N. 15 - Marzo 2009
(XLVI)
La città futura
dall’avvenire al
regime
di Ettore Janulardo
Nel contesto culturale
nazionale l’immagine pittorico-letteraria della città
s’impone in termini innovativi con il futurismo.
E’ in quest’ambito
rappresentativo che il mito della “città tentacolare” si
definisce in Italia, divenendo fonte archetipica della
creazione artistica e topos della società in
trasformazione, che si costruisce nello slancio e con lo
sforzo di una comunità di produttori.
Ma si tratta di un’invenzione letteraria in anticipo sui
tempi. Esaltando una metropoli industriale frenetica e
rivoluzionaria, Marinetti e i futuristi si compiacciono
di descrivere – con frasi ed immagini spesso
tardivamente tributarie del simbolismo – una realtà
trasformata che non si era ancora generalizzata nello
scenario socio-economico italiano. In maniera opposta e
speculare, i futuristi paiono così condividere, insieme
ai nostalgici del passato e ai detrattori delle
trasformazioni della vita urbana, la sensazione
mitizzata di una trasformazione già avvenuta, i cui
risultati sarebbero evidenti agli occhi di tutti.
A fronte dell’immagine futurista di una rivoluzione
metropolitana in atto, ricordiamo la realtà storica ed
esaminiamo alcuni dati statistici (cfr. R. Mariani,
Città e campagna in Italia 1917-1943, 1986).
Il tessuto socio-economico peninsulare è in ritardo
rispetto al contesto europeo più sviluppato.
L’evoluzione delle strutture urbane italiane riproduce
la frammentazione della storia pre-unitaria: a una
pluralità di micro-stati e di micro-capitali corrisponde
il frazionarsi del ruolo stesso di capitale nazionale,
trasferita da Torino a Firenze e poi a Roma nell’arco di
un decennio.
Oltre che per aspetti
della dimensione politica, la storia italiana si
avvicina a quella tedesca – più che a quella francese o
inglese – anche per i particolarismi territoriali e per
la presenza, in gran parte dello Stato, di luoghi urbani
d’importanza tra loro comparabile, in assenza di una
città in grado di svolgere un riconosciuto ruolo-guida.
Le città italiane entrano
così nel XX secolo senza aver potuto attirare
popolazione rurale al di là di una sfera d’influenza
limitata, più tardi definibile di “profondità
regionale”.
Nella sua analisi del 1907 sul “pensiero moderno”,
Napoleone Colajanni pubblica alcuni dati sull’espansione
“mostruosa” delle principali metropoli straniere
(Parigi, Berlino, Londra, New York, Chicago),
sottolineando nel contempo le differenze riscontrabili
nella situazione italiana (cfr. N. Colajanni, Il
pensiero moderno nella scienza, nella letteratura e
nell’arte, 1907).
Egli osserva che le città più popolose della penisola
erano, nel 1800, le seguenti:
Napoli (350.000 abitanti); Milano (170.000); Roma
(153.000); Palermo (140.000); Torino (74.000).
E nel 1901, la situazione non appare profondamente
diversa: Napoli (547.503 abitanti), Milano (490.000);
Roma (424.943); Torino (329.691); Palermo (305.716).
Tali cifre sono testimonianza di una crescita urbana
regolare, incapace tuttavia di generare le ampie
agglomerazioni umane osservabili fuori d’Italia.
Benchè avvertibile
nell’evoluzione socio-economica del territorio alla fine
del XIX secolo, il movimento migratorio verso i maggiori
centri urbani non è incoraggiato né dalla borghesia
nazionale né dalle autorità politiche, che considerano
con inquietudine la tendenza all’urbanizzazione.
Meno tentacolare delle
metropoli straniere, la città italiana è vista come
luogo di degradazione fisica e morale e come fonte di
problemi che il giovane Stato unitario non sembra in
grado di visualizzare nella sua complessità né, a
maggior ragione, di affrontare correttamente.
E la realtà con cui confrontarsi è la gestione concreta
delle città, che deve comporsi con una serie di dati
problematici, tipici dello Stato italiano nella seconda
metà dell’Ottocento:
fragilità dell’amministrazione statale;
difficile situazione economica;
assenza di un’autentica classe borghese;
mancanza di una moderna cultura industriale;
basso livello degli investimenti privati;
alfabetizzazione pressoché nulla;
necessità d’interventi risanatori nei principali “centri
storici”.
Proseguendo una tradizione che ha per lungo tempo
attraversato la storia italiana – e che già nella
“rifeudalizzazione” cristallizza un processo di
periferica decadenza rispetto ai flussi commerciali
dell’Europa settentrionale –, i politici e i consulenti
dello Stato unitario suggeriscono la fedeltà alla
campagna come antidoto alla degenerazione della vita
urbana. Si valuta che l’ambiente cittadino produca
effetti deleteri sulla popolazione, anche se talvolta si
ammette che la circolazione delle idee e il progresso
possano essere positivamente influenzati dall’atmosfera
cittadina.
Le condizioni di vita
negli ambienti rurali non sono migliori: vi si può
constatare quell’insieme di malattie, di drammi morali
(incesti e violenze) e di problemi quotidiani (fame,
miseria, analfabetismo) di cui si paventa la diffusione
nei centri urbani. Per le autorità costituite,
scoraggiare la possibile urbanizzazione dei diseredati
consente la loro dispersione nei territori rurali:
rendendo meno visibili tali problemi, ogni eventuale
sforzo di soluzione diviene meno urgente.
La migrazione verso i maggiori centri urbani non
corrisponde a uno sconvolgimento sociale nel contesto
italiano. Rispetto a ciò che avviene nei principali
paesi industrializzati all’inizio del XX secolo – ove i
flussi migratori sono in gran parte costituiti da
contadini che entrano per la prima volta in contatto con
una realtà urbana, obbligata perciò a confrontarsi con
un dato demografico e socio-economico significativamente
differente –, la maggior parte dei movimenti migratori
italiani proviene dalle piccole città di provincia, da
cui i membri della piccola e media borghesia si dirigono
verso i centri principali (ovvero le ex capitali degli
Stati pre-unitari), alla ricerca di nuove possibilità e
di una definitiva affermazione sociale. Le città
maggiori sono così delegate a svolgere funzioni di
filtro sociale e di stabilizzazione gerarchica per
esponenti della borghesia di provincia.
Dopo il 1861, il ricorrere di epidemie in numerose città
d’Italia dimostra che la situazione igienica è
difficile; gli immobili delle zone centrali di città
importanti (Napoli, Roma, Palermo) sono in pessimo
stato. La soluzione preventivata consiste nella
demolizione dei quartieri insalubri e nel trasferimento
degli abitanti.
E’ in tale contesto che
trova origine la logica dell’emergenza, che informa di
sé la politica dell’edilizia popolare e che determina il
“modo d’uso” delle periferie italiane: destinate ad
accogliere, più che ancora scarsi forestieri alla città
in procinto d’inurbarsi, gli ex abitanti del centro
storico, confinati in una indefinita zona di cintura tra
la città e la campagna.
Nella lettura politica
della città italiana del secondo ‘800, la periferia
tende così a configurarsi come ultimo scalo cittadino e
luogo dell’allontanamento, anziché definirsi come prima
tappa d’inclusione nel perimetro urbano.
