Solitamente, quando si parla di
colonialismo o periodo coloniale, si
fa riferimento all’espansionismo
europeo iniziato in pratica dopo la
scoperta dell’America. La ricerca
storica ha ampiamente trattato
l’argomento evidenziando come tale
fenomeno ebbe numerose cause
(considerando il fatto che coinvolse
molti Stati europei), diversi modi e
tempi di attuazione; oltre a
sviluppi e conseguenze differenti a
seconda dei paesi coinvolti.
Nell’ultimo ventennio però,
nell’ambito delle scienze storiche e
sociali, sono state individuate
delle particolari caratteristiche in
merito ad alcuni fenomeni coloniali.
Ovvero è stata introdotta una nuova
categoria di studio; il colonialismo
di insediamento (settler
colonialism). Con questo termine
vengono definiti quei movimenti
coloniali che non si limitano alla
costituzione di colonie allo scopo
di controllare un territorio e
sfruttarne le risorse ma puntano a
occuparlo completamente, emarginando
o estromettendo (addirittura
eliminando fisicamente) la
popolazione indigena presente; di
fatto sostituendola.
Lo storico anglo-australiano Patrick
Wolfe è stato uno dei primi studiosi
a evidenziare i tratti distintivi
del settler colonialism. In
merito a questo tipo di
colonizzazione ha affermato: “I
coloni vengono per restare e
sostituirsi ai nativi”, di
conseguenza “l’invasione è una
struttura non un evento”, dato che
rappresenta l’inizio della
costruzione di una nuova società,
quella dei coloni, sulle rovine e
sulla terra dei nativi; a tal fine
viene applicata quella che egli
definisce, “logica
dell’eliminazione”. Questa comprende
sia l’eliminazione fisica,
attraverso guerre e omicidi di
frontiera, sia l’assimilazione o
l’integrazione più o meno forzata
della popolazione indigena.
Come detto è nell’Europa della prima
età moderna che nascono politiche di
esplorazione ed espansione
(imperialiste) generatrici di vasti
movimenti coloniali, le cui
conseguenze sono tutt’ora evidenti.
All’origine vi erano esigenze
economiche: ricerca di nuove vie
commerciali, scoperta e sfruttamento
di risorse naturali. Ma in fondo
c’era anche un’idea di missione,
ovvero portare la cristianità verso
nuove terre, evangelizzando le
popolazioni pagane, di conseguenza
un’estensione del dominio politico.
È in questo periodo che emergono i
termini essenziali del modello
coloniale classico; la potenza
coloniale conquista un territorio
assumendone il governo e
sfruttandone le risorse (come
avvenne in America centrale e
meridionale dal XVI secolo). La
migrazione è limitata alla creazione
di una classe sociale di governo,
mentre la popolazione indigena è
costretta a ricoprire ruoli
socialmente ed economicamente
subalterni. Modello che a grandi
linee verrà applicato anche in
Africa ed Estremo Oriente
soprattutto nel XIX secolo.
In Nord America invece prenderà
forma una colonizzazione del tutto
diversa. Già dalle prime
esplorazioni, gli europei,
considerarono tale territorio semi
disabitato. La scarsa popolazione
indigena non era ritenuta in grado
di sfruttarlo (e occuparlo) in modo
adeguato, tant’è che viveva di
caccia, pesca e in gran parte era
nomade (o così si pensava che
fosse).
Si sviluppò l’idea di una terra
libera, di proprietà dell’umanità
finché non venisse destinata a un
uso particolare, prevalentemente
agricolo; il primo a utilizzarla in
tale modo ne poteva diventare il
proprietario. Si riprendevano
concetti derivanti dal diritto
romano come la res nullis
(cosa di nessuno), disciplinati da
fonti tipo il Digesto o le
Istituzioni: “La ragione
naturale ammette i diritti del primo
occupante su ciò che non aveva
occupante”.
Concetti che si inserivano
perfettamente nelle teorie circa lo
stato di natura (giusnaturalismo)
ampiamente diffuse in Europa tra
XVII e XVIII secolo e si univano
alle categorie di pensiero del
sistema produttivo capitalista in
via di affermazione (proprietà
privata, circolazione monetaria,
ecc.). L’economia europea del tempo,
oltre che sul commercio, era in gran
parte fondata sull’agricoltura e un
territorio immenso come quello
nordamericano, con un ambiente
relativamente simile si prestava
perfettamente allo sfruttamento
agricolo.
