[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 213 / SETTEMBRE 2025 (CCXLIV)


contemporanea

IL COLONIALISMO D'INSEDIAMENTO
TRA NORD AMERICA E PALESTINA

di Marco Fossati

                  

Solitamente, quando si parla di colonialismo o periodo coloniale, si fa riferimento all’espansionismo europeo iniziato in pratica dopo la scoperta dell’America. La ricerca storica ha ampiamente trattato l’argomento evidenziando come tale fenomeno ebbe numerose cause (considerando il fatto che coinvolse molti Stati europei), diversi modi e tempi di attuazione; oltre a sviluppi e conseguenze differenti a seconda dei paesi coinvolti.

 

Nell’ultimo ventennio però, nell’ambito delle scienze storiche e sociali, sono state individuate delle particolari caratteristiche in merito ad alcuni fenomeni coloniali. Ovvero è stata introdotta una nuova categoria di studio; il colonialismo di insediamento (settler colonialism). Con questo termine vengono definiti quei movimenti coloniali che non si limitano alla costituzione di colonie allo scopo di controllare un territorio e sfruttarne le risorse ma puntano a occuparlo completamente, emarginando o estromettendo (addirittura eliminando fisicamente) la popolazione indigena presente; di fatto sostituendola.

 

Lo storico anglo-australiano Patrick Wolfe è stato uno dei primi studiosi a evidenziare i tratti distintivi del settler colonialism. In merito a questo tipo di colonizzazione ha affermato: “I coloni vengono per restare e sostituirsi ai nativi”, di conseguenza “l’invasione è una struttura non un evento”, dato che rappresenta l’inizio della costruzione di una nuova società, quella dei coloni, sulle rovine e sulla terra dei nativi; a tal fine viene applicata quella che egli definisce, “logica dell’eliminazione”. Questa comprende sia l’eliminazione fisica, attraverso guerre e omicidi di frontiera, sia l’assimilazione o l’integrazione più o meno forzata della popolazione indigena.

 

Come detto è nell’Europa della prima età moderna che nascono politiche di esplorazione ed espansione (imperialiste) generatrici di vasti movimenti coloniali, le cui conseguenze sono tutt’ora evidenti. All’origine vi erano esigenze economiche: ricerca di nuove vie commerciali, scoperta e sfruttamento di risorse naturali. Ma in fondo c’era anche un’idea di missione, ovvero portare la cristianità verso nuove terre, evangelizzando le popolazioni pagane, di conseguenza un’estensione del dominio politico.

 

È in questo periodo che emergono i termini essenziali del modello coloniale classico; la potenza coloniale conquista un territorio assumendone il governo e sfruttandone le risorse (come avvenne in America centrale e meridionale dal XVI secolo). La migrazione è limitata alla creazione di una classe sociale di governo, mentre la popolazione indigena è costretta a ricoprire ruoli socialmente ed economicamente subalterni. Modello che a grandi linee verrà applicato anche in Africa ed Estremo Oriente soprattutto nel XIX secolo.

 

In Nord America invece prenderà forma una colonizzazione del tutto diversa. Già dalle prime esplorazioni, gli europei, considerarono tale territorio semi disabitato. La scarsa popolazione indigena non era ritenuta in grado di sfruttarlo (e occuparlo) in modo adeguato, tant’è che viveva di caccia, pesca e in gran parte era nomade (o così si pensava che fosse).

 

Si sviluppò l’idea di una terra libera, di proprietà dell’umanità finché non venisse destinata a un uso particolare, prevalentemente agricolo; il primo a utilizzarla in tale modo ne poteva diventare il proprietario. Si riprendevano concetti derivanti dal diritto romano come la res nullis (cosa di nessuno), disciplinati da fonti tipo il Digesto o le Istituzioni: “La ragione naturale ammette i diritti del primo occupante su ciò che non aveva occupante”.

 

Concetti che si inserivano perfettamente nelle teorie circa lo stato di natura (giusnaturalismo) ampiamente diffuse in Europa tra XVII e XVIII secolo e si univano alle categorie di pensiero del sistema produttivo capitalista in via di affermazione (proprietà privata, circolazione monetaria, ecc.). L’economia europea del tempo, oltre che sul commercio, era in gran parte fondata sull’agricoltura e un territorio immenso come quello nordamericano, con un ambiente relativamente simile si prestava perfettamente allo sfruttamento agricolo.