I dibattiti e le scelte politiche riflettono tale quadro
emergenziale. Mentre si indica con raccapriccio il
vorace gigantismo delle metropoli straniere, non si
determinano né tempi né modalità di uno sviluppo urbano
compatibile e moderno: in questo campo, la funzione
amministrativa del primo cinquantennio dello Stato
unitario sembra ridursi a trovare e a riempire delle
abitazioni attribuite con metodi paternalistici e
clientelari.
Le descrizioni riproducono allarmate questa percezione
dell’urgenza, lanciandosi in letture di situazioni
straniere solo in minima parte confacenti al contesto
nazionale dell’inizio del XX secolo (cfr. A. Schiavi,
Come si costruiscono le nuove città, in R. Mariani,
op. cit., p. 62): “Ma ecco la rivoluzione borghese, ecco
la grande industria che provoca la fiumana immigratoria
dalle campagne ai centri urbani, attorno e nei quali
sorgono a miriadi le officine e i grandi stabilimenti;
ecco l’industrialesimo che eccita una intensità ognor
crescente dei traffici ed abbisogna quindi di ampie,
diritte vie per trasporti pesanti, rapidi e frequenti”.
Rivisitazione di paure ancestrali, come la mitica
violazione della madre terra, tale descrizione tende a
scivolare verso il campo estetico, introducendo una
serie di considerazioni sul mancato rispetto della
tradizione artistica e sulla negatività
dell’architettura generata dalla civiltà industriale:
“Comincia il dominio del piccone demolitore nella
distruzione dell’antico, della squadra e del compasso
nella ricostruzione. L’unica preoccupazione del tecnico
è l’utilizzazione dello spazio per un fine economico, la
pianta si riduce a una suddivisione in lotti
rettangolari, con vie ad angolo retto, e le città si
trasformano da organismi vivi in scacchiere di
parallelepipedi perforati regolarmente, in una
cristallizzazione artificiale arida e matematica”.
Il tono diviene più nostalgico quando si evocano le
conseguenze sulla popolazione delle città rese inumane
dal progresso tecnico – e persino da quello delle
condizioni igieniche –, abbinato a una smodata attività
economica: “Il lucro, la speculazione, il far presto da
un lato, le esigenze della igiene pubblica dall’altro,
soffocarono la tradizione, uccisero ogni senso d’arte,
fecero trascurare gli effetti della prospettiva, la
logica dell’architettura, e le città si presentarono
banali, monotone e incanalanti nelle loro grandi arterie
correnti boreali, o mancanti, nelle ore meridiane, di un
filo d’ombra”.
A fronte di una crescita urbana ancora controllabile, si
preferisce così ricorrere a immagini mitiche, a
proiezioni nel futuro o nel passato. Sebbene ancora
priva delle necessarie condizioni socio-economiche
(strutture dello Stato funzionali, affermazione di una
borghesia capitalistica, sviluppo della classe operaia),
si guarda alla situazione italiana dell’inizio del XX
secolo come se si dovessero già subire le conseguenze di
una urbanizzazione massiccia negata dalle cifre.
Non proponendosi come il
risultato di un’analisi socio-economica sull’evoluzione
dei principali centri urbani, o come l’esito di uno
studio scientifico sullo sviluppo e la gestione dei
flussi migratori, le considerazioni citate non rientrano
in una lettura concreta – urbanistica – del fenomeno
metropolitano.
Restano assenti conoscenze
di carattere tecnico sulla tipologia dei terreni da
utilizzare, manca la percezione delle questioni con cui
confrontarsi (destinazione d’uso dei lotti, politica
sociale degli alloggi e delle strutture connesse,
creazione di una rete di comunicazioni urbane ed
extra-urbane).
Dalle pagine di cui
abbiamo fornito estratti emerge invece
un’interpretazione etica – o moralistica – del dinamismo
metropolitano, con slittamenti verso il campo estetico.
E sono possibili interpretazioni opposte e
complementari.
Le considerazioni nostalgiche trovano un terreno comune
con la mitografia urbana dell’avanguardia futurista.
Solo il tono s’inverte: lo
sguardo inquieto sulla fine delle città del passato si
trasforma, nei futuristi, in esaltazione di prospettive
e panorami urbani ancora da realizzare, non meno irreali
delle geometriche metropoli paventate dai “passatisti”.
Manifesti, dipinti e progetti del futurismo proclamano
l’avvento di una “bellezza passeggera”, all’insegna
della valenza poetica di un progresso chiamato a
demolire il mondo e a ridefinirlo in modo effimero. La
percezione della trasformazione urbana – reale, temuta o
desiderata – diviene così il punto di partenza di una
mitologia dell’avvenire tesa a creare una prospettiva
rivoluzionaria nel campo estetico e nella società.
Con la presentazione di tre manifesti nel 1914 – firmati
da Boccioni, Prampolini e Sant’Elia – l’architettura e
la metafora della costruzione dell’avvenire fanno la
loro comparsa a pieno titolo nell’immaginario dei
futuristi.
Dedicati in modo specifico
al tema dell’edificazione, questi testi teorici
sviluppano, amplificandole, delle intuizioni già
presenti nell’armamentario ideologico-figurativo del
gruppo, dal Manifesto di fondazione del 1909 alle
rappresentazioni pittoriche.
Catalogo dei topoi
urbani del XX secolo e cumulo di visioni metropolitane,
il Manifesto di fondazione di Marinetti propaganda
l’idea di un progresso inevitabile rappresentato dalla
meccanica violenza delle macchine, generatrici di
prospettive costruttive rivoluzionarie.
Nel solco di una palingenesi estetica, artisti non
dediti all’edificazione architettonica, come Boccioni e
Prampolini, esprimono un rifiuto sprezzante nei
confronti degli stili e delle costruzioni del passato.
Manifestazione della valenza trasversale delle
intuizioni futuriste, il primo testo teorico
d’avanguardia sulla costruzione è di un
pittore-scultore.
Nel suo Architettura
futurista. Manifesto, Boccioni attacca la “schiavitù
degli ordini e degli stili antichi”, proclamando (cfr.
U. Boccioni, Architettura futurista. Manifesto):
“Le navi le automobili le stazioni ferroviarie tanto più
hanno acquistato di espressione estetica quanto più
hanno subordinato la loro costruzione architettonica
alla necessità dei bisogni cui erano destinate (...)
Alle grandi tettoie ferroviarie che erano lontanamente
legate al grandioso della navata della cattedrale
subentrano le pensiline sufficienti e necessarie al
treno in arrivo e in partenza”.
Analogamente, Prampolini denuncia “(...) la monotona
espressione degli stili architettonici, che sono la più
piatta rappresentazione dei plagi reciproci che ogni
civiltà ha potuto mettere in mostra”.
Se tali considerazioni sull’architettura esprimono la
volontà di oltrepassare il messaggio artistico del
passato, esse permangono tuttavia all’interno di una
estetica dell’edificazione – valutata in quanto
tangibile manifestazione di una rifondazione totale
della società – anziché proiettare il futurismo verso la
problematica tecnica della costruzione.
L’artista-teorico Theo van Doesburg osserva in proposito
nel 1925:
“Così, la nuova estetica divenne, anche per l’architetto
(...) l’estetica del contrasto, della metropoli, della
cultura meccanica (...) Prodotto di una metropoli
meccanica, l’uomo moderno non è solo abituato a questa
molteplicità di impressioni, ma ne prova anche un certo
bisogno”.
