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N. 36 - Dicembre 2010 (LXVII)

CITTà DI FONDAZIONE FASCISTA
La Pentapoli pontina

di Chiara Donati

 

L’impronta che la politica fascista lasciò sulla struttura urbana italiana ma anche sull’intero territorio nazionale fu talmente pesante da risultare, anche volendo, difficilmente cancellabile.

 

Non a caso, Emilio Gentile, ha coniato il termine di “fascismo di pietra” poiché esso racchiude in sé la molteplicità delle strutture che vennero in un qualche modo modificate, distrutte, ricostruite secondo i progetti del duce. Vi era l’intenzione di materializzare in strade, monumenti, edifici, piazze di antiche città italiane o di città di recente fondazione il modello di una nuova civiltà imperiale che pretendeva di essere universale come lo era stata la civiltà romana nel mondo antico.

 

Ma con il fascismo, il mito della romanità assunse fin dall’inizio un orientamento antiliberale, che divenne sempre più esplicito dopo la conquista del potere. Ad ispirare la romanità fascista erano i concetti di autorità, disciplina e gerarchia, pilastri di una nuova politica che vedeva nella vocazione imperiale la missione della nuova Italia uscita dalla Grande Guerra. Il fascismo si proclamò l’avanguardia di una rinascita della stirpe italiana e per rinnovare in essi lo spirito imperiale e universale della tradizione romana, Mussolini iniziò col muovere guerra alla Roma reale, “capitale inerte, insufficiente, meschina” (Gentile 2007, 52).

 

Componente essenziale dell’esperimento totalitario fu proprio la rigenerazione della Roma reale, condotta nel mito della Roma antica e nell’intenzione di creare la Roma fascista, per una nuova Italia imperiale. Oltre ai lavori di demolizione e agli scavi per far grandeggiare nell’isolamento i monumenti restaurati, il fascismo lavorò molto per effettuare dopo la conquista politica, una “conquista monumentale” della capitale mediante la fascistizzazione del suo spazio urbano occupandolo con i propri riti, simboli e monumenti.

 

In questa prospettiva, la fondazione di “città nuove” può essere letta anche come la volontà di trasmettere una propagandistica immagine di Mussolini quale emulo dei romani che al tempo furono grandi costruttori. Eppure, il panorama delle nuove fondazioni, per essere ben compreso, deve essere inserito nel contesto di quella che era la situazione economica e demografica italiana del tempo, rispetto alla quale l’azione di governo si dimostrò contraddittoria e funzionale a obbiettivi particolari. Delineerò il quadro generale sinteticamente, ma in ogni suo aspetto.

 

Innanzitutto, tra le due guerre, un numero crescente di popolazione lasciò le campagne per trasferirsi in città. Il fenomeno dell’urbanesimo si scontrò con l’ideologia fascista che ha sempre individuato nella città il luogo elettivo di una serie di fenomeni reputati negativi come l’abbassamento della natalità o la spinta verso la formazione di una coscienza di classe.

 

Per di più, l’affollamento delle città avrebbe comportato anche alti costi sociali dovuti all’esigenza di più scuole, ospedali, chiese, ecc., cosa che sarebbe divenuta insostenibile per le casse del regime. La lotta contro la crescita delle masse proletarie di immigrati nelle città si formalizzò in alcuni provvedimenti legislativi a partire dal 1926 quando la questione delle migrazioni interne fu messa sotto il controllo di un apposito Comitato permanente. Ma soltanto nel ’39, con la legge “contro l’urbanesimo” vennero vietati i trasferimenti di residenza nei capoluoghi di provincia, nelle città con più di 25 mila abitanti e in certi comuni di “notevole” importanza industriale a chi non fosse obbligato per documentate ragioni di lavoro stabile. Alla generale e generica ideologia antiurbana del regime corrispondeva la fioritura di una quantità di proposizioni tecniche relative al decentramento in campagna dei quartieri operai, allo sviluppo di insediamenti suburbani, ma anche di una vasta letteratura in materia di “ruralesimo”.