 

Ovviamente la coltivazione presupponeva l’occupazione, il possesso della terra, pertanto la formazione di colonie di popolamento; l’emigrazione dall’Europa fu una diretta conseguenza. Contadini poveri che sfuggivano dalla fame e ricchi speculatori che investivano in grandi appezzamenti terrieri popolarono i primi insediamenti.

 

Nel corso del XVII secolo però saranno soprattutto i dissidenti religiosi della Chiesa riformata inglese ad animare i flussi migratori verso i territori americani (a cui si deve aggiungere l’enorme quantità di africani deportati come schiavi), trasformando in poco più di un secolo la zona compresa tra il Québec e la Florida in un vasto insieme di colonie.

 

Nello stesso periodo si radicarono idee particolari circa la natura e le relazioni tra i popoli, specie quelli non europei; il possesso della terra attraverso le pratiche agricole è un dato essenziale delle popolazioni civilizzate, che sono quindi stanziali e acquisiscono la proprietà dei territori occupati in modo permanente a differenza di quelle non civilizzate dedite a caccia e pesca, nomadi, accomunate alla natura selvaggia.

 

Già nel Cinquecento il politico e scrittore inglese Thomas More (1478-1535) affermava come fosse giusta una guerra contro quel “popolo che si trovi in possesso di un territorio, che esso non mette a frutto mantenendolo inerte e deserto e ne impedisca l’utilizzazione ad altri che per legge di natura hanno bisogno di trarne il proprio nutrimento”. Il principale teorico del giusnaturalismo e del liberalismo, l’inglese John Locke (1632-1704), sosteneva che l’uomo acquisisce la proprietà di una terra quando “vi mescola ad essa […] il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio”.

 

Lo svizzero Emmeric de Vattel (1714-1767), considerato uno degli ispiratori delle moderne norme sul diritto internazionale, sosteneva: “La coltivazione […] è un obbligo imposto all’uomo dalla natura. I popoli che abitano terre fertili e ciò nonostante disdegnano la coltivazione […] vengono meno a un dovere verso se stessi […] meritano dunque di essere sterminati come bestie feroci”. In circa tre secoli si formano teorie che, oltre a definire un immaginario collettivo, giustificano e incentivano pratiche coloniali il cui obiettivo è il possesso di un territorio. Inoltre gli abitanti originari, considerati non produttivi pertanto disumanizzati, sono ostacoli che possono essere eliminati. In pratica le basi teoriche del colonialismo di insediamento.

 

Non a caso tra XVII e XVIII secolo avvengono i primi conflitti con le popolazioni indigene. In questo periodo gli insediamenti coloniali si consolidano, soprattutto quelli compresi tra la catena degli Appalachi e la costa atlantica (le tredici colonie britanniche), che assumono una struttura economico-sociale sempre più autonoma tanto da separarsi dalla madrepatria (attraverso la guerra d’indipendenza, 1775-1783) e formando il nucleo originario di una nuova entità statale: gli Stati Uniti d’America.

 

Seguirà una progressiva espansione verso ovest in cui emergeranno tutte le caratteristiche del colonialismo di insediamento, divenendone in pratica il modello. Espansione che dipese anche dall’enorme flusso migratorio proveniente dall’Europa. In gran parte poveri causati dai sensibili contraccolpi sociali causati dallo sviluppo del sistema industriale-capitalistico e dalla comparsa delle sue prime cicliche crisi. Tant’è che la nazione statunitense e soprattutto i territori a ovest dei Monti Appalachi, diventò una terra di nuove opportunità, in teoria a disposizione di tutti, dato era considerata vuota (vacuum domicilium, terre vacanti). “Le narrazioni sulla terra vergine hanno occupato un posto fondamentale nella mitologia coloniale statunitense” (Bartolomei 2017).

