.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

medievale


N. 135 - Marzo 2019 (CLXVI)

lA CIVILTà COMUNALE ITALIANA
L’evoluzione del sistema politico

di Francesco Giannetti

 

Nonostante la portata del fenomeno comunale abbia estensione europea, si può affermare che l’area italica è sicuramente all’avanguardia per questo aspetto e in particolare, nelle regioni centro-settentrionali: si sviluppa una sorta di vera e propria civiltà comunale con aspetti comuni tra i diversi centri interessati.

 

Tra le caratteristiche è importante ricordare: dal punto di vista politico, l’alto grado di effettiva autonomia che è un tratto tipico solo dei comuni italiani; dal punto di vista istituzionale, l’intensa circolazione di esperienze da un centro all’altro, contribuisce a uniformare il fenomeno; sotto il profilo sociale, la forte articolazione e differenziazione, che offre possibilità di ascesa e promozione; dal punto di vista territoriale, lo stretto legame con le aree extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto della costruzione di contadi; dal punto di vista culturale, l’esperienza comunale italiana esprime un nesso organico tra la politica e le elaborazioni intellettuali che si impegnano a legittimare i regimi di autonomia.

 

Le città dell’Italia meridionale al contrario non conoscono una vera esperienza comunale. Lo sviluppo delle autonomie urbane è qui bloccato dall’affermazione di una forte autorità centrale in seguito all’instaurarsi della monarchia normanna.

 

Grandi città come Napoli, Salerno, Bari, Palermo, Bari o Messina e moltissimi centri pugliesi, campani e siciliani, anche se ricchi di abitanti, commercianti e attività produttive, sono inquadrati nell’amministrazione regia.

 

Nelle città i magistrati sono nominati dal re e le cittadinanze non esprimono un autentico autogoverno. Esse ricevono limitate prerogative, amministrative, pur conservando e vedendosi confermate le proprie consuetudini.

 

In Sardegna non si attua nessun processo spontaneo verso il Comune che vi è parzialmente importato solo dai pisani e dai genovesi. Inoltre le città non raggiungono un pieno controllo del proprio territorio, essendo la loro proiezione espressione dei legami economici, sociali e religiosi delle società locali, dove forte rimane il condizionamento dell’aristocrazia rurale.

 

La proiezione territoriale dei comuni dell’Italia centro-settentrionale si traduce invece nel controllo diretto del “contado”, cioè di un’area corrispondente in larga misura alla diocesi cittadina, erede a sua volta del territorio su cui la città esercitava già in età romana una funzione di coordinamento.

 

La conquista del contado, avviata nel XII secolo e consolidata nel successivo, ricorre alle armi a agli accordi, utilizzando anche i vincoli feudali per legare alla città i signori rurali, meno forti rispetto ad altre aree europee e che spesso decidono di integrarsi nel mondo comunale.

 

I comuni si preoccupano di legittimare ideologicamente la formazione dei contadi, che risponde a logiche concrete. L’assoggettamento politico e fiscale delle comunità rurali garantisce approvvigionamenti alimentari e favorisce la diffusione della proprietà fondiaria dei cittadini che sono la fonte di reddito tutelata dagli statuti comunali.

 

Anche la liberazione dei contadi messe in atto da alcuni comuni nel corso del Duecento ha per fine quello di sottrarre uomini ai signori rurali, di aumentare il numero di contribuenti fiscali e di liberare manodopera pe le manifatture urbane.

 

L’esperienza comunale matura nella prima metà del XIII secolo, dando luogo a un primo ampliamento del gruppo dirigente, alla stabilizzazione delle istituzioni e a un decisivo riordinamento amministrativo e giuridico.

 

Simbolo di questa nuova fase politica è la magistratura del “podestà”, affiancata da un consiglio ristretto di cittadini. Il podestà è reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della politica che si muovono tra i comuni contribuendo a prendere i consigli cittadini, guidare l’esercito, mantenere l’ordine e amministrare la giustizia, fanno parte dei suoi incarichi.

 

Il nuovo regime consente di allargare a famiglie cresciute in ricchezza, talora anche provenienti dal contado, la partecipazione ai consigli e agli uffici del comune, superando il sistema consolare che era stato egemonizzato da una ristretta cerchia di famiglie potenti provocando conflitti crescenti.

 

Il podestà comincia anche a fare redigere per iscritto ai propri giudici e notai i diritti del Comune, le sue leggi e consuetudini e a tenere registrazioni delle quotidiane attività amministrative in volumi e poi in archivi pubblici.

 

Ai notai viene riconosciuta sin dal XII secolo la capacità di redigere atti autentici e validi come prova legale, apponendovi direttamente i marchi professionali, i signa tabellionis e curandone la conservazione documentaria dei diritti e delle attività amministrative dei comuni che sarà poi consolidata dai regimi di “popolo”: una vera e propria “rivoluzione documentaria” centrata sull’uso pratico della scrittura e sulla redazione di registri.