 

Oltre a ciò, è necessario tenere presente un secondo aspetto ovvero la tendenza accentratrice dello stato fascista ebbe effetti anche in periferia. Infatti, la riorganizzazione della disciplina degli enti locali e il riassetto delle circoscrizioni amministrative interferirono con modifiche della gerarchia urbana negli anni tra i ’20 e i ’30. Varie città nel ’23 ebbero un nuovo ruolo di capoluogo di provincia con tutto ciò che comportava in materia di dotazione di uffici, servizi e attrezzature; altre vi diventarono nel ’27 e Littoria si aggiunse nel ’34. Gli obbiettivi perseguiti erano essenzialmente politici perché si trattava di togliere autonomia agli enti locali e di diffondere sul territorio nazionale le strutture necessarie al pieno controllo economico e sociale da parte dello Stato. Gli effetti sul funzionamento del sistema territoriale coincisero con la creazione di nuovi bacini di gravitazione funzionale, nuovi flussi di interessi e nuove gradazioni nei livelli di importanza delle città. Nello stesso tempo ci fu una campagna contro i piccoli comuni, fissando una soglia minima di 5 mila abitanti per quelli di nuova istituzione. Inoltre alcuni comuni vennero uniti a centri della stessa portata oppure a grandi città confinanti, più o meno partecipi di un sistema metropolitano in gestazione e comunque sedi di cospicue attività industriali indotte dal capoluogo in espansione. I cambiamenti della geografia amministrativa avevano dunque effetti indiretti durevoli non solo sulle carte, ma nel corpo dei rapporti tra città e città, e tra città e campagna. Da non sottovalutare è il ruolo che il regime ebbe nel verticalizzare e irrigidire nei suoi legami interni la gerarchia urbana nazionale.

 

Inoltre, da non sottovalutare che l’economia italiana era uscita dalla Grande Guerra profondamente indebolita: notevoli debiti con gli alleati, necessità di importare per coprire i bisogni alimentari del Paese e scarsa possibilità di collocare i nostri prodotti sul mercato estero. A peggiorare la situazione contribuirono anche le misure restrittive sull’emigrazione degli USA che chiusero uno sbocco tradizionale per l’esuberante mano d’opera italiana. A questo quadro, Mussolini rispose con una politica a favore dell’industria (rivalutazione della lira, razionalizzazione dei processi produttivi con conseguente espulsione di mano d’opera) che esigeva, contemporaneamente, una politica agraria mirante a sostenere le scelte operate nel settore industriale: contenere la disoccupazione, limitare i consumi della popolazione, arginare il malcontento del paese che rischiava nei centri urbani di sfociare in conflittualità sociale. Quindi, per alleviare il numero dei disoccupati e contemporaneamente creare un ceto di piccoli proprietari conservatori e fedeli al regime si utilizzarono strumenti quali la realizzazione di opere pubbliche, bonifiche integrali e sbracciantizzazione.

 

Ma, la politica dei lavori pubblici e della bonifica integrale deve essere inserita anche all’interno della volontà del regime di darsi una giustificazione, una immagine, una proiezione “realizzatrice” all’interno del paese. Pur prevedendo un sistema di bonifica esteso a tutto il territorio nazionale, la sua attenzione fu rivolta soprattutto alle Paludi Pontine. Nella mentalità popolare così come nell’immaginazione straniera, le Paludi erano legate ad una miriade di leggende di ogni tipo, ma soprattutto la loro celebrità era legata alla loro perenne inviolabilità e alla loro capacità di infrangere ogni tentativo di recuperarle. Effettivamente anche se il regime fascista ne faceva un gran vanto, la bonifica era un obbiettivo che si perseguiva da tempo insieme a tutta una serie di iniziative per il progresso economico e l’urbanizzazione delle campagne. È lecito pertanto sostenere che il fascismo ha soprattutto agevolato molte iniziative più che inventarne di nuove. L’innovazione non stette tanto nei fatti quanto nella pretesa di razionalizzare attraverso un controllo autoritario la gestione delle trasformazioni dell’assetto insediativo e produttivo. Inoltre, il regime si avvalse di una oculata propaganda volta ad ottenere un ampio consenso, soprattutto internazionale. È indicativo il voler insistere, anche per mezzo di articoli o di discorsi pubblici sull’immensità sconfinata della pianura. In realtà, tutto l’Agro Pontino non è che 800 kmq circa, cioè 80.000 ha. È chiarissima, quindi, l’intenzione di voler creare un collegamento fra la descritta immensità degli spazi e l’immensità dell’opera intrapresa dal regime. Allo stesso modo, ricorre molto nei discorsi ufficiali il presentare l’opera di bonifica usando toni epici da “chiamata alle armi”. Il paragone bonifica-impresa militare apparve il migliore espediente propagandistico atto a giustificarne gli aspetti politico-organizzativi più discutibili mascherandoli dietro la facciata dell’”emergenza”.