Ovviamente la coltivazione
presupponeva l’occupazione, il
possesso della terra, pertanto la
formazione di colonie di
popolamento; l’emigrazione
dall’Europa fu una diretta
conseguenza. Contadini poveri che
sfuggivano dalla fame e ricchi
speculatori che investivano in
grandi appezzamenti terrieri
popolarono i primi insediamenti.
Nel corso del XVII secolo però
saranno soprattutto i dissidenti
religiosi della Chiesa riformata
inglese ad animare i flussi
migratori verso i territori
americani (a cui si deve aggiungere
l’enorme quantità di africani
deportati come schiavi),
trasformando in poco più di un
secolo la zona compresa tra il
Québec e la Florida in un vasto
insieme di colonie.
Nello stesso periodo si radicarono
idee particolari circa la natura e
le relazioni tra i popoli, specie
quelli non europei; il possesso
della terra attraverso le pratiche
agricole è un dato essenziale delle
popolazioni civilizzate, che sono
quindi stanziali e acquisiscono la
proprietà dei territori occupati in
modo permanente a differenza di
quelle non civilizzate dedite a
caccia e pesca, nomadi, accomunate
alla natura selvaggia.
Già nel Cinquecento il politico e
scrittore inglese Thomas More
(1478-1535) affermava come fosse
giusta una guerra contro quel
“popolo che si trovi in possesso di
un territorio, che esso non mette a
frutto mantenendolo inerte e deserto
e ne impedisca l’utilizzazione ad
altri che per legge di natura hanno
bisogno di trarne il proprio
nutrimento”. Il principale teorico
del giusnaturalismo e del
liberalismo, l’inglese John Locke
(1632-1704), sosteneva che l’uomo
acquisisce la proprietà di una terra
quando “vi mescola ad essa […] il
proprio lavoro e vi unisce qualcosa
che gli è proprio”.
Lo svizzero Emmeric de Vattel
(1714-1767), considerato uno degli
ispiratori delle moderne norme sul
diritto internazionale, sosteneva:
“La coltivazione […] è un obbligo
imposto all’uomo dalla natura. I
popoli che abitano terre fertili e
ciò nonostante disdegnano la
coltivazione […] vengono meno a un
dovere verso se stessi […] meritano
dunque di essere sterminati come
bestie feroci”. In circa tre secoli
si formano teorie che, oltre a
definire un immaginario collettivo,
giustificano e incentivano pratiche
coloniali il cui obiettivo è il
possesso di un territorio. Inoltre
gli abitanti originari, considerati
non produttivi pertanto
disumanizzati, sono ostacoli che
possono essere eliminati. In pratica
le basi teoriche del colonialismo di
insediamento.
Non a caso tra XVII e XVIII secolo
avvengono i primi conflitti con le
popolazioni indigene. In questo
periodo gli insediamenti coloniali
si consolidano, soprattutto quelli
compresi tra la catena degli
Appalachi e la costa atlantica (le
tredici colonie britanniche), che
assumono una struttura
economico-sociale sempre più
autonoma tanto da separarsi dalla
madrepatria (attraverso la guerra
d’indipendenza, 1775-1783) e
formando il nucleo originario di una
nuova entità statale: gli Stati
Uniti d’America.
Seguirà una progressiva espansione
verso ovest in cui emergeranno tutte
le caratteristiche del colonialismo
di insediamento, divenendone in
pratica il modello. Espansione che
dipese anche dall’enorme flusso
migratorio proveniente dall’Europa.
In gran parte poveri causati dai
sensibili contraccolpi sociali
causati dallo sviluppo del sistema
industriale-capitalistico e dalla
comparsa delle sue prime cicliche
crisi. Tant’è che la nazione
statunitense e soprattutto i
territori a ovest dei Monti
Appalachi, diventò una terra di
nuove opportunità, in teoria a
disposizione di tutti, dato era
considerata vuota (vacuum
domicilium, terre vacanti). “Le
narrazioni sulla terra vergine hanno
occupato un posto fondamentale nella
mitologia coloniale statunitense” (Bartolomei
2017).