L’estetica futurista della città – sorta di mitico e
mistico culto della modernità – resta una costante
ideologica nella storia del gruppo. A tale estetismo si
deve imputare il disinteresse del regime fascista per i
futuristi, raramente protagonisti di una committenza
pubblica di livello significativo: saranno invece
preferiti professionisti capaci di trasformare alcune
delle intuizioni dell’avanguardia in linguaggio
costruttivo solido e riproducibile nel panorama urbano
italiano.
Occorre sottolineare un altro elemento della riflessione
futurista sull’architettura. Come avviene in diversi
contributi teorici del movimento, anche in quest’ambito
si evidenzia una contraddizione irrisolta fra
denuncia-manifesto-proclama – di portata potenzialmente
universale – e atteggiamento sprezzante nei confronti
delle influenze e degli apporti stranieri. Boccioni
denuncia:
“Nella schiavitù degli stili stranieri se così si
possono chiamare abbiamo invece lo snobismo
intellettuale per il nord, che fa ingombrare una
costruzione edilizia italiana di decorazioni di legni di
stoffe di oggetti lavorati col gusto balordo del
contadino delle varie steppe alla moda ungheresi russe o
scandinave, che fa ornare i nostri ambienti pubblici
teatri caffè banche esposizioni con i funebri marmi neri
e le glaciali sculture in legno nero d’un restaurant
berlinese, o con la pesante vivacità dell’orientalismo
moscovita. E’ ora di finirla. Il solo paese che per
clima e per spirito può dare un’architettura moderna di
stile universale è l’ltalia. E’ questo il suo ufficio
futuro nelle arti. Tra cinquant’anni l’ltalia avrà dato
alcuni grandi artisti in pittura scultura letteratura
musica architettura che detteranno legge al mondo”.
Personalità unica nel panorama artistico italiano del
primo Novecento, Antonio Sant’Elia ha saputo esprimere
in modo fortemente evocativo il mito metropolitano
futurista.
Dopo la formazione
all’Accademia di Brera, partecipa nel 1914 alla mostra
milanese del gruppo “Nuove Tendenze” con le tavole sulla
“Città nuova”: sei visioni della città, una stazione
aeroferroviaria, delle centrali elettriche e degli
schizzi d’architettura. Il suo manifesto L’architettura
futurista, datato 11 luglio 1914, è pubblicato il 1ù
agosto seguente in “Lacerba”.
“Dopo il ‘700 non è più esistita nessuna architettura.
Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile,
usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è
chiamato architettura moderna”.
Il rifiuto dell’architettura del passato comporta la
rinuncia ad ogni ornamentazione (“carnevalesche
incrostazioni decorative che non sono giustificate né
dalle necessità costruttive, né dal nostro gusto”) in
nome della semplificazione formale: “(...)
l’architettura futurista è l’architettura del calcolo,
dell’audacia temeraria e della semplicità”.
Si procede verso la
definizione di una casa strutturata come una machine
à habiter, costruzione che permette la riproduzione,
su scala urbana, del totem futurista: la macchina. La
città è dunque concepibile come “un immenso cantiere
tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte,
e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca”.
Dalle affermazioni del manifesto sono assenti
preoccupazioni di ordine estetico; Sant’Elia propone
l’utilizzazione di materiali contemporanei che
consentono di privilegiare la funzionalità a discapito
della decoratività:
“La casa di cemento di vetro di ferro senza pittura e
senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita
alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente
brutta nella sua meccanica semplicità (...)”.
Ma la visionarietà della ricerca di Sant’Elia smentisce
tali proclamazioni. La maggior parte dei trecento
schizzi, tavole e disegni dell’architetto comasco è
caratterizzata da una grande velocità d’esecuzione, con
risultati comparabili alle realizzazioni di matrice
divisionista e para-cubista dei dipinti di Balla,
Boccioni, Carrà, Severini.
Sant’Elia non progetta né realizza la città nuova: la
disegna e la dipinge. Apporta così il proprio contributo
all’elaborazione dei miti futuristi, che postulano la
necessità dell’innovazione tecnica come metafora e
metamorfosi della vita umana in relazione al mondo degli
oggetti: e il perfezionamento estetico della forma dovrà
coincidere con la sua perpetua trasformazione. E’ in
nome di effetti transitori e caduchi che afferma: “Le
case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà
fabbricarsi la sua città”.
Opponendosi radicalmente
ad ogni idea di durata e di continuità nel tempo, Sant’Elia
percepisce la civiltà del XX secolo come il momento in
cui il trionfo delle macchine si rivela incompatibile
con le vestigia del passato (cfr. R. Assunto, La
città di Anfione e la città di Prometeo. Idea e poetiche
della città, 1984).
In altri contributi teorici del futurismo, ove il campo
d’analisi trascende la specificità dell’architettura, il
tono declamatorio dei firmatari insiste invece sul
significato stilistico e nazionalistico delle
innovazioni proposte, con un approccio tendente al
recupero del concetto di “continuità nel tempo”. E’
quanto si osserva nel capoverso finale del Manifesto
della ricostruzione futurista dell’universo, firmato nel
marzo 1915 da Balla e Depero:
“Le invenzioni contenute in questo manifesto sono
creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo
italiano. Nessun artista di Francia, di Russia,
d'Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche
cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano,
cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva
intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il
Futurismo ha determinato il suo Stile, che dominerà
inevitabilmente su molti secoli di sensibilità”.
Ma la pretesa caducità, in nome del dinamismo, dei
progetti di Sant’Elia appare contraddetta dalle
strutture compatte e massicce da lui immaginate; e la
“città che dipinge nelle sue tavole è ermetica e retta
da una rigida organizzazione dello spazio. Diversamente
da quanto proclamato nel suo manifesto, egli rappresenta
edifici statici, monumentali, impressionanti, quasi
tragici” (cfr. G.-G. Lemaire, Futurisme, 1995).
Conseguenza irrisolta della mitizzazione metropolitana
di Sant’Elia, la sua visione della macchina – della casa
come macchina e della città in quanto macchina – resta
segnata da un’interpretazione poetica. Al pari di altri
futuristi, egli è fedele all’idea della bellezza: che si
tratti di una bellezza dinamica – o anche del fascino
del brutto –, Sant’Elia fa delle sue tavole un’opera
d’arte da valutare secondo parametri estetici,
rafforzati dalla vertiginosa consapevolezza del progetto
irrealizzato.
Disinteressandosi delle
concrete possibilità di mettere alla prova la propria
visionarietà, il giovane architetto propone meccanismi
urbani che sono delle duchampiane machines
célibataires, senza nessi con la realtà effettuale,
senza contesto socio-economico né relazioni con le
capacità tecno-costruttive dell’architettura italiana
del primo Novecento:
“I caratteri fondamentali dell’architettura futurista
saranno la caducità e la transitorietà (...) Questo
costante rinnovamento dell’ambiente architettonico
contribuirà alla vittoria del Futurismo, (...) pel quale
lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria
passatista”.
Per altre vie, allora, con non meno mitizzate proiezioni
nell’avvenire, le immaginazioni urbane futuriste
raggiungono l’irrealtà delle nostalgiche riletture di un
passato ancora presente, senza prevedere punti
d’aggancio dialettici con la contemporaneità.