 

La vicenda della fondazione di città nuove è una storia di improvvisazioni alternate a programmi a breve e medio termine, quasi sempre con l’intervento diretto e personale di Mussolini. Nel panorama delle nuove fondazioni, il caso più noto, anche per l’enorme risalto ottenuto dalla stampa nazionale e internazionale, è quello delle cinque città dell’Agro Pontino-Romano, ovvero Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia.

 

La “Pentapoli” pontina venne impostata quasi occasionalmente, senza un piano organico, quando invece gli architetti urbanisti razionalisti sostenevano la necessità di un Piano Regolatore Nazionale concatenato in una serie di Piani Regolatori Regionali, come indispensabile quadro di riferimento per la preparazione e la messa a punto dei singoli Piani Regolatori. La bonifica dell’O.N.C. (Opera Nazionale a favore dei Combattenti) fu in verità condizionata sia dall’asse romano della Via Appia (una sorta di decumanus maximus del territorio) sia dalla bonifica di Pio VII, impostata sul reticolo di venti canali o “Fosse Miliarie”, ortogonali alla Via Appia e alla “Linea Pio”.

 

La pianificazione fascista riprese questi allineamenti per tracciare attraverso la selva e la palude la serie di strade “Migliare” fra i due estremi dell’Appia e della Litoranea. In questa griglia si inseriscono in modo irregolare i poderi, mentre ancora più casuale è l’appoderamento nella zona nord, distribuita intorno agli snodi viari di Littoria e Borgo Piave. Al di là di questa impostazione piuttosto casuale, è possibile comunque individuare un disegno che ricollegherebbe tutte le città con l’eccezione di Sabaudia che è l’unica presso il mare.

 

Infatti, anno dopo anno, le quattro città sorgono lungo l’asse che congiunge Terracina con Ostia Antica e che in parte coincide con la nuova strada Pontina o Mediana. Tale strada veniva vista come l’emblema dell’avanzata ideale delle nuove legioni nella guerra di bonifica e può essere considerata in sostanza come asse ideale delle bonifiche che collega l’Agro Pontino e l’Agro Romano con l’area della storica bonifica di Ostia, oltre la quale si distendono le bonifiche di Porto e di Maccarese, portate a compimento dal regime fascista.

 

Le città maggiori sono a distanza di 15-25 chilometri l’una dall’altra, proprio come le stationes di una via consolare. Ripercorriamola: dopo Terracina incontriamo a una ventina di chilometri in linea d’aria Pontinia, che dista a sua volta una dozzina di chilometri da Littoria; dopo venticinque chilometri si incontra Aprilia, e dopo altri quindici Pomezia (a sua volta distante venticinque chilometri dal centro di Roma e meno di venti da Ostia Antica).

 

Eppure, solo molto parzialmente si può considerare l’Agro Pontino come una delle prime esperienze di pianificazione del territorio in Italia. Infatti se si può parlare di pianificazione idraulica, visto che un piano di massima per il convogliamento delle acque fu realmente predisposto, mancava però la previsione del comune di Littoria; e dopo averlo realizzato, Mussolini annunciò la costruzione di Sabaudia e Pontinia senza conoscerne preventivamente l’ubicazione.