Pertanto nella realtà i nativi,
superflui, assimilati alla natura
selvaggia e ostacolo al possesso dei
territori, potevano e dovevano
essere rimossi. Prende forma la
logica dell’eliminazione e nelle
migrazioni verso ovest si genera una
“frenesia per la terra” che
contribuisce a formare un immensa
frontiera senza legge né autorità
dove le popolazioni indigene sono
loro malgrado coinvolte nelle
logiche del sistema capitalistico.
Ovvero spinte a sottoscrivere
accordi per la cessione di terre,
molti dei quali fraudolenti e spesso
incomprensibili ai nativi, dato che
ignoravano concetti tipo la
proprietà privata specie se riferita
a beni naturali.
Per gran parte del XIX secolo si
creò quell’insieme di violenza
privata e interventi militari del
governo statunitense (occupazioni ed
espropri forzati di vaste aree)
caratteristico del mito della
frontiera o della cosiddetta
«conquista del West» (immortalata
dal cinema nel secolo successivo)
che si arresterà solo sulla costa
dell’Oceano Pacifico. “Tutto è
avvenuto al riparo dello schermo
della frontiera, una volta rimosso e
posatasi la polvere, le attività
irregolari sono diventate regolari e
i confini della colonizzazione dei
bianchi si sono estese” (Wolfe
2017).
Il settler colonialism
distrugge ma per costruire una nuova
società pertanto inizia una fase
nuova. Una serie di leggi colpirono
ogni aspetto della vita dei nativi
americani: religione, lingua,
libertà politiche ed economiche e
diversità culturali. Tra le più
importanti sicuramente il Dawes
Severalty Act (1887),
legge che lottizzava e assegnava
individualmente la terra tribale ai
nativi, in modo da poter essere
venduta (prima o poi) ai coloni
bianchi. “Con la morte della
frontiera l’eliminazione si rivolse
all’interno mirando a penetrare
nell’individuo indiano […] per
allontanarlo dalla tribù e farlo
entrare nella società dei bianchi.
[…] La magia del possesso privato
avrebbe fatto uscire gli indiani
dall’inerzia collettiva
dell’appartenenza tribale e li
avrebbe introdotti
nell’individualismo progressista del
sogno americano” (Wolfe 2017).
Nel 1924 viene infine estesa la
cittadinanza statunitense a tutti i
nativi; di fatto annullando la loro
diversità sociale e culturale. Il
possesso del territorio era
completato e gli indigeni eliminati
o ridotti in condizioni da non
ostacolare la nuova società ormai
consolidata. Attualmente gran parte
di essi vive nelle cosiddette
«riserve indiane» e si stima che sia
sopravvissuto solo un terzo della
popolazione originaria. Qualcosa di
molto simile avvenne anche
nell’estremo nord americano la cui
colonizzazione portò alla formazione
dello Stato del Canada (1867).
Il colonialismo di insediamento ha
interessato anche il Continente
australiano che dal XVIII secolo era
stato meta di numerosi viaggi
esplorativi da parte di navigatori
inglesi. Pertanto la Gran Bretagna,
basandosi sulle teorie riguardanti
il diritto di scoperta di una «terra
che non appartiene a nessuno» (terra
nullis), dichiarò l’Australia
territorio disabitato rivendicandone
la sovranità; ignorando la
popolazione aborigena che vi abitava
da millenni.
Inizialmente utilizzata come colonia
penale (1788) fu ben presto
considerata, come il Nord America,
terra d’immigrazione, così come le
isole neozelandesi. Queste ultime
furono annesse all’Impero britannico
mediante un trattato (Waitangi,
1840, dai termini dubbi e poi
disconosciuto) con la popolazione
nativa, i Maori. Nel corso del XIX,
in gran parte del Continente, il
progressivo aumento
dell’immigrazione e degli
insediamenti inglesi causò lo
sviluppo di quelle logiche
eliminatorie che nello stesso
periodo si stavano evidenziando
dall’altro capo dell’Oceano
Pacifico.
Agli Aborigeni e ai Maori toccò più
o meno la stessa sorte degli indiani
d’America. Durante il dominio
britannico, con interventi militari
che provocarono estesi conflitti,
dalla Black War (1824-1832)
alle cosiddette Guerre Maori
(1845-1866), sia quando si
costituirono nazioni e società
bianche (Australia e Nuova Zelanda);
compresa l’introduzione di leggi
assimilazioniste comprendenti la
sottrazione e gli affidi forzati di
migliaia di bambini aborigeni con il
fine di disgregarne e annullarne
società e cultura.
