 
						
						A: 
						“No..” 
						
						S: 
						“No, perché vorrei capire chi è che sta da una parte e 
						chi sta dall’altra” (ride) 
						
						A: 
						(ride) “Quindi no, tu dici no?” 
						
						S: 
						“Sì, sì, Galli della Loggia o Panebianco” 
						
						A: 
						“Galli della Loggia o Panebianco, e Caracciolo?” 
						
						S: 
						“Boh, me sembrano più, sì sì (...)” 
						
						A: “Io 
						proverei Caracciolo e Galli della Loggia. Se Galli della 
						Loggia dice no, vado su Panebianco. Poi provo Angius e 
						sennò Castagnetti; e poi come donne pensavamo una Rula 
						da una parte e una Clarissa (Burt, attrice, ndr) 
						dall’altra” 
						
						S: 
						“Una che?” 
						
						A: 
						“Una Rula, Jebreal, quella bellissima di La7” 
						
						S: “Ma 
						dài, non rompere il ca… ma che se la deve scopare o se 
						l’è scopata già?” 
						
						A: 
						(ride) 
						
						S: 
						“No, perché, non capisco perché deve.. no! Questa no!” 
						
						A: 
						“No, vabbè, questa no” 
						
						S: 
						“Questa è una scassacazzi, non capisco perché devi (…). 
						Vorrei capire questo come se la tromba” 
						
						A: 
						“Intanto…” 
						
						S: “Se 
						l’è già trombata o se la deve trombare ancora..” 
						
						A: 
						(ride) 
						
						S: 
						“Perché mò ci me.. mò glie lo dico io” 
						
						A: “Eh 
						eh vabbè, allora io intanto vado sui capigruppo e sui 
						giornalisti, poi per le donne ci risentiamo, va bene?” 
						
						S: 
						“(…) Ma per i giornalisti (…). Galli della Loggia mi 
						sembra molto fumoso, come dire. 
						
						A: 
						“Preferisci Panebianco?” 
						
						S: “E’ 
						uno più… soli…” 
						
						A: 
						“Più conceto” 
						
						S: 
						“Più concreto, invita Panebianco” 
						
						A: 
						“Allora Caracciolo-Panebianco provo. Va bene?” 
						
						S: 
						“Ciao, ok, ciao” 
						
						A: 
						“Vabbè, ciao” 
						
						  
						
						Chissà 
						chi consideravano padrone di casa, tra Vespa e Sottile, 
						gli ospiti invitati in trasmissione; in ogni caso, si 
						tratta di intercettazioni quantomeno rivelatrici, 
						imbarazzanti, preoccupanti, ma anche involontariamente 
						divertenti: in un’altra telefonata, del 9 marzo 2005, 
						Salvo non solo stabiliva – riferendo i desiderata 
						di Fini – che la comparsata del fratello di George Bush 
						sr., proposta dal conduttore, non era necessaria (SALVO: 
						“Bruno lascia perdere”, VESPA: “Va bene”), ma si 
						raccomandava di essere puntuali, per non perdere la 
						partita serale.  
						
						In una 
						qualsiasi democrazia occidentale tutto questo sarebbe 
						considerato deontologicamente scorretto, e qualcuno 
						(l’Ordine dei giornalisti? l’editore? il pubblico 
						pagante?) protesterebbe, manifesterebbe, griderebbe allo 
						scandalo, ma non in Italia, il Paese dove il suddetto 
						intercettato si permette di attaccare impunemente (ed in 
						ogni circostanza) la procura di Potenza colpevole, 
						soprattutto, di aver svelato queste discutibili 
						abitudini. 
						
						  
						
						Tempo 
						dopo, lo ascolto per caso (e con il consueto terrore) 
						cimentarsi in un ardito “ragazzi, imparate il 
						mestiere!”, puntualmente proferito ogni qualvolta 
						sottoposto a critica. 
						
						  
						
						
						  
						  
						
						Se 
						potessi intervistarlo, dal mio umile punto di vista, 
						porrei una domanda semplice semplice. 
						
						Quale? 
						  
						  
						
						
						Riferimenti bibliografici: 
						  
						
						
						M. Travaglio, “La scomparsa 
						dei fatti”, Il saggiatore 2007 
						
						
						N. Rangeri, “Chi l’ha 
						vista?”, Rizzoli 2007 
						
						
						C. Maltese, “Come ti sei 
						ridotto; modesta proposta di sopravvivenza al declino 
						della nazione”, Feltrinelli 2006   
						
						
						A. Grasso , “Enciclopedia 
						della televisione”, 1996 
						
						
						S. Orlando, “la Repubblica 
						del ricatto”, Chiarelettere 2008 
						
						
						Si consiglia, a chi volesse 
						approfondire l’argomento, la consultazione di materiale 
						giornalistico e audiovisivo disponibile in rete  |