 

In seguito nacquero Aprilia e Pomezia, e la scelta della loro localizzazione derivò da un frettoloso sopralluogo dei tecnici dell’ONC. Al posto della pianificazione, ci fu sempre la volontà di Mussolini che inaugurando un centro fissava la data di inaugurazione di quello successivo, senza badare alle maestranze che avrebbero dovuto lavorare anche di notte e fare doppi turni per completare un’opera muraria con svantaggi tecnici evidenti. Ma se ciò era comunque fattibile, non era però possibile accelerare il processo di bonifica dei terreni una volta prosciugati, cosicché il giorno dell’assegnazione la maggior parte dei coloni oltre a una casa fresca di muratura, riceveva un podere di nome ma non di fatto. Inoltre, una vera pianificazione avrebbe dovuto prevedere l’invio di agricoltori esperti del loro mestiere, ma anche in questo ambito, non ci fu nessuna preparazione o selezione professionale, ma quasi esclusivamente politica. Definire tutto ciò “pianificazione” è dunque azzardato, eppure non si può escludere che anche questa specifica esperienza abbia fornito indicazioni per la futura legge urbanistica del 1942.

 

Il 7 aprile 1932 Mussolini annunciò da un balcone dell’abitato di Quadrato (nucleo di alloggi per gli operai impiegati nei lavori) che in quel luogo stesso sarebbe sorta una borgata rurale, Littoria, per 5000 abitanti. Il progetto dell’architetto romano Frezzotti, che era stato incaricato di studiare in tempi molto brevi lo schema urbanistico del futuro centro, prevedeva la forma di una città ottagonale radiocentrica, del tutto avulsa dal dibattito urbanistico di quegli anni.

 

Il piano, tralasciando ogni considerazione di orientamento, suddivisione del traffico e coordinamento delle funzioni, si presentava secondo il vecchio schema di una grande piazza centrale, il “Foro”, la piazza del Littorio, che conteneva le principali funzioni politico-amministrative. Essa era circondata da strade radiali e anulari e da alcune piazze a giardino: la piazza Quadrato a ovest era il centro agrario con la sede dell’ONC, la piazza Savoia a sud era il centro religioso-educativo. Con l’eccezione della Stazione e del Palazzo delle Poste, capolavori “futuristi” di Angiolo Mazzoni, i più importanti edifici pubblici furono affidati allo stesso Frezzotti, architetto che si rifaceva alla prima maniera di Marcello Piacentini.

 

Immaginata inizialmente per soli 5-6000 abitanti, al centro di un territorio costellato da borgate rurali e case coloniche isolate, Littoria nel 1934 veniva elevata a capoluogo di provincia, e l’anno successivo si chiedeva a Frezzotti un piano di ampliamento per uno sviluppo fino a 50.000 abitanti (cifra che era stata ipotizzata già nel discorso inaugurale del ‘32). Ma fino alla guerra la popolazione si sarebbe fissata a 20.000 abitanti (oggi il centro di Latina ne conta più di 100.000). Già al termine degli anni Trenta si andavano insediando una serie di stabilimenti industriali, anticipando l’impetuosa svolta del dopoguerra, condizionata dalle incentivazioni della Cassa per il Mezzogiorno.

 

Da questa ricerca sulle città nuove è emerso chiaramente come una delle maggiori caratteristiche del regime fosse l’elaborazione, all’interno di una stessa logica, di espressioni contrastanti e apparentemente opposte. Uno dei dati più sicuri della politica urbanistica del regime è il dichiarato tentativo di unificare al suo interno ideologia e prassi; quindi, riconosciuta la crescita urbana come fenomeno disgregante della civiltà, se ne propone l’arresto in favore del suo contrario. Se urbanesimo è “anti-civiltà”, ruralesimo diviene costruzione attiva della “civiltà”. In questa logica, la fondazione di nuove città potrebbe sembrare assolutamente contrastante con la politica antiurbana. Ed è per questo che Mussolini crea di Littoria e delle altre città pontine l’immagine di un comune rurale, di un centro di servizio corollario alla grande opera di bonifica e di costruzione di un “orto produttivo” intorno a Roma. Quindi è di per sé esplicativo il suo ordine di cambiare la dizione corrente di città in comune rurale. Parlare di città fascista, nel caso delle fondazioni pontine, significa dunque parlare della non città.

 

Apparentemente più meditata sembra la vicenda di Sabaudia. Infatti, l’anno dopo l’inaugurazione di Littoria, l’ONC bandisce un concorso nazionale fra architetti e ingegneri italiani per la compilazione di un progetto di piano regolatore del centro comunale di Sabaudia da costruirsi in Agro Pontino. L’insediamento doveva sorgere in una penisoletta del lago costiero di Paola, separato dal mare da una striscia di dune, in un paesaggio dominato dalla montagna-isola del Circeo.