Differenziandosi dalla rapida parabola esistenziale di
Sant’Elia con la sua lirica dell’avvenire, Mario
Chiattone rappresenta il “principio di realtà”,
attraverso il quale l’immaginazione futurista si
converte in costruzioni realizzate in un contesto
culturale centro-europeo.
Dapprima vicino alle inquiete tensioni di Sant’Elia,
Chiattone (Bergamo, 1891–Lugano, 1957) segue corsi di
pittura a Milano, dedicandosi poi a un’interpretazione
massicciamente volumetrica delle visioni urbane
dell’amico comasco: con quest’ultimo, Dudreville e Funi
espone nell’ambito di “Nuove Tendenze”.
Numerosi progetti di Chiattone si focalizzano sul tema
della metropoli moderna, di cui egli disegna linee ed
edifici nel solco della cultura “Sezession”
austro-tedesca, definendo una lettura urbana
proto-razionale. Le costruzioni definite sulle sue
tavole hanno aspetto monumentale: “egli utilizza forme
geometriche identiche di dimensioni differenti,
disponendole a fisarmonica, mette in relazione
contrafforti come insiemi di volumi, moltiplica i piani
inclinati per sottolineare le sue composizioni
piramidali” (cfr. G.-G. Lemaire, Futurisme,
1995).
Dal 1919, abbandonato il futurismo e lasciata l’Italia,
Chiattone si sposta a Lugano, dove realizza i suoi
progetti in un’ottica neo-medievale.
La morte di Sant’Elia durante la Prima guerra mondiale e
l’emigrazione all’estero di Chiattone segnano la fine di
un periodo utopico. L’imporsi del fascismo contribuisce
alla dissoluzione del mito di una città ideale in quanto
effimera: sogno contraddittorio per definizione,
fantasia di eterno movimento e manifestazione
tendenzialmente anarchica.
Breve stagione
essenzialmente lombarda, tragicamente interrotta dalla
guerra dagli stessi futuristi sollecitata, la
raffigurazione mitizzata della città come “cantiere
dell’avvenire” si frange contro una realtà prosaica e
complessa, ma resta una delle costanti interpretative
della cultura italiana del XX secolo.
Dalla costruzione dell’avvenire alle mitizzazioni di
regime
Fra i contributi più interessanti alla definizione
dell’immagine politico-intellettuale della città, è il
numero unico de “La città futura”, pubblicato a Torino
l’11 febbraio 1917. Diffusa a cura della Federazione
giovanile socialista piemontese, la rivista fu
interamente redatta da Antonio Gramsci, che v’inserì
inoltre estratti di testi di Gaetano Salvemini,
Benedetto Croce e Armando Carlini.
L’intenzione di Gramsci è
evidente. La Federazione giovanile socialista ha uno
scopo “educativo e formativo”, ma essa deve soprattutto
preparare l’avanguardia del Partito, “l’armata
proletaria che muove all’assalto della vecchia città
infracidita e traballante per far sorgere dalle sue
rovine la propria città” (cfr. “La città futura”, in “Il
grido del popolo”, n. 655, 11 febbraio 1917).
La metafora dell’assalto alla città del passato anticipa
posizioni di apprezzamento delle capacità rivoluzionarie
insite nel movimento culturale futurista:
“In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa
ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà)
proletaria, totalmente diversa da quella borghese; (...)
Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la
presente forma di civiltà.
(...) I futuristi hanno
svolto questo compito nel campo della cultura borghese:
hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza
preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro
attività, fossero nel complesso un’opera superiore a
quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi,
nella foga delle energie giovani, hanno avuto la
concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca
della grande industria, della grande città operaia,
della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove
forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio:
hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria,
assolutamente marxista, quando i socialisti non si
occupavano neppure lontanamente di simile questione
(...) I futuristi, nel loro campo, nel campo della
cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera
creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà
per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i
futuristi (...)” (cfr. A. Gramsci, in “L’Ordine
nuovo”, n. 1, 1921).
Se “ (...) la città è il luogo di uno scontro continuo
tra forze antagoniste ed essa illustra, attraverso la
stessa varietà della sua archiettura, l’eterna lotta fra
le classi” (cfr. J. Roudaut, Les Villes imaginaires
dans la littérature française, 1990), in Gramsci
l’interpretazione ideologica dello spazio urbano si
carica di connotazioni simboliche che ristrutturano
l’immaginario della città storica e della stessa
metropoli rivoluzionaria vagheggiata dal futurismo (cfr.
A. Gramsci, Indifferenti, 11 febbraio 1917):
“Odio gli indifferenti. Credo (...) che ‘vivere vuol
dire essere partigiani’. Non possono esistere i
solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive
veramente non può non essere cittadino, e parteggiare
(...) L’indifferenza è il peso morto della storia (...)
è la palude che recinge la vecchia città e la difende
meglio delle mura più salde”.
Questa visione conflittuale della città può esprimersi
in termini architettonici e urbanistici, come osservato
da Roudaut a proposito del “conflitto tra le città e
all’interno stesso delle città, ove le classi si
affrontano nella forma di architetture confortevoli o di
luoghi scomodi, di dimore centrali o di abitazioni
periferiche”.
E Gramsci continua, nelle pagine de “La città futura”,
illustrando il titolo della rivista politica: “Sono
partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia
parte già pulsare l’attività della città futura che la
mia parte sta costruendo”.
Tale prospettiva può leggersi come definizione di un
binomio città-campagna dal significato politico evidente
(cfr. A. Gramsci, Gli avvenimenti del 2-3 dicembre,
in “L’Ordine Nuovo” (1919-1920), 1963): “Da una parte il
proletariato nel senso stretto della parola, cioè gli
operai dell’industria e dell’agricoltura
industrializzata, dall’altra i contadini poveri: ecco le
due ali dell’esercito rivoluzionario. Gli operai di
città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali
lo svolgimento della coscienza e la formazione della
persona nella fabbrica (...); gli operai di città
guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve
iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del
movimento di riscossa (...) Gli operai sono destinati a
essere, nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo
ed ordinatore ad un tempo, quello che non lascerà che la
macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla
giusta via (...)”.
Queste parole possono completarsi con altre riflessioni,
apparse ne “L’Ordine Nuovo” (cfr. A. Jacchia, Piemonte e
Romagna, in “L’Ordine Nuovo” (1919-1920), 1963):
“Si prenda Torino: città per eccellenza industriale,
città dove si accentra quindi una grande massa di
operai. Il fatto che domina tutta la vita dei proletari
torinesi è il lavoro, e il lavoro compiuto secondo le
leggi esistenti della più avanzata produzione
industriale. La scuola dove si forma l’animo e la mente
dell’uomo di popolo di Torino è la fabbrica (...)
L’operaio che era sceso in città dalle campagne, che ivi
non aveva forse mai sentito altra parola che quella del
prete, non aveva mai abbracciato colla mente orizzonti
più vasti di quelli che si possono scorgere da un
campanile di villaggio (...) è stato tratto a prender
parte a forme di vita collettiva che idealmente possono
concepirsi estese tanto da comprendere tutta l’umanità,
è diventato parte attiva, cellula che collabora in modo
autonomo alla vita del mondo. E’ diventato un uomo ed è
contemporaneamente diventato un socialista.
Si tenga perciò presente una cosa, l’essenziale: da noi,
in città, la formazione delle coscienze socialiste è
quasi un prodotto necessario della vita economica che si
svolge tra di noi, e a cui noi partecipiamo.