 

Pertanto nella realtà i nativi, superflui, assimilati alla natura selvaggia e ostacolo al possesso dei territori, potevano e dovevano essere rimossi. Prende forma la logica dell’eliminazione e nelle migrazioni verso ovest si genera una “frenesia per la terra” che contribuisce a formare un immensa frontiera senza legge né autorità dove le popolazioni indigene sono loro malgrado coinvolte nelle logiche del sistema capitalistico. Ovvero spinte a sottoscrivere accordi per la cessione di terre, molti dei quali fraudolenti e spesso incomprensibili ai nativi, dato che ignoravano concetti tipo la proprietà privata specie se riferita a beni naturali.

 

Per gran parte del XIX secolo si creò quell’insieme di violenza privata e interventi militari del governo statunitense (occupazioni ed espropri forzati di vaste aree) caratteristico del mito della frontiera o della cosiddetta «conquista del West» (immortalata dal cinema nel secolo successivo) che si arresterà solo sulla costa dell’Oceano Pacifico. “Tutto è avvenuto al riparo dello schermo della frontiera, una volta rimosso e posatasi la polvere, le attività irregolari sono diventate regolari e i confini della colonizzazione dei bianchi si sono estese” (Wolfe 2017).

 

Il settler colonialism distrugge ma per costruire una nuova società pertanto inizia una fase nuova. Una serie di leggi colpirono ogni aspetto della vita dei nativi americani: religione, lingua, libertà politiche ed economiche e diversità culturali. Tra le più importanti sicuramente il Dawes Severalty Act (1887), legge che lottizzava e assegnava individualmente la terra tribale ai nativi, in modo da poter essere venduta (prima o poi) ai coloni bianchi. “Con la morte della frontiera l’eliminazione si rivolse all’interno mirando a penetrare nell’individuo indiano […] per allontanarlo dalla tribù e farlo entrare nella società dei bianchi. […] La magia del possesso privato avrebbe fatto uscire gli indiani dall’inerzia collettiva dell’appartenenza tribale e li avrebbe introdotti nell’individualismo progressista del sogno americano” (Wolfe 2017).

 

Nel 1924 viene infine estesa la cittadinanza statunitense a tutti i nativi; di fatto annullando la loro diversità sociale e culturale. Il possesso del territorio era completato e gli indigeni eliminati o ridotti in condizioni da non ostacolare la nuova società ormai consolidata. Attualmente gran parte di essi vive nelle cosiddette «riserve indiane» e si stima che sia sopravvissuto solo un terzo della popolazione originaria. Qualcosa di molto simile avvenne anche nell’estremo nord americano la cui colonizzazione portò alla formazione dello Stato del Canada (1867).

 

Il colonialismo di insediamento ha interessato anche il Continente australiano che dal XVIII secolo era stato meta di numerosi viaggi esplorativi da parte di navigatori inglesi. Pertanto la Gran Bretagna, basandosi sulle teorie riguardanti il diritto di scoperta di una «terra che non appartiene a nessuno» (terra nullis), dichiarò l’Australia territorio disabitato rivendicandone la sovranità; ignorando la popolazione aborigena che vi abitava da millenni.

 

Inizialmente utilizzata come colonia penale (1788) fu ben presto considerata, come il Nord America, terra d’immigrazione, così come le isole neozelandesi. Queste ultime furono annesse all’Impero britannico mediante un trattato (Waitangi, 1840, dai termini dubbi e poi disconosciuto) con la popolazione nativa, i Maori. Nel corso del XIX, in gran parte del Continente, il progressivo aumento dell’immigrazione e degli insediamenti inglesi causò lo sviluppo di quelle logiche eliminatorie che nello stesso periodo si stavano evidenziando dall’altro capo dell’Oceano Pacifico.

 

Agli Aborigeni e ai Maori toccò più o meno la stessa sorte degli indiani d’America. Durante il dominio britannico, con interventi militari che provocarono estesi conflitti, dalla Black War (1824-1832) alle cosiddette Guerre Maori (1845-1866), sia quando si costituirono nazioni e società bianche (Australia e Nuova Zelanda); compresa l’introduzione di leggi assimilazioniste comprendenti la sottrazione e gli affidi forzati di migliaia di bambini aborigeni con il fine di disgregarne e annullarne società e cultura.