 

Dei tredici progetti presentati, vinse quello firmato da Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli. Questo progetto fece di Sabaudia un vero e proprio caso tra le varie realizzazioni del regime nel campo dell’urbanistica, tanto da essere ovunque menzionato come il modello della città nuova. Insieme alla Stazione di Firenze, realizzata quasi contemporaneamente, Sabaudia, venne addirittura eretta a simbolo della lotta sostenuta dagli architetti moderni contro la prevaricante cultura di Stato, divenne l’esempio di una posizione “antifascista” rispetto alle perentorie indicazioni del regime.

 

A mio parere, bisogna andare al di là dall’etichettare un progetto con il semplice aggettivo di fascista o antifascista, e inserire, invece, ciascun episodio all’interno della lotta tra opposte tendenze di fare e intendere l’architettura. L’opera di approfondimento già intrapresa da vari gruppi del movimento razionalista poteva infatti, a lungo andare, denunciare la non consonanza tra le forme e il loro senso politico, ma in questo momento, cioè alla nascita di Sabaudia, si tratta ancora di esercitazioni formali “prese a prestito” da altre esperienze e paludate di significati commissionati dallo Stato: un compromesso tra la forma e la sua ideologia. Che cosa intendesse il fascismo per architettura nessuno ancora poteva dirlo, c’erano delle indicazioni spesso contraddittorie, ma che certamente non escludevano in quel momento alcuna possibilità. C’era il lavoro del “Gruppo 7”, la mostra del MIAR e quella del RAMI, le due triennali del 1933 e del 1936, la stazione di Firenze, Sabaudia, la Casa del Fascio di Terragni, i padiglioni di Persico e Nizzoli, Palazzo Gualino di Pagano e altri.

 

 L’interpretazione che Riccardo Mariani dà delle vicende dell’architettura italiana durante il ventennio è alquanto esplicativa: il problema era nella contrapposizione di “gusti” piuttosto che in un autentico scontro di posizioni. Il caso delle città pontine è ancora una volta emblematico: “al suo interno si trovano tutte o quasi le parti di un unico discorso, suddivise tra loro da problemi di “gusto”“ (Mariani 1976, 92). Pertanto le cinque città pontine possono essere considerate cinque varianti sullo stesso tema, la loro differenza sta nella pratica di fare l’architettura, nella diversa professionalità espressa in ciascuna realizzazione.

 

Ciò che accomuna tutte le relazione degli architetti progettisti dei centri comunali è l’assenza di qualsiasi riferimento a quelli che saranno i futuri abitanti di quei centri. Sembra che la progettazione sia un fatto che riguarda soltanto loro: i progettisti, mentre i coloni restano anonima gente da recuperare alla vita dei campi. Di fatto, quella che era partita come una grande opera di bonifica viene più ricordata per le realizzazioni “urbane” che per i nuovi livelli di vita raggiunti sulle terre bonificate e questo perché fin dai primi mesi il regime poté contare quotidianamente le macroscopiche inefficienze di tutto l’apparato costruito. Sebbene in tutto il mondo si stesse dando ampio rilievo alle straordinarie realizzazioni di Mussolini, in verità la situazione dei coloni pontini era tutt’altro che soddisfacente.

 

Il carattere dominante in Agro Pontino è l’autoritarismo con il quale vengono imposti tutti i rapporti tra le alte gerarchie, i coloni e i ceti medi residenti nelle “città nuove”. In effetti costituivano tre categorie sociali fisse e assolutamente non comunicanti fra loro: i gerarchi dell’ONC e del partito che risiedevano a Roma e raramente a Littoria; i piccoli funzionari di queste organizzazioni decentrati con le loro famiglie nelle “città nuove” e i coloni sparpagliati nei poderi. Tra loro non esisteva alcuno scambio sociale, né occasioni in cui intrecciare una relazione anche casuale. Inoltre i coloni non avevano vita in comune anche perché non esisteva neppure uno spazio in cui esercitare un minimo di attività sociale. Gli architetti avevano progettato le piazze per le grandi adunate e solo per occasioni particolari come le visite del Duce o qualche commemorazione. Inoltre non esistono luoghi chiusi ricreativi di alcun genere e in questo le “città nuove”, moderne o tradizionali, sono praticamente identiche: non si sono tenute in alcun conto le necessità associative delle colonie.