Osserviamo ora come stanno
le cose nella Romagna (...) il socialismo dei romagnoli
non si basa sopra una rigida distinzione di classi, e
per questo è anch’esso più fatto politico che economico
… ma si vive in un ambiente in cui la lotta di classe
non si impone a tutti come una innegabile realtà della
vita moderna.
Questo sia detto
specialmente per le città. In esse son grandi
agglomeramenti di masse industriali e proletarie, ma
prevalenza ancora del vecchio sistema dell’artigianato”.
Dalle osservazioni di Jacchia, il confronto tra la
moderna realtà industriale torinese e il mondo
artigianale della Romagna istituisce una delle chiavi
d’interpretazione del quadro socio-economico verso gli
anni Venti, con un’analisi tutta interna all’ideologia
socialista, aliena dalle superfetazioni della propaganda
e delle violenze fasciste.
Testimonianza di un’acuta percezione del contesto urbano
torinese – ove le procedure tecniche tendono a
strutturare la città e le mentalità in nome
dell’efficienza produttiva –, il messaggio di Gramsci,
intellettuale prima ancora che politico, è disegno di
una prospettiva fondata sull’aristocrazia operaia della
città industriale, nelle sue moderne aperture antitetica
rispetto alle cittadelle fortificate del passato.
Cerniera della contemporaneità italiana anche
nell’ambito della storia urbana, il 1919 de “L’Ordine
Nuovo” è segnato dalla fondazione milanese dei “Fasci di
combattimento” e, un mese dopo, dall’abbandono della
Conferenza di Parigi da parte della delegazione
italiana: in giugno, tornato sui propri passi, Vittorio
Emanuele Orlando è sostituito da Francesco Saverio Nitti.
Agitazioni popolari
attraversano il paese in estate: nelle valutazioni di
Nenni (cfr. P. Nenni, Storia di quattro anni
(1919-1922), 1926, 1976) si tratta di moti
“tumultuosi, anarcoidi, privi di direzione (...) Ogni
città fece per proprio conto. I negozi furono assaltati,
saccheggiati i forni (...) in tutta Italia sorgevano
improvvisati Soviet annonari; nell’Emilia, nella
Romagna, in Toscana, nelle Marche, si poteva parlare di
vera e propria insurrezione popolare, con frequenti e
sintomatici casi di fraternizzazione fra rivoltosi e
truppe. A Firenze la massa era padrona della città
(...)”.
Nel settembre 1919, D’Annunzio e i “legionari”
convergono su una città che rappresenta un elemento di
polarizzazione dell’immaginario ideologico fra le due
guerre.
L’occupazione di Fiume è
laboratorio politico del nazionalismo revanscista
italiano e prefigurazione della marcia su Roma, nonché
terreno di una crisi internazionale disinnescata, solo
temporaneamente, alla fine del 1920.
Nel settembre 1920, la
reggenza dannunziana promulga la Carta del Carnaro,
Costituzione del territorio di Fiume. Nella Premessa,
Alceste De Ambris scrive:
“Il Popolo della Libera Città di Fiume, in nome delle
sue secolari franchigie e dell’inalienabile diritto di
autodecisione, riconferma di voler far parte integrante
dello Stato Italiano mediante un esplicito atto
d’annessione; ma poiché l’altrui prepotenza gli vieta
per ora il compimento di questa legittima volontà,
delibera di darsi una Costituzione per l’ordinamento
politico ed amministrativo del Territorio (Città, Porto
e Distretto) (...) e degli altri territori adriatici che
intendono seguirne le sorti”.
Attraverso la mitizzazione di Fiume – con relativa Carta
costituzionale da città-stato – la lettura della città
novecentesca cambia di segno, trasformandosi da cantiere
dell’avvenire in laboratorio del nazionalismo, in bilico
tra anarco-sindacalismo e prefigurazione del
corporativismo fascista.
L’allontanamento di D’Annunzio da Fiume, a seguito del
“Natale di sangue” del 1920, non segna un’inversione di
tendenza rispetto a una situazione italiana dai tratti
involutivi.
Le agitazioni operaie del
settembre 1920, non superando il perimetro delle città
del “triangolo industriale”, vi restano confinate
dall’indifferenza delle masse rurali, mentre alla fine
dello stesso anno, contro le terre delle “leghe rosse” e
contro i centri urbani ad alta concentrazione
socialista, si scatenano le squadre fasciste.
La percezione di frange della sinistra, e in particolare
di Gramsci, della funzione formativa svolta dal contesto
urbano appare simmetricamente opposta alla visione
mussoliniana della città.
L’uno e l’altro
consapevoli della valenza politico-rivoluzionaria di un
centro industriale e produttivo – la Torino di Gramsci o
la Milano di Mussolini –, concepiscono la città come
laboratorio militante della rivoluzione proletaria o,
viceversa, come spazio acquisito, controllato e
sottomesso dalla gerarchica violenza fascista.
In quest’ottica, l’opzione ruralista sviluppata dal
regime mussoliniano – oltre a costituire uno slogan
destinato a coprire l’indispensabile industrializzazione
del paese – tradisce un orientamento di fondo
anti-urbano, retaggio di una formazione politica legata
agli ambienti romagnoli, dunque lontana, e aliena, dalla
visione produttivistica delle metropoli industriali.
E i piani regolatori delle
città del regime possono intendersi come la frangia
urbana – da gestire in termini di commesse pubbliche e
di diradamento dei centri storici – del “piano
regolatore nazionale” di un paese che si vuole
presentare come un’unità agricola da sfruttare sino alle
estreme porzioni di terreno.
Ma tale “piano nazionale”,
illustrato nel “Discorso dell’Ascensione” del 26 maggio
1927, è destinato a concretizzarsi in una dimensione
limitata e settoriale: la bonifica delle zone malsane e
la costruzione di “città” nuove, come i piccoli centri
della piana pontina destinati a colmare ciò che
Mussolini definisce un “vuoto tra Roma e Napoli”.
Una prima tipologia d’intervento del regime fascista
s’inserisce in una politica anti-urbana omogenea a
quella che sottende le operazioni di bonifica: si
scoraggia – anche con apposite norme restrittive –
l’immigrazione nelle grandi città e si punta allo
sviluppo di centri minori, dotati di livelli minimi di
strutture e di servizi in grado di ancorare i residenti
alle dimensioni degli spazi rurali.
Un secondo livello di realizzazioni riguarda gli spazi e
le forme della rappresentazione urbana connessa alle
funzioni e alle simbologie del potere: nei piccoli
centri e nelle grandi città si sgranano i luoghi
deputati della presenza fascista, adeguatamente
segnalata da tribunali e stazioni, “case del fascio” e
uffici postali, “torri littorie” e impianti sportivi,
con un’efficacia ideologico-propagandistica tanto
superiore quanto più risulta “razionale” ed
esteticamente riuscito l’edificio voluto dal regime.
Il livello superiore della politica fascista nei
confronti della città è riservato alla capitale. La
conquista mussoliniana del potere si nutre del mito di
Roma: “città eterna” della latinità e della
mediterraneità imperiale, essa è il punto di riferimento
dell’ideologia propagandistica del Duce. Ma la
mitizzazione della capitale risponde ancora a una
formazione e a una logica anti-urbana, destinata a
contrapporre e a sovrapporre, ai centri della modernità
operaistico-industriale, l’alone mitico di una storia
antica che dovrebbe farsi eterno presente.