 

Il termine statuto deriva dall’espressione “statutum est”, (è stabilito) e si riferisce ai regolamenti e agli insiemi di norme che si danno tutte le associazioni e comunità che esercitano qualche forma di autorità. I Comuni emanano testi legislativi complessi, spesso costituiti da centinaia di leggi divise in libri che regolano i principali aspetti della vita pubblica e privata dei cittadini.

 

La crescita demografica e lo sviluppo economico hanno promosso la continua ascesa di gruppi sociali “popolari”, costituita da mercanti, banchieri e artigiani, esclusi inizialmente dalla partecipazione politica.

 

Per tutto il ‘200 i Comuni sono al centro di conflitti violenti, che spesso danno luogo a vere e proprie guerre urbane. Sono prima i fanti a lottare contro i privilegi dei cavalieri dell’esercito comunale per una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli del Comune.

 

Alla metà del secolo le società di “popolo” che hanno riunificato le corporazioni di mestiere e le società armate a base rionale, riescono a imporre sul piano politico proprie istituzioni che affinano le preesistenti: un consiglio generale e uno ristretto, un collegio esecutivo di “anziani” e una magistratura di vertice, il “capitano del popolo”, modellata su quella podestarile. Il sistema politico si allarga a comprendere nuove forme di partecipazione politica, estese a gruppi sociali e familiari fino ad allora rimaste fuori dal governo del Comune.

 

Nella seconda metà del ‘200 si moltiplicano però le esclusioni dal gruppo dirigente. In alcune città i regimi di “popolo” che si battono per l’allargamento della base sociale del comune cominciano a escludere dagli uffici politici, sotto minaccia di gravi pene, famiglie di origine nobile e mercantile ritenute potenti e accusate di minacciare i popolani e indicate con il termine di “magnatizie”.

 

Dopo la morte di Federico II e la sempre più forte ingerenza del papato nelle vicende interne dei comuni, la nobiltà urbana e i grandi banchieri e mercanti che ne imitano lo stile di vita tendono a organizzarsi in parti. Queste associazioni cercano di egemonizzare la politica cittadina, raccordandosi a reti di alleanze intercomunali filo-pontificie o filo-imperiali, che assumono i nomi, rispettivamente di guelfa e ghibellina.

 

Quando una parte riesce ad affermarsi promuovo l’esclusione dalla città dei nemici della parte avversaria, spogliandoli dei beni e privandoli della cittadinanza. Matrice delle lotte di fazione cittadine è sempre la cultura della vendetta. I fuoriusciti, banditi o esiliati, si rifugiano nei castelli del contado o nelle città amiche congiurando per rientrare militarmente nel comune di origine e costituendo una minaccia costante.

 

La tradizione di esercizio di prerogative pubbliche da parte del vescovo ha rappresentato la base per la legittimazione dei regimi di autogoverno cittadino in cui si impegnano varie generazioni di intellettuali. Il richiamo all’antica “libertà”, di cui le città erano sede, serve alla costruzione di un modello politico “repubblicano”, fondato sull’idea della libera elezione dei rettori e a fornire strumenti per il governo delle città.

 

I regimi di “popolo” elaborano un sistema di regole di convivenza civica, ammantato dall’ideologia della pace, della giustizia e del bene comune. I notai e soprattutto i giudici sono gli intellettuali laici che adattano alle nuove esperienze politiche la tradizione del pensiero antico ed ecclesiastico elaborando i tratti dell’ideologia comunale.

 

A loro si devono i richiami espliciti alla romanità o gli echi biblici del vocabolario politico: consules, res publica ecc., da un lato, libertas, iustitia, paradisus, ecc., dall’altro. Essi si impegnano anche nella stesura di trattati morali destinati all’educazione dei cittadini e dei rettori, come l’opera enciclopedica Li Livres dou Tresor, (Libri del Tesoro) del notaio Brunetto Latini, cancelliere del Comune di Firenze nel secondo Duecento. In larga misura sono notai anche gli autori delle numerose cronache delle vicende cittadine che vengono stese a partire dal XII secolo e in lingua volgare dal XIII secolo.

 

La partecipazione politica che i regimi comunali offrono ai propri cittadini riguarda però una minoranza degli abitanti della città: ne rimangono esclusi, oltre alle donne, anche i lavoratori manuali, gli immigrati, i servi, ecc.

 

Per questo è improprio affermare che si tratti di regimi “democratici”: nei consigli oltretutto, non si discute liberamente, ma si ratificano leggi decise in comitati ristretti.

 

I meccanismi di esclusione e le lotte di fazione della fine del Duecento palesano inoltre la crisi dei regimi comunali e il loro superamento in forme signorili o oligarchiche, cioè verso forme di governo concentrato nelle mani di pochi individui potenti.

 

 

Riferimenti Bibliografici:

 

Menant F., L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, 2011;

Milani G., I comuni italiani. Secoli XII-XIV, Laterza, 2009;

Occhipinti E., L’Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Carocci, 2000;

Wickham C., Sonnambuli verso un nuovo mondo. L’affermazione dei comuni nel XII secolo, Viella, 2017.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.