 

Tra le tante interpretazioni date, è molto interessante quella che vede nell’ambito delle ex paludi un vago senso di utopia, da intendere soprattutto come il recupero di ricordi utopici ottocenteschi di comunità appartate e perfette come punti di origine di una nuova società. In realtà questa intenzione non è mai manifestata né tra gli scritti né tra i discorsi, ma dall’insieme dell’intera realizzazione esce l’immagine di un organismo con particolari parentele, di cui il falansterio è il capostipite. Se osserviamo la planimetria di Sabaudia, come delle altre città nuove, risulta evidente che si basa su un sistema geometricamente chiuso, come poteva essere un borgo medievale. È presente un nucleo centrale in cui sono raccolte le funzioni sociali quali la chiesa, il comune, la casa del fascio, il dopolavoro, la scuola elementare, la casa del balilla, le poste, l’ospedale, il mercato.

 

A raggiera intorno al nucleo si intervallavano una serie di “borghi” equidistanti dal centro comprensivi di chiesa, scuola, poste, armadio farmaceutico. Tra il centro e i borghi si inserivano una serie di unità produttive costituite dai poderi che fornivano materia prima, di trasformazione e di scambio. Caratteri fondamentali di questa “comunità” dovrebbero essere: il lavoro, la moralità, il numero chiuso, in espansione ma come frutto della comunità stessa; ma anche il recupero sociale dei componenti “salvati” dalla crisi generata dall’urbanesimo e che può avvenire solo con l’osservanza di rigide regole di vita. Riportando le specifiche parole di Mariani: “Il tutto insomma è ispirato dal tentativo della riforma sociale attraverso l’espiazione che trova il suo momento di massima concentrazione nel lavoro agricolo”. Tentativi di questo genere furono “frequenti” anche nell’Inghilterra industriale e nell’America di fine Ottocento, ma non si ricorda che esperienze simili abbiano avuto successo, date le ribellioni anche violente che spesso vi mettevano fine.

 

Sabaudia procedette nel suo iter di sviluppo demografico molto più lentamente di Littoria. Al censimento del 1936 la popolazione residente è di 4.890 persone in tutto il comune. Nel 1951 è salita a 7.709. E ancora per alcuni decenni è rimasta in parte una città fantasma. Infine è risultata prevalente l’attività turistica anche se si è sviluppata sulla fascia costiera e sul lago, saldandosi al turismo del vicino Circeo.

 

Per il terzo comune, Pontinia, non venne bandito alcun concorso. Nel giugno del 1934 lo stesso Le Corbusier (che tra l’altro aveva preso le distanze dal coro internazionale di elogi per Sabaudia riscontrandone la mediocrità) inviò a Bottai perché lo introducesse al Duce uno schema di piano regolatore per la nuova città. Ma alla fine dell’anno gli veniva annunciato che il duce aveva già approvato il progetto presentato dall’Ufficio Tecnico dell’ONC. Il piano fu preparato dall’ingegnere Pappalardo con la “collaborazione artistica” del Frezzotti, in un sito rimasto segreto fino all’ultimo per evitare manovre speculative dei grandi proprietari terrieri.

 

Alla fine, il centro rurale nacque in una zona equidistante dalle altre due città, inserito in diagonale in un lotto rettangolare fra due canali e due strade di bonifica. Il centro di Pontinia è a sua volta impostato su due assi diagonali rispetto al lotto che convergono verso le due emergenze prospettiche delle piazze centrali: la Torre comunale e il campanile della Chiesa. La scelta di una soluzione d’ufficio fu dettata evidentemente dalla volontà di non scontentare l’ala più conservatrice del Partito dopo lo “scandalo” di Sabaudia.