 

Il colonialismo d’insediamento europeo toccò anche i territori sudafricani i quali furono al centro di due successive ondate colonizzatrici. La prima alla metà del Seicento da parte degli olandesi (i coloni erano chiamati boeri, contadini), poi a partire dal 1797 iniziò la colonizzazione inglese. La diffusione degli insediamenti europei comportò costanti conflitti con la popolazione indigena e culminò in un lungo scontro fra i colonizzatori (guerre anglo-boere: dal 1880 al 1902). Il risultato fu l’unione delle varie colonie europee con il nome appunto di Unione Sudafricana che ottenne l’indipendenza dalla madrepatria nel 1910.

 

In questo caso però i coloni non divennero maggioranza sul territorio. Qui il colonialismo di insediamento rimase in uno stato intermedio tra la logica eliminatoria e la logica di sfruttamento. Tant’è che nel corso degli anni venne sviluppata la politica dell’apartheid; privazione dei diritti civili e politici della popolazione nativa, segregata in aree periferiche semi autonome (bantustan) ma comunque utilizzata come manodopera a basso costo. Sistema che permetteva alla minoranza bianca di controllare l’intero Stato sudafricano e che durerà fino agli anni Novanta del XX secolo quando, a seguito delle pressioni internazionali inizierà un processo di decolonizzazione.

 

Come si è detto alla base dei casi di colonialismo d’insediamento dell’età moderna vi era l’aspetto economico. Non bisogna però dimenticare l’aspetto religioso che ha svolto un ruolo altrettanto importante. Dall’idea di una terra immensa e vergine da sfruttare al concetto di «Terra Promessa» di derivazione biblica il passo fu breve e, di conseguenza, l’identificazione dei colonizzatori come il «Popolo Eletto» fu quasi naturale considerando che la gran parte di essi proveniva non solo da paesi protestanti, dove i concetti del Vecchio Testamento erano maggiormente diffusi, ma soprattutto da ambienti di integralismo religioso.

 

Si pensi al puritanesimo che caratterizzò le prime colonizzazioni inglesi del Nord America: “Immaginavano di lasciare il Vecchio mondo europeo corrotto dal peccato e dalla presenza del Papa per erigere il Regno di Dio nella Nuova Inghilterra” (Bartolomei 2017). Idee che si trasferiranno nella società statunitense tanto da portare alla convinzione che l’espansione verso ovest non fosse altro che parte di quel «Destino manifesto» del quale si sentiva investita al fine di diffondere nel resto del mondo i propri valori, il proprio stile di vita e le proprie istituzioni. Richiami biblici sono presenti anche nella colonizzazione olandese del Sud Africa; “Nell’ideologia nazionalista boera il concetto di chiamata e di destino nazionale si fonde con la concezione biblica per cui il popolo boero sarebbe il popolo eletto e il Sudafrica la terra promessa” (Bartolomei 2017). E lo spostamento verso l’interno del paese (il cosiddetto Grande Trek), causato dall’arrivo dei coloni inglesi, fu paragonato all’Esodo biblico degli ebrei dall’Egitto.

 

L’elemento religioso ha sicuramente avuto un ruolo importante, tanto quanto i fattori economici, nel più recente episodio di settler colonialism: la formazione dello Stato d’Israele. La forte crisi economica che aveva investito l’Europa nella seconda metà del XIX secolo, il crescente antisemitismo e l’inizio delle persecuzioni, soprattutto nella Russia zarista, sono all’origine della prima migrazione ebraica in Palestina (1882-1904).

 

Nello stesso periodo all’interno del contesto politico e culturale europeo, caratterizzato da ideologie nazionaliste e di autodeterminazione dei popoli, nasce l’ipotesi della creazione di uno Stato per gli ebrei. Tutto ciò porta alla nascita del Movimento sionista (da Sion collina di Gerusalemme) che individua la Palestina come luogo ideale per la costituzione della nazione ebraica, rinnovando il mito del ritorno a quella stessa terra che nella Bibbia è promessa da Dio ad Abramo. Una raccolta fondi tra le comunità ebraiche europee permise l’acquisto di terre nell’ambito delle leggi e delle disposizioni dell’Impero Ottomano del quale la Palestina faceva parte. Tant’è che i primi coloni riuscirono a inserirsi nel contesto palestinese senza grandi tensioni.