Il colonialismo d’insediamento
europeo toccò anche i territori
sudafricani i quali furono al centro
di due successive ondate
colonizzatrici. La prima alla metà
del Seicento da parte degli olandesi
(i coloni erano chiamati boeri,
contadini), poi a partire dal 1797
iniziò la colonizzazione inglese. La
diffusione degli insediamenti
europei comportò costanti conflitti
con la popolazione indigena e
culminò in un lungo scontro fra i
colonizzatori (guerre anglo-boere:
dal 1880 al 1902). Il risultato fu
l’unione delle varie colonie europee
con il nome appunto di Unione
Sudafricana che ottenne
l’indipendenza dalla madrepatria nel
1910.
In questo caso però i coloni non
divennero maggioranza sul
territorio. Qui il colonialismo di
insediamento rimase in uno stato
intermedio tra la logica
eliminatoria e la logica di
sfruttamento. Tant’è che nel corso
degli anni venne sviluppata la
politica dell’apartheid;
privazione dei diritti civili e
politici della popolazione nativa,
segregata in aree periferiche semi
autonome (bantustan) ma
comunque utilizzata come manodopera
a basso costo. Sistema che
permetteva alla minoranza bianca di
controllare l’intero Stato
sudafricano e che durerà fino agli
anni Novanta del XX secolo quando, a
seguito delle pressioni
internazionali inizierà un processo
di decolonizzazione.
Come si è detto alla base dei casi
di colonialismo d’insediamento
dell’età moderna vi era l’aspetto
economico. Non bisogna però
dimenticare l’aspetto religioso che
ha svolto un ruolo altrettanto
importante. Dall’idea di una terra
immensa e vergine da sfruttare al
concetto di «Terra Promessa» di
derivazione biblica il passo fu
breve e, di conseguenza,
l’identificazione dei colonizzatori
come il «Popolo Eletto» fu quasi
naturale considerando che la gran
parte di essi proveniva non solo da
paesi protestanti, dove i concetti
del Vecchio Testamento erano
maggiormente diffusi, ma soprattutto
da ambienti di integralismo
religioso.
Si pensi al puritanesimo che
caratterizzò le prime colonizzazioni
inglesi del Nord America:
“Immaginavano di lasciare il Vecchio
mondo europeo corrotto dal peccato e
dalla presenza del Papa per erigere
il Regno di Dio nella Nuova
Inghilterra” (Bartolomei 2017). Idee
che si trasferiranno nella società
statunitense tanto da portare alla
convinzione che l’espansione verso
ovest non fosse altro che parte di
quel «Destino manifesto» del quale
si sentiva investita al fine di
diffondere nel resto del mondo i
propri valori, il proprio stile di
vita e le proprie istituzioni.
Richiami biblici sono presenti anche
nella colonizzazione olandese del
Sud Africa; “Nell’ideologia
nazionalista boera il concetto di
chiamata e di destino nazionale si
fonde con la concezione biblica per
cui il popolo boero sarebbe il
popolo eletto e il Sudafrica la
terra promessa” (Bartolomei 2017). E
lo spostamento verso l’interno del
paese (il cosiddetto Grande Trek),
causato dall’arrivo dei coloni
inglesi, fu paragonato all’Esodo
biblico degli ebrei dall’Egitto.
L’elemento religioso ha sicuramente
avuto un ruolo importante, tanto
quanto i fattori economici, nel più
recente episodio di settler
colonialism: la formazione dello
Stato d’Israele. La forte crisi
economica che aveva investito
l’Europa nella seconda metà del XIX
secolo, il crescente antisemitismo e
l’inizio delle persecuzioni,
soprattutto nella Russia zarista,
sono all’origine della prima
migrazione ebraica in Palestina
(1882-1904).
Nello stesso periodo all’interno del
contesto politico e culturale
europeo, caratterizzato da ideologie
nazionaliste e di autodeterminazione
dei popoli, nasce l’ipotesi della
creazione di uno Stato per gli
ebrei. Tutto ciò porta alla nascita
del Movimento sionista (da Sion
collina di Gerusalemme) che
individua la Palestina come luogo
ideale per la costituzione della
nazione ebraica, rinnovando il mito
del ritorno a quella stessa terra
che nella Bibbia è promessa da Dio
ad Abramo. Una raccolta fondi tra le
comunità ebraiche europee permise
l’acquisto di terre nell’ambito
delle leggi e delle disposizioni
dell’Impero Ottomano del quale la
Palestina faceva parte. Tant’è che i
primi coloni riuscirono a inserirsi
nel contesto palestinese senza
grandi tensioni.