 

Ma per la quarta e la quinta città- Aprilia e Pomezia- si tornò alla più regolare prassi del concorso che entrambe le volte vinse, non senza contestazioni, il gruppo “2 P.S.T.” formato da Concezio Petrucci, Emanuele Paolini, Riccardo Silenzi, Mario Tufaroli Luciano. Anche per l’ubicazione della nuova città di Aprilia, Mussolini decise di utilizzare un terreno paludoso anziché le parti boschive per non creare situazioni di difficile gestione coi proprietari privati dei terreni stessi. In altre parole, invece che intraprendere un’opera di esproprio pubblico, preferì rivolgersi verso i terreni più disastrati cercando di ridurre al minimo eventuali contrasti con i proprietari. Pertanto, all’interno di una superficie acquitrinosa e insalubre di 13.000 ettari venne scelto il luogo della nuova città che, a differenza di Littoria, capoluogo di provincia, di Sabaudia, destinata a divenire centro turistico e di Pontinia che doveva divenire un centro industriale, doveva essere profondamente rurale, a carattere esclusivamente agricolo.

 

In realtà, l’analisi degli ultimi due centri, di Aprilia così come di Pontinia – il primo semidistrutto in guerra e poi ricostruito, il secondo sfigurato da una selvaggia speculazione edilizia, e divenuti entrambi notevoli poli industriali- può aggiungere poco al panorama urbanistico fin qua delineato.

 

Anche questi ultimi due centri abitati furono concepiti in stretta connessione con il territorio agricolo circostante, costante riscontrabile in tutte le fondazioni pontine. Il rapporto città-campagna riferito alla fondazione dei nuovi comuni rurali è alquanto esplicativo dell’intera vicenda urbanistica e architettonica italiana di questo periodo. Questi due termini sono visti come punti di partenza di un processo di tendenziale annullamento delle differenze: la città deve ruralizzarsi e perdere la propria dimensione e qualità metropolitana e nelle campagne occorre intervenire per marcare la presenza del regime. Pertanto città e campagna tendono, l’una nell’altra, a perdere di identità.

 

Termini inizialmente in relazione opposizionale e di reciproca esclusione convergono verso una “omogeneizzazione” in cui ciascuno vede indebolirsi i propri sistemi di valori, la propria specificità funzionale e la caratterizzazione delle strutture segniche che le sono tipiche. Tutti i nuovi insediamenti sono caratterizzati dallo stesso tipo di contraddizione ovvero dal riproporre, ad una scala micro-, una struttura caratterizzata da un nucleo centrale e da un tessuto circostante organizzato sull’iterazione di moduli costanti. Il paradosso sta nel fatto che questo nucleo è centrale unicamente per la sua ubicazione ma è totalmente privo di centralità in termini di valori urbani e di effettivi rapporti di fruizione.

 

Come abbiamo detto, esso non serve a mettere gli abitanti in relazione tra loro ma solo ad indicare il loro individuale rapporto con l’autorità. Questo tipo di struttura, al di là delle varianti sotte le quali si presenta nei cinque insediamenti dell’Agro pontino, è un’autentica costante: il centro è l’antitesi dell’agorà o della piazza del libero comune medievale, non è luogo collettivo ma mera “scena”. Molto interessante è l’ipotesi interpretativa data da Maria Luisa Scalvini (Sanfilippo 1978, 125-141) che dà delle città pontine l’immagine di uno spazio per una finzione rappresentativa, per officiare i rituali del regime, per celebrare le sue codificate cerimonie di popolo. La Scalvini sostiene che questo carattere non è rilevabile semplicemente dall’analisi delle soluzioni planimetriche, quanto dalle immagini di questi spazi urbani “centrali”.

 

Impossibile sfuggire alla sensazione che torri, campanili, facciate, porticati, costituiscano volumi letteralmente “vuoti”, entità di cartapesta dentro le quali e dietro le quali “non vi è nulla”. Non architettura, quindi, ma scenografia: quinte, prospettive, emergenze verticali – debito e gerarchizzato omaggio ai poteri costituiti della Chiesa e dello Stato – obbediscono ad una logica in cui la componente funzionale, così specifica del medium architettonico, appare cancellata, annullata o più esattamente, quando è presente, relegata “dietro le quinte”: nell’ambito di quel tessuto che – rispetto alle aree centrali cui è principalmente volta la nostra analisi, e che sono non la città ma l’immagine che la città propone di se stessa – costituisce l’elemento opposizionale.

 

In questo senso è emblematica, ad esempio, la torre di Pomezia, con l’assurdo portico che ne circonda la base, senza che nessuna ragione ne giustifichi la presenza se non l’idea di una ennesima quinta scenografica.