 

È con la seconda migrazione (1904-1914) che le correnti più oltranziste del sionismo iniziano a prevalere, dando un’impronta diversa alla colonizzazione. “Costruirono comunità ancora più segregate, introducendo un’idea estranea di insediamento umano recintato in un’area rurale che prima non era mai esistita e cercarono di costruire una presenza ebraica esclusiva in uno spazio urbano, dapprima dominando il mercato del lavoro, in seguito costruendo quartieri e città separate. […] Non c’era alcun bisogno di essere esclusivi per sopravvivere e anche di assicurare nuove immigrazioni. C’era bisogno di esclusività soltanto se si voleva sbarazzarsi della popolazione locale” (Pappe 2017). Da qui il crescente conflitto con la popolazione indigena; in pratica l’inizio della logica eliminatoria, soprattutto dopo le nuove migrazioni dall’Europa causate dalle persecuzioni naziste.

 

Il culmine si raggiungerà con la Guerra arabo-israeliana del 1948 che di fatto segnerà la nascita dello Stato d’Israele. La popolazione palestinese verrà in parte espulsa verso i paesi confinanti in parte verrà inglobata nel nuovo Stato. Attualmente è riconosciuta come minoranza arabo-israeliana ma con numerose limitazioni giuridiche. Nel giro di un decennio la popolazione ebraica triplicherà a causa di nuovi flussi migratori.

 

Di conseguenza il progetto coloniale è proseguito con la giudaizzazione del territorio mediante la creazione di nuovi insediamenti in aree scarsamente popolate e soprattutto in zone abitate dalla popolazione palestinese. Qui le nuove fondazioni sono state dislocate in modo da circondare le comunità indigene, impedirne la contiguità e mantenere il controllo su di esse. I governi israeliani hanno emanato leggi per impedire lo sviluppo edilizio palestinese e attuato un piano di confisca delle loro proprietà diventate patrimonio dello Stato.

 

Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, le guerre con i paesi arabi limitrofi hanno portato lo Stato ebraico a occupare militarmente vaste zone oltre confine, in gran parte abitate da palestinesi e procedendo anche in questi territori a pratiche coloniali, con corollario di violenze e violazione di diritti tutt’ora in corso.

 

Proprio il caso israeliano porta a sostenere la tesi di Patrick Wolfe per cui il colonialismo di insediamento non sia un processo occasionale e transitorio ma sia un progetto di trasformazione strutturale di un territorio. La sua evoluzione storica dalle prime manifestazioni nell’età moderna a quella contemporanea dimostra come sia in pratica un modo di gestione del potere, di dominio, strettamente legato al sistema di produzione capitalistico.

 

Addirittura secondo alcuni studiosi il settler colonialism si è ormai esteso a livello globale e, per il sociologo australiano Lorenzo Veracini, “definisce gli ordinamenti politici attuali”. Ovvero in quasi tutti i paesi anche quelli a capitalismo avanzato, compresa l’Europa, “si va incontro a processi di spoliazione che assomigliano a quelli che hanno dovuto affrontare le popolazione native durante la colonizzazione europea” (Bartolomei 2017).

 

Spoliazione che avviene attraverso la privatizzazione di imprese pubbliche e dei beni comuni e l’esclusione di parte della popolazione dal sistema produttivo. “Quasi ovunque è in crescita il numero dei lavoratori poveri: la riproduzione della forza lavoro non è più una priorità. Come i popoli indigeni esposti all’assalto furibondo del colonialismo d’insediamento, gli espulsi sono marcati come privi di valore […] si riproducono modalità di dominio che assomigliano al colonialismo d’insediamento ottocentesco” (Veracini 2017).

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Bartolomei, Enrico, Carminati, Diana, Tradardi, Alfredo (a cura di), Esculsi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento, DeriveApprodi, Roma 2017.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]