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CINEMA


FAST FOOD NATION
SIAMO CARNE AL MACELLO

di Laura Novak

 

Esistono Film di denuncia sociale ed esistono quelli che vorrebbero esserlo.

Fast Food Nation, purtroppo, si avvicina ad entrambi i “generi”, senza essere parte di uno o dell’altro. Ultimato ma forse non del tutto compiuto.

 

Il film si apre fin dall’inizio in svariate pieghe narrative. L’ambientazione, quella del processo lento e sanguinoso di macellazione e lavorazione della carne bovina, per la vendita di carne d’hamburger ai fast food della provincia americana, è suddivisa equamente per ogni storia individuale della sceneggiatura.

 

è uno sfondo tragico, drammaticamente legato alla realtà del consumo di massa, senza sosta o pietà.

 

I soggetti, e non si parla qui di personaggi, ma di bei protagonisti di ogni microstoria dell’intreccio, sono vittime, consapevoli o meno del meccanismo. Ogni fase di macellazione, di produzione, vendita al dettaglio, vendita del marchio e garanzia, fino all’arrivo del profitto, è contrassegnato da un individuo con i suoi sogni e le sue certezze.

 

Si passa quindi per l’intero film dagli esuli messicani, spinti all’emigrazione da sogni di gloria in furgoni-celle senza aria, che possono ottenere solo umiliazione carnale o lacerazione fisica (la macellazione), alla mattanza emotiva e la conseguente miscellanea di donne sognatrici ed insicure (la preparazione); dalla commessa impiegata giovane e talentuosa, che si rende conto della assenza di futuro personale, nell’arida realtà, se non accompagnata dalla spinta economica donata dal marchio assassino (la vendita al dettaglio, la preparazione del singolo e il convincimento della necessità fisiologica del prodotto), alla svendita del manager alla causa comune ancora incontaminato dalle regole del commercio.

 

Ogni storia un passaggio. Una serie di ruoli satellite garantiscono la riuscita intenzionalmente corale del profilo narrativo.

 

Da Bruce Willis, supervisore cinico, disincantato da 20 anni di lavoro sporco, a Patricia Acquette, madre sola e solitaria, a Ethan Hawke, l’unico a non essere all’interno del meccanismo del massacro, ad averlo compreso e ad allontanato.

 

Il film ha le carte giuste, ma non sbanca...

 

Non riesce a denunciare fino all’estremo il marcio della catena di montaggio che oggi è nuovamente l’occupazione moderna in fabbrica. Oggi come allora, uomini mutilati, donne sopraffatte, ruoli e gerarchie scombinati, moralità comprate, spazzatura in vendita.

 

Non si assapora veramente il disgusto che di sicuro ha condotto il regista alla scelta del soggetto. Una patina opaca buonista non lascia vedere in lucidità la realtà.

 

Poteva essere un film che conduceva direttamente allo stomaco (come fa però in maniera sublinamente grottesca negli ultimi fotogrammi), ma che purtroppo, si ferma, rallenta, a volte accelera senza controllo ma poi di nuovo sterza, per non arrivare al limite della denuncia.

 

Un’unica differenza mette in luce il film rispetto agli altri lungometraggi come Supersize me del 2006, ed è qui la sua forza: ad oggi non ha importanza cosa vendi, in quali quantità, e a quali invece si potrebbe mai vendere in futuro; quello che conta è in che modo si vende. Deve necessariamente rappresentare un bene indispensabile, unico e riconoscibile.

 

Comprare per poi assoggettare il lavoratore... e fare poi lo stesso al consumatore. I paralleli tra la funzione astratta, ancora non realistica, del consumatore, durante la fase di preparazione, e la funzione, invece reale e sviscerata, del lavoratore sono evidenti.

 

Di sicuro, appena usciti dalla sala, lo scopo ultimo, di allontanare e far riflettere, lo si sente assorbito.

 

 

 

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