 

Abbiamo visto che Mussolini si rivolse alle campagne con la consapevolezza che solo la città poteva trasformarsi in documento perpetuo della sua politica , perché “le città sono di pietra” mentre la campagna è mutevole e porta su di sé i segni di un lavoro di sempre, di una fatica antica e non distinguibile. È anche per questo motivo che non si limitò alla bonifica dell’Agro Pontino ma procedette alla fondazione delle cinque città e quindi, alla sua colonizzazione. Ma probabilmente, neppure la fondazione delle città pontine fu sufficiente per appagare pienamente l’ambizione del duce che sognava di essere ricordato nei secoli come l’artefice di una grande Roma moderna, capitale della nuova civiltà fascista.

 

Difatti Mussolini voleva una nuova Roma interamente e integralmente fascista, mussoliniana fin dalle fondamenta, come integralmente mussoliniane erano le città nuove create nell’Agro pontino. Una nuova Roma fuori da Roma, protesa verso il mare e libera dalla coabitazione forzata con le vestigia antiche.

 

Il progetto di costruire una nuova Roma distaccata dall’antica era già stato concepito nei decenni precedenti da quanti erano convinti che non fosse possibile conciliare le esigenze di una capitale moderna con la più antica struttura urbanistica. In regime fascista, ne era pienamente convinto l’architetto Gustavo Giovannoni, fondatore della facoltà romana di architettura e membro di tutte le commissioni incaricate del piano regolatore per la capitale, dal 1916 al 1941. Egli avvertiva che per migliorare i problemi di funzionalità e di traffico a poco sarebbero serviti tagli e sventramenti, se non ad aggravarne le condizioni.

L’ambizioso progetto di creare una nuova Roma saltò nuovamente fuori, e con maggiore slancio, in occasione della proposta di candidare la capitale a ospitare un’esposizione universale nel 1942, in concomitanza con il ventennale della rivoluzione fascista. La parte italiana della mostra sarebbe stata composta da edifici monumentali permanenti che sarebbero diventati il nucleo della nuova Roma protesa verso il mare.

 

Il nuovo complesso sarebbe stato attraversato dalla grande arteria della via Imperiale che da un lato avrebbe collegato l’E42 a Roma e dall’altro sarebbe continuata fino ad Ostia antica e quindi al mare. Innestandosi sulle trasformazioni già realizzate, in atto o previste all’interno della città storica, la via Imperiale avrebbe anche avuto un ruolo di collegamento con la stazione Termini e con due strade che collegavano il nuovo centro con la stazione di Trastevere e quella Ostiense. Sarebbe divenuta l’asse del futuro assetto urbano, una spina dorsale nella nuova Roma commerciale e residenziale. Giorgio Ciucci la definisce come la premessa velleitaria per un nuovo piano regolatore: velleitaria promessa, in quanto mentre l’intera operazione E42 contraddice il piano del 1931, quest’ultimo continua ad essere vigente e il nuovo piano non verrà mai predisposto.

 

La divergenza fra le due ipotesi di sviluppo urbano, rappresentate appunto dal piano del 1931 e dall’E42, non verrà mai risolta. Anzi, Roma al mare, che simbolicamente esemplifica i contenuti politici e economici di un vagheggiato dominio del Mediterraneo, si ridurrà nel dopoguerra in una corsa dei romani agli stabilimento balneari di Ostia lungo quella “larga e solenne autostrada di m 50”, che avrebbe dovuto concludersi in un più solenne “centro ricreativo e sportivo”, pendant dell’altro centro sportivo, il Foro Mussolini.

Ma i lavori dell’E42 vennero interrotti durante la guerra per mancanza di finanziamenti e ciò causò, molto probabilmente, la stizza del duce che si sentì sfiorare dal timore che la nuova Roma mussolinea sarebbe potuta rimanere incompiuta.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Elisa Bizzarri …( et al.), Fascio e aratro. La condizione contadina tra le due guerre, Roma, Cadmo, 1985.

Antonio Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, Roma; Bari, Laterza, 1979.

Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Torino, Einaudi, 2002.

Giulio Ernesti (a cura di), La costruzione dell’utopia. Architetti e urbanisti nell’Italia fascista, Roma, Lavoro,1988.

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