In un articolo apparso sulla rivista “Gerarchia” del
settembre 1928, Mussolini indica le motivazioni
ideologiche di una politica demografica concepita come
arma di massa. Se il titolo dell’intervento – Il numero
come forza – evidenzia il nesso tra popolazione di un
paese e suo ruolo militare, significativa è
l’articolazione del pensiero del Duce.
Partendo dal libro di Korherr sulle dinamiche
demografiche, pubblicato in Germania nel 1927 e fatto
tradurre in italiano per ordine di Mussolini, egli (cfr.
P. Bittini, La donna-madre: figura utopica
(anti-fascista), “manipola le tesi pseudoscientifiche di
Korherr e le applica alla situazione italiana,
esasperandone le previsioni pessimistiche e il legame
tra diminuzione delle nascite e degenerazione culturale
e morale”.
Mussolini si fa entusiasta
portavoce di un autore che dichiara di non conoscere
personalmente: “La dimostrazione che il regresso delle
nascite attenta in un primo tempo alla potenza dei
popoli e in successivi tempi li conduce alla morte, è
inoppugnabile. Anche le varie fasi di questo processo di
malattia e di morte, sono esattamente prospettate e
hanno un nome che le riassume tutte: urbanesimo o
metropolismo, come dice l’autore”.
La fonte tedesca cui si attinge, implicata nella
contabilità della Shoah, e lo stesso argomentare del
Duce definiscono un approccio di tipo
biologico-razzistico al “problema” dell’urbanesimo: ben
prima dell’avvento al potere del nazional-socialismo, la
partizione tra città e campagna è delineata secondo un
programma di ruralismo demografico rozzamente
reazionario e portatore di una visione della donna come
incubatrice di uomini bianchi da contrapporre a masse di
“negri e gialli”.
Riportiamo alcune delle
considerazioni espresse da Mussolini nel paragrafo
“Aumento patologico”: “La metropoli cresce, attirando
verso di sé la popolazione della campagna, la quale,
però, appena inurbata, diventa – al pari della
preesistente popolazione – infeconda. Si fa il deserto
nei campi; (…) la metropoli è presa alla gola: né i suoi
commerci, né le sue industrie, né i suoi oceani di
pietre e di cemento armato, possono ristabilire
l’equilibrio oramai irreparabilmente spezzato: è la
catastrofe. La città muore, la nazione (…) non può più
resistere (…) Ciò accadrà e non soltanto fra città o
nazioni, ma in un ordine di grandezze infinitamente
maggiore: la intera razza bianca, la razza
dell’Occidente, può venire sommersa dalle altre razze di
colore che si moltiplicano con un ritmo ignoto alla
nostra. Negri e gialli sono dunque alle porte?”.
Le parole di Mussolini forniscono la copertura politica
ai proclami di Mino Maccari (cfr. M. Maccari, “Il
Selvaggio”, settembre 1927):
“(…) Strapaese è stato fatto apposta per difendere a
spada tratta il carattere rurale e paesano della gente
italiana; vale a dire, oltreché l’espressione più
genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima e
la mentalità ove son custodite, per istinto e per amore,
le più pure tradizioni nostre. Strapaese si è eretto
baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero
straniero e delle civiltà moderniste (…) Noi italiani,
svegliati alla realtà e al dovere politico per opera di
un grande costruttore, dobbiamo fare che l’edificio
politico s’innalzi sulle fondamenta d’una italianità
pretta e incorrotta”.
Esplicite nella delineazione di un clima anti-moderno e
anti-urbano sono anche le affermazioni programmatiche di
Ardengo Soffici in Arte Fascista (cfr. A. Soffici,
Arte Fascista, 1928):
“Il settimo principio vuole infine che contro il
parossismo meccanicistico e urbanistico, flagello e
aberrazione d’origine americana, germanica o britannica
(elementi dell’arte antifascista) l’arte fascista
s’ispiri alla semplice e vergine natura, torni all’amore
della campagna e di tutto quanto sa di etnicamente
nativo, spontaneo, grave, e che è nostro
fondamentalmente; poiché sempre l’Italia ha avuto il suo
fondamento civile nell’attaccamento dei suoi figli ai
beni ed alla realtà patriarcale del suolo, e sempre
l’avrà”.
La mitizzazione della sanità demografica rurale in
antitesi all’egoismo metropolitano definisce
ulteriormente il carattere regressivo del controllo
dittatoriale fascista sul territorio italiano,
storicamente caratterizzato da una pluralità di centri
urbani portatori di idealità e libertà civiche. N
ella prassi politica
mussoliniana solo le città in grado di aumentare la
propria popolazione senza ricorrere agli apporti
dell’immigrazione dalle campagne hanno il
diritto-dovere, civico e fascista, di crescere. Ma in
tale ottica la guerra e le sue devastazioni sono il
consequenziale sbocco di una politica di dissoluzione
dei luoghi della dialettica civile, già iniziata con
l’asservimento degli spazi urbani alle insegne del
potere fascista.
Nel suo discorso del 3 novembre 1928, alla vigilia delle
celebrazioni della vittoria nella guerra ’15-’18,
Mussolini si rivolge “Ai rurali d’Italia”. Netta è la
dicotomia tra gli operai delle fabbriche occupate
durante le agitazioni socialiste e i “rurali” impegnati
in guerra:
“ (…) non è senza significato che siete convocati a Roma
il 3 novembre, vigilia di quel decennale della vittoria,
che fu soprattutto uno sforzo dei rurali d’Italia, che
non occupavano le officine, ma le trincee”.
Il discorso prosegue con una dichiarazione d’intenti:
“Ho voluto che l’agricoltura andasse al primo piano
dell’economia italiana con fondate ragioni: i popoli che
abbandonano la terra sono condannati alla decadenza (…)
la terra è una madre che respinge inesorabilmente i
figli che l’hanno abbandonata”.
Riferendosi poi alla fondazione milanese dei “Fasci di
combattimento”, Mussolini crea un effetto di
sovrapposizione cronologica, che istituisce un’identità
di fondo tra i rurali-soldati delle trincee e le
violenze fasciste alla fine del conflitto:
“Volevo anche manifestare la mia gratitudine di
fascista, perché se è vero che il fascismo è nato in una
città, è del pari vero che se non avesse avuto, nelle
fanterie rurali, il suo poderoso, disciplinato esercito
di combattenti, il fascismo non avrebbe mai rovesciato
la vecchia Italia e sepolto il vecchio regime”.
Esplicito è anche il titolo di un intervento di
Mussolini del 22 novembre 1928.
In Sfollare le città l’incipit sintetizza una
visione e una politica (cfr. B. Mussolini, Sfollare
le città, in “Il Popolo d’Italia”, n. 278, 22
novembre 1928):
“Alcuni dati statistici (…) conducono a conclusioni
nettamente antiurbanistiche, soprattutto dal punto di
vista del problema della casa; insolubile problema
finché non sarà adottata questa formula: impedire
l’immigrazione nelle città, sfollare spietatamente le
medesime”.
Mussolini lamenta che nel corso dei precedenti sei anni
– segnati dalle prime iniziative concrete del regime
nella gestione del territorio – si siano “pietrificati”
miliardi in edilizia urbana: “(…) intere città sono
state create quasi in un batter d’occhio”.
