Oggi siamo più che mai consapevoli
che la natura plasma attivamente la
vita sulla Terra, ma anche che tanto
l’umanità quanto il clima hanno
avuto un ruolo determinante nello
sviluppo delle civiltà. Le
variazioni climatiche hanno
esercitato un’influenza diretta e
indiretta su di esse, attirando
l’attenzione dell’uomo sin dai tempi
più remoti, soprattutto quando esse
condizionavano o mettevano in crisi
il suo modo di vivere.
Una ricerca pubblicata nel 2023
sulla rivista
Le Scienze ha evidenziato,
basandosi su riscontri genetici, che
i nostri antenati rischiarono
l’estinzione già 900.000 anni fa, a
causa di condizioni climatiche
improvvisamente avverse. Si trattò
di una delle prime glaciazioni che
segnarono il passato del nostro
pianeta. Più recentemente Vincenzo
Levizzani, in
Storia del mondo in 10 tempeste
(Il Saggiatore), ha ipotizzato che
il clima abbia contribuito anche
alla caduta dell’Impero romano. Tra
il 150 e il 450 d.C., infatti, in
Europa si verificò un progressivo
abbassamento della temperatura –
fino a circa -4,5 °C – che
compromise la produzione agricola e
favorì le migrazioni dei cosiddetti
“popoli barbari” dal Nord verso
regioni più temperate.
Quando il genere
Homo comparve in Africa, tra 2
e 2,5 milioni di anni fa, era –
secondo gli antropologi – un’umanità
promettente ma vulnerabile,
costretta ad affrontare
ripetutamente l’alternanza di cicli
glaciali e interglaciali. Questi
ultimi, succedutisi fino a circa
10.000 anni fa, plasmarono
l’evoluzione della specie,
selezionando individui sempre più
adatti alla sopravvivenza.
Con la fine dell’ultima glaciazione
(la würmiana), avvenuta intorno a
10.000 anni fa, e il progressivo
ritiro dei ghiacciai, il clima
divenne più mite e favorevole. Nella
fascia subequatoriale si
svilupparono ambienti caratterizzati
da abbondanti precipitazioni e
condizioni ideali per la vita umana:
è il periodo definito “optimum
climatico postglaciale”, con due
fasi culminanti intorno al 6000 e al
3000 a.C. Allora, dove oggi si
estendono i deserti del Sahara, del
Negev, dell’Arabia e della Persia,
scorrevano fiumi e abbondavano
pascoli e fauna selvatica: un vero
paradiso per l’uomo.
Col tempo, però, le precipitazioni
diminuirono e la siccità condusse
alla progressiva desertificazione.
L’uomo, privato di un ambiente
generoso, fu costretto a ideare
nuove strategie di sopravvivenza.
Quando la raccolta di frutti
spontanei e la caccia non bastarono
più, nacquero l’agricoltura e
l’allevamento. Fu una trasformazione
epocale: da un’economia spontanea ed
estensiva si passò a una organizzata
e intensiva. In corrispondenza dei
grandi fiumi – Tigri, Eufrate, Nilo,
Giordano e Indo – sorsero così le
prime civiltà della storia.
Le testimonianze scritte più
antiche, risalenti alla fine del
secondo millennio a.C., raccontano
di fenomeni meteorologici osservati
e descritti con attenzione. Le
calamità naturali erano allora
considerate punizioni divine, alle
quali l’uomo poteva reagire solo con
sacrifici e riti propiziatori. Tale
mentalità è comune agli antichi
popoli orientali – Sumeri, Ittiti,
Assiro-Babilonesi – e anche agli
Ebrei, per i quali gli eventi
naturali erano manifestazioni della
volontà di un Dio trascendente, come
emerge chiaramente dalle pagine
della Bibbia.
Solo molti secoli più tardi si
arrivò a una spiegazione razionale
dei fenomeni meteorologici. Nel
mondo greco-romano la scienza
cominciò a interpretare tali eventi
come effetti di processi naturali,
indipendenti dalla volontà divina:
una prima grande vittoria della
ragione sull’ignoranza e la
superstizione.
Le tavolette cuneiformi sumeriche,
risalenti alla fine del secondo
millennio a.C., riportano
osservazioni climatiche e
lamentazioni per la siccità
crescente, le tempeste di sabbia e
la scarsità di acqua nel Tigri e
nell’Eufrate. I Sumeri, pur avendo
realizzato una vasta rete di canali
irrigui, dovettero perfezionarla per
sopravvivere alle condizioni sempre
più aride. Scavarono nuovi canali e
introdussero chiuse innovative,
riuscendo a convogliare l’acqua
anche da zone più profonde e a
distribuirla grazie al vento, in
assenza di pendenza naturale. Ma la
siccità persistente e le “tempeste
amare”, insieme alle invasioni dei
Babilonesi, segnarono la fine di
quella civiltà.