È con la seconda migrazione
(1904-1914) che le correnti più
oltranziste del sionismo iniziano a
prevalere, dando un’impronta diversa
alla colonizzazione. “Costruirono
comunità ancora più segregate,
introducendo un’idea estranea di
insediamento umano recintato in
un’area rurale che prima non era mai
esistita e cercarono di costruire
una presenza ebraica esclusiva in
uno spazio urbano, dapprima
dominando il mercato del lavoro, in
seguito costruendo quartieri e città
separate. […] Non c’era alcun
bisogno di essere esclusivi per
sopravvivere e anche di assicurare
nuove immigrazioni. C’era bisogno di
esclusività soltanto se si voleva
sbarazzarsi della popolazione
locale” (Pappe 2017). Da qui il
crescente conflitto con la
popolazione indigena; in pratica
l’inizio della logica eliminatoria,
soprattutto dopo le nuove migrazioni
dall’Europa causate dalle
persecuzioni naziste.
Il culmine si raggiungerà con la
Guerra arabo-israeliana del 1948 che
di fatto segnerà la nascita dello
Stato d’Israele. La popolazione
palestinese verrà in parte espulsa
verso i paesi confinanti in parte
verrà inglobata nel nuovo Stato.
Attualmente è riconosciuta come
minoranza arabo-israeliana ma con
numerose limitazioni giuridiche. Nel
giro di un decennio la popolazione
ebraica triplicherà a causa di nuovi
flussi migratori.
Di conseguenza il progetto coloniale
è proseguito con la giudaizzazione
del territorio mediante la creazione
di nuovi insediamenti in aree
scarsamente popolate e soprattutto
in zone abitate dalla popolazione
palestinese. Qui le nuove fondazioni
sono state dislocate in modo da
circondare le comunità indigene,
impedirne la contiguità e mantenere
il controllo su di esse. I governi
israeliani hanno emanato leggi per
impedire lo sviluppo edilizio
palestinese e attuato un piano di
confisca delle loro proprietà
diventate patrimonio dello Stato.
Tra gli anni Sessanta e Settanta del
Novecento, le guerre con i paesi
arabi limitrofi hanno portato lo
Stato ebraico a occupare
militarmente vaste zone oltre
confine, in gran parte abitate da
palestinesi e procedendo anche in
questi territori a pratiche
coloniali, con corollario di
violenze e violazione di diritti
tutt’ora in corso.
Proprio il caso israeliano porta a
sostenere la tesi di Patrick Wolfe
per cui il colonialismo di
insediamento non sia un processo
occasionale e transitorio ma sia un
progetto di trasformazione
strutturale di un territorio. La sua
evoluzione storica dalle prime
manifestazioni nell’età moderna a
quella contemporanea dimostra come
sia in pratica un modo di gestione
del potere, di dominio, strettamente
legato al sistema di produzione
capitalistico.
Addirittura secondo alcuni studiosi
il settler colonialism si è
ormai esteso a livello globale e,
per il sociologo australiano Lorenzo
Veracini, “definisce gli ordinamenti
politici attuali”. Ovvero in quasi
tutti i paesi anche quelli a
capitalismo avanzato, compresa
l’Europa, “si va incontro a processi
di spoliazione che assomigliano a
quelli che hanno dovuto affrontare
le popolazione native durante la
colonizzazione europea” (Bartolomei
2017).
Spoliazione che avviene attraverso
la privatizzazione di imprese
pubbliche e dei beni comuni e
l’esclusione di parte della
popolazione dal sistema produttivo.
“Quasi ovunque è in crescita il
numero dei lavoratori poveri: la
riproduzione della forza lavoro non
è più una priorità. Come i popoli
indigeni esposti all’assalto
furibondo del colonialismo
d’insediamento, gli espulsi sono
marcati come privi di valore […] si
riproducono modalità di dominio che
assomigliano al colonialismo
d’insediamento ottocentesco” (Veracini
2017).
Riferimenti bibliografici:
Bartolomei, Enrico, Carminati,
Diana, Tradardi, Alfredo (a cura
di), Esculsi. La globalizzazione
neoliberista del colonialismo di
insediamento, DeriveApprodi,
Roma 2017.