Ed esaminando l’evoluzione
demografica delle principali città italiane, il Duce
constata un equilibrio, o addirittura un saldo negativo,
tra nascite e morti: non occorrerebbe dunque un gran
numero di abitazioni per far fronte al ritmo naturale di
crescita demografica. Ma “il problema cambia
immediatamente d’aspetto e diventa tremendamente pauroso
(…) quando si prende in esame l’aumento artificioso,
cioè patologico, delle città, dovuto all’immigrazione
dai minori paesi e dalle campagne”.
Di fronte a tale “terribile circolo vizioso”, destinato
a produrre delle “città mostruose”, Mussolini indica una
“parola d’ordine”. Occorre facilitare con ogni mezzo e
anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai
centri urbani; difficoltare con ogni mezzo e anche, se
necessario, con mezzi coercitivi, l’abbandono delle
campagne; osteggiare con ogni mezzo l’immigrazione a
ondate nelle città (…) Quanto all’industria edile, ci
sono milioni di case rurali, inabitabili, da demolire e
da rifare, il che rientra nei piani della bonifica
integrale”.
Una nota comparsa due giorni dopo su “Il Tevere”
conferma l’importanza che Mussolini annette alla
crociata anti-urbana (cfr. B. Mussolini, Tramonto
della città tentacolare, in “Il Tevere”, n. 280, 24
novembre 1928):
“Tutti vollero essere cittadini della moderna città dai
tentacoli giganteschi, cellula del nuovo paradiso
terrestre. Così nacquero tutte le vecchie storture che
oggi andiamo lamentando, letterarie e politiche, sociali
e morali, contro le quali una alla volta il fascismo è
costretto a muovere guerra. Stamane la città tentacolare
trema come per un sommovimento tellurico sotto l’impeto
della parola di Mussolini: un’altra stortura che si
elemina per virtù di un’eroica volontà correttiva”.
Il regime non si contenta delle dichiarazioni. Sono
introdotte leggi che vietano l’emigrazione italiana
all’estero, senza tuttavia rispondere alle necessità
interne del mercato del lavoro: l’esodo nelle città,
proprio per l’assenza di altri sbocchi dalle campagne,
continua negli anni della crisi internazionale. Nel
1926, un Comitato permanente per le migrazioni interne è
istituito presso il Ministero dei Lavori pubblici e i
suoi poteri di controllo sui movimenti delle masse
proletarie sono accresciuti nel 1931.
Negli anni Trenta, anche
riducendo il programma della “bonifica integrale” ad
interventi concentrati nelle paludi pontine, il regime
cerca di bloccare l’urbanizzazione delle popolazioni
rurali.
Ma i risultati sono
inferiori alle attese, rendendo necessaria, nel 1939,
l’adozione di norme più severe. L’articolo 1 della Legge
n. 1092, del 6 luglio 1939, stabilisce:
“Nessuno può trasferire la propria residenza in comuni
del regno capoluoghi di provincia o in altri comuni con
popolazione superiore a 25.000 abitanti, o in comuni di
notevole importanza industriale, anche con popolazione
inferiore, se non dimostri di esservi obbligato dalla
carica, dall’impiego, dalla professione o di essersi
assicurata una proficua occupazione stabile nel comune
di immigrazione o di essere stato indotto da altri
giustificati motivi, sempre che siano assicurati
preventivamente adeguati mezzi di sussistenza”.
La parabola fascista attraversa lo spazio urbano
nazionale – essenziale per il controllo del paese – nel
nome di una mistificazione. Per Mussolini, il mito senza
tempo di Roma imperiale consente di oscurare e rimuovere
il dinamismo socio-politico delle città della
contemporaneità produttiva: e i luoghi urbani italiani
non avrebbero altra prospettiva che il conformarsi
all’archetipo delle “province” italiche sotto la
dominazione romana.
La “rinascita”
dell’impero, nel 1936, non può che fondarsi sul dominio
di una città-mito, capitale del fascismo destinata a
riostentare il ruolo rappresentativo e monumentale della
classicità, aliena dal trasformarsi in centro della
modernità dinamica.
Per il regime fascista la mobilitazione e la tensione
militare della nazione sono indispensabili. Disciplina
paramilitare per la popolazione civile e moltiplicazione
delle occasioni di confronto violento – conquista
dell’Etiopia, partecipazione alla guerra civile
spagnola, entrata in guerra a fianco della Germania –
dovrebbero rappresentare le tappe della mutazione
antropologica degli Italiani, chiamati al bellicismo. Ma
anche il ruolo dei grandi agglomerati urbani dovrebbe
definirsi agli occhi di Mussolini, costantemente turbato
– negli anni Venti e Trenta –, dalla situazione
demografica italiana: ritenute responsabili dello scarso
contributo alla crescita della popolazione nazionale, le
città divengono le prime vittime dell’improvvisata
scommessa bellica mussoliniana.
Ma una vittoria avrebbe
potuto comportare, nella visione del Duce, un’analoga
svalutazione delle prerogative sociali e culturali delle
città nazionali, secondo uno schema improntato alla
romanità imperiale: una “città eterna”, sede del potere
fascista e del papato, destinata a regnare su territori
italici e d’oltremare, una “Roma di Mussolini”
dispiegata nel suo splendore e già tratteggiata
dall’iconografia ufficiale, fuori dal tempo, dunque
anti-storica.
Prefigurazione di una capitale di regime è l’articolo
militante di Pietro Maria Bardi (cfr. P. M. Bardi,
Architettura razionale e Regime Fascista, in
“L’Ambrosiano”, 14 febbraio 1931):
“Edificare, per il Fascismo, vuol dire rimanere. Una
bella fatica attende la generazione d’oggi, in tutti i
quadri dell’attività nazionale: ma è certamente agli
edificatori che si affida il compito più delicato:
fermare con la consistenza della pietra, del cemento,
dell’acciaio e dei più nobili elementi della natura, con
il soffio dell’arte, l’orma gigantesca di Mussolini,
affinché i posteri ne abbiano stupore”.
Su Roma, scriveva il Mussolini massimalista del 1910 (cfr.
B. Mussolini, Il giornalismo della capitale, in
“Lotta di classe”, 17 settembre 1910):
“Roma città parassitaria di affittacamere, di
lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati,
Roma – città senza proletariato degno di questo nome –
non è il centro della vita politica nazionale, ma
sibbene il centro e il focolare d’infezione della vita
politica nazionale”.
La vita economica della capitale sembrava fare a meno
del proletariato operaio, caratteristica che risultava
programmaticamente indicata già nelle dichiarazioni
politiche dei primi anni successivi a Porta Pia, quando
s’insisteva – da parte di Quintino Sella, nel 1876, nel
corso di un dibattito parlamentare – sulla metafisica e
metastorica separatezza della nuova capitale rispetto
alle tensioni della vita attiva:
“In una soverchia agglomerazione di operai in Roma io
vedrei un vero inconveniente, perché io credo che qui
sia il luogo dove si debbono trattare molte questioni
che vogliono essere discusse intellettualmente, che
richiedono l’opera di tutte le forze intellettuali del
paese, ma non sarebbero opportuni gli impeti popolari di
grandi masse di operai”.
Torniamo a Mussolini. Il tono rispetto alle attività
economiche di Roma cambia nel 1924. Dal balcone di
Palazzo Chigi, il Presidente del Consiglio, che sta
trasformando la conquista della capitale in regime che
controlla l’intera nazione, dichiara:
“Roma lavora (…) non è già la capitale di un piccolo
regno di antiquari”.