Durante il periodo assiro-babilonese
la siccità continuò, ma la società
più evoluta mise a punto sistemi
irrigui ancora più sofisticati. Le
loro osservazioni meteorologiche,
registrate con regolarità, si
avvicinano molto alla nostra
mentalità scientifica. In alcune
tavolette si menziona persino una
“banderuola del vento” – chiamata
“uccello del vento” – per
determinarne la direzione,
un’invenzione sorprendente,
anteriore a quelle conosciute in
Cina e in Grecia.
Analoghi problemi di siccità
afflissero anche l’antico Egitto.
Gli Egizi reagirono potenziando il
sistema di irrigazione artificiale
del Nilo e sviluppando un calendario
solare di 365 giorni, come riportato
da Erodoto, molto più regolare di
quello lunare allora usato dai
Greci. Nel frattempo, in Anatolia,
gli Ittiti – popolo tecnologicamente
avanzato e abile nella lavorazione
del ferro – vivevano sotto
condizioni climatiche simili. Il
loro dio più importante era quello
della Tempesta, a cui attribuivano
le piene e i disastri naturali,
segno di una religiosità ancora
profondamente legata ai fenomeni
atmosferici.
Anche nella regione del Mediterraneo
orientale, dove vivevano gli Ebrei,
il clima fu spesso teatro di
sconvolgimenti. La Bibbia,
considerata fino a Galileo una
“summa” del sapere antico, conserva
memoria simbolica di questi eventi:
la cacciata dall’Eden può essere
letta come la fine dell’età
dell’abbondanza e l’inizio della
necessità del lavoro agricolo,
mentre il racconto del diluvio
universale potrebbe derivare da
un’antica inondazione del Tigri o
dell’Eufrate, forse causata dal
ritiro dei ghiacciai würmiani e
dallo scioglimento delle nevi.
Sedimenti di fango e detriti
rinvenuti nella regione sembrano
confermarlo. I Sumeri furono i primi
a tramandare un racconto di diluvio
– con l’eroe Zisudra, analogo al Noè
biblico – seguito da versioni
babilonesi e assire, come il poema
di
Gilgamesh.
Nell’antichità furono dunque
variazioni climatiche significative
a indurre l’uomo a cambiare
radicalmente il proprio stile di
vita, senza che egli ne fosse
responsabile. Oggi, invece, le
attività umane – in particolare
quelle industriali – incidono
pesantemente sul clima, generando il
cosiddetto “effetto serra”.
L’accumulo di gas come anidride
carbonica, biossido di azoto e
metano, di origine naturale e
antropica, ha provocato il
riscaldamento globale. A ciò si
aggiungono i clorofluorocarburi
(CFC), esclusivamente di origine
umana.
La concentrazione crescente di CO₂,
attestata dalle analisi delle bolle
d’aria intrappolate nei ghiacci
polari e dagli anelli degli alberi,
mostra un aumento netto dall’inizio
dell’era industriale. L’Unione
Europea ha avviato il
Green Deal, un piano di misure
e investimenti per ridurre le
emissioni di gas serra e favorire la
“transizione ecologica”, con
l’obiettivo di abbattere del 90% le
emissioni entro il 2040 e
raggiungere la neutralità climatica
nel 2050. Tuttavia, il piano è oggi
oggetto di critiche, poiché sembra
penalizzare alcuni settori
economici.
Guardando al futuro, secondo il
fisico Antonino Zichichi la causa
più rilevante delle modificazioni
climatiche non sarà da attribuire
all’uomo, ma alle particolari
condizioni della Terra stessa. Gli
studiosi confermano che il clima,
pur sempre più compreso, resta un
sistema complesso e imprevedibile.
Le cause primarie dei suoi mutamenti
– di natura astronomica, astrofisica
o geofisica – sono difficili da
valutare e sfuggono a previsioni
certe.
Attraverso la fisica quantistica
sappiamo che il mondo è intimamente
connesso e che i processi naturali
si influenzano a vicenda. Le
condizioni astronomiche, gli
influssi solari, il riscaldamento
degli oceani e dei continenti hanno
determinato le grandi variazioni
climatiche del passato e
determineranno quelle future.
Fu, per esempio, il ritorno verso
latitudini più settentrionali della
Corrente del Golfo a segnare la fine
dell’ultima era glaciale e la
nascita delle prime civiltà
fluviali. Per questo, oggi più che
mai, è nostro dovere evitare che
all’inevitabilità di certi
sconvolgimenti naturali si
aggiungano i danni prodotti
dall’insipienza umana.