Nel 1931 è approvato il piano regolatore della capitale
coordinato da Marcello Piacentini. La gloriosa potenza
del passato imperiale è rivendicata in quanto patrimonio
nazionale riscoperto dalla “rivoluzione fascista”.
Ma, dietro quest’immagine
definita di Roma, caratterizzata da quattro settori
urbani differenti (edifici del potere, quartieri dei
villini, quartieri con edifici sovvenzionati dallo
Stato, costruzioni popolari in zone semi-periferiche),
il piano del 1931 concede la possibilità di numerose
deroghe. Si osserva in proposito (cfr. G. Ciucci, Gli
architetti e il fascismo, 1989):
“Le palazzine caratterizzano la crescita di Roma
contemporanea (…) e sono possibili in seguito alla
variante del 1920 al regolamento edilizio, che amplia le
cubature e le altezze dei villini, rendendoli più
adeguati alle reali possibilità economiche del ceto
medio-alto (…) Le palazzine divengono, negli anni
trenta, l’occasione di lavoro per molti giovani
architetti ‘moderni’.”
E, nel 1932, Mussolini sottolinea la terza posizione
raggiunta da Roma – dopo Milano e Torino – nel settore
della piccola e media industria, glorificando così
un’immagine multipla della capitale: città della storia,
del potere spirituale, del potere politico e della vita
economica.
Occorrerà rivestire questo
tessuto urbano, storico e mitizzato al contempo, di un
volto architettonico all’altezza delle “eterne”
ambizioni del fascismo: è il compito riservato ai
progettisti dell’urbanistica romana tra il 1936, anno
della proclamazione dell’Impero, e il 1942, anno della
prevista Esposizione Universale e celebrazione del
ventennale del fascismo.
Negli anni Venti Virgilio Marchi aveva così espresso
l’esaltazione modernistica dei futuristi (cfr. V.
Marchi, Scenografia futurista, in “Cronache
d’attualità”, Roma, agosto-ottobre 1921, n. 9-11):
“La città futurista renderà i cervelli più elastici e
attivi. La volontà sarà pizzicata da nuovi stimoli, i
desideri si moltiplicheranno come tanti organismi
irresistibili invadenti ogni essere in un genere
d’infezione eccitante e benefica.
Un nuovo aspetto della città e della casa creerà senza
dubbio un nuovo spirito e un nuovo regime di vita fra
gli uomini”.
Ma negli anni seguenti il fascismo piega l’ipotesi di
“nuovo regime” intellettuale in anti-urbana retorica
monumental-ruralista e in simbologia costruita dello
Stato totalitario.
Le “demolizioni” delle
transeunti costruzioni generazionali di Sant’Elia sono
piegate dal regime alla logica del potere speculativo,
con la distruzione di vestigia antiche per aprire la
neo-controriformistica Via della Conciliazione.
Le parole di architetti e urbanisti accompagnano la
gerarchizzazione del territorio, coniugando ambiguamente
tecnicismi d’effetto e direttive politiche (G. L.
Banfi-L. B. Belgiojoso, Urbanistica anno XII. La città
corporativa, in “Quadrante”, n. 13, 1934):
“(…) Il creare questo volto alle città italiane è una
realizzazione alla quale lo Stato Fascista ci conduce.
Il Corporativismo, che è ordine e gerarchia, non può
permettere che nel quadro completo di vita nazionale (…)
le città possano decidere, libere arbitre della propria
vita, direttive indipendenti e molte volte in antitesi
con le necessità della Nazione (…) Per questo lo Stato
organizzerà corporativamente l’urbanistica così che i
singoli piani regolatori siano emanazione di un piano
regolatore della nazione. Quando questa avrà predisposto
il quadro completo delle proprie necessità politiche ed
economiche e avrà distribuito i compiti alle attività
della campagna e delle città, allora finalmente queste
saranno in grado di affrontare con piena responsabilità
e risolvere i propri problemi interni. Solo così
potranno essere combattuti e vinti i due grandi mali
delle città, l’inurbamento e la vita nei quartieri
malsani. Il ristabilire l’equilibrio dell’immigrazione
interna con la ruralizzazione e il risanamento morale e
igienico, sono argomenti di grande attualità e problemi
che urge risolvere col più grande senso realistico”.
Negli anni Trenta Edoardo Persico, nel momento in cui le
polemiche sulle scelte architettoniche del regime sono
più intense, concepisce il ritorno alle origini
futuriste della contemporaneità come ripresa di una
creatività opposta alle percezioni abitudinarie della
piccola borghesia.
Nel suo bilancio della situazione dell’architettura
italiana alla metà degli anni Trenta, il critico
napoletano osserva che lo slancio del “romanticismo
democratico del primo futurismo” si era forgiato uno
sguardo nella tradizione lirica dei poemi sulle “città
tentacolari”; e i progetti di Sant’Elia hanno,
nell’interpretazione di Persico, lo stesso rigore
puritano dell’edificio industriale, della fabbrica.
Ma, rinnegando questa
premessa d’avanguardia, fondamentale pur nelle sue
contraddizioni, gli architetti italiani hanno preferito
accontentarsi di un patriottismo di facciata, in linea
con i gusti del regime.
La deriva mussoliniana nella percezione e nella
definizione di un destino eterno riservato alla capitale
del fascismo si esaspera nella seconda metà degli anni
Trenta, dopo la conquista dell’Etiopia, generando una
mitografia imperiale incapace di reggere alla dialettica
del divenire. S
arà l’ineluttabile
modernità della Seconda guerra mondiale, col trionfo di
complessi militar-industriali di spietata complessità,
ad annientare il mito arcaico-romano-rurale di una forza
bellica ed economica basata sulle cifre di una natalità
in crescita.
Prodotto di un progetto anti-urbano, anti-moderno,
anti-socialista, le dichiarazioni e le scelte di
Mussolini conducono necessariamente alla “soluzione
finale”: l’evacuazione delle città italiane durante la
Seconda guerra mondiale. Inscritto nella composita
logica fascista, tale esito è riproposto come essenziale
in un discorso del 2 dicembre 1942 alla Camera dei Fasci
e delle Corporazioni:
“Cominciate a disperdervi per le nostre belle campagne:
bisogna sfollare le città, soprattutto dalle donne e dai
bambini. Tutti coloro che possono sistemarsi lontani dai
centri urbani e industriali hanno il dovere di farlo,
poi bisogna organizzare gli esodi semidefinitivi o
serali, in modo che nella città, di notte, restino
soltanto i combattenti, cioè coloro che hanno l’obbligo
civico e morale di rimanervi”.
La riduzione delle metropoli al rango di trincee per
militari e combattenti implica l’annullamento dell’idea
stessa di città e la sua sostituzione col concetto di
“cittadella” fortificata.
Le tensioni e le ambiguità
che avevano caratterizzato gli anni del regime fascista
si sciolgono tragicamente, i contrastati dibattiti
politico-intellettuali sul nuovo volto delle città del
regime, sulla “necessaria” valenza “imperiale” degli
edifici, dei quartieri e dei centri urbani sorti per
iniziativa dello Stato trovano lo sbocco più drammatico,
ma non meno logico, nella partecipazione al conflitto
mondiale.
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