IL CINEMA DI FANTASCIENZA E IL MITO
DELLA CAVERNA
riflessioni
di Giancarlo Chiariglione
Quando il cinema, nel 1995, ha
festeggiato i suoi primi cento anni
di storia (come
la
psicoanalisi o
il saggio Psicologia delle
Folle
di Gustave Le Bon), si è cominciato
a parlare della sua inevitabile
obsolescenza rispetto a un sistema
di comunicazione di massa sempre più
invasivo, a una rivoluzione
multimediale travolgente (dal
televisore, simbolo del focolare
domestico, si è passati
ai sempre più
potenti
computer e
cellulari),
che parevano davvero invincibili
come fenomeno di cultura e di
costume.
La cosiddetta “settima arte”, in
realtà, grazie alla sua capacità di
suggestionare persone di ogni età,
cultura e ceto sociale, pur
attraversando delle fasi alterne di
floridezza e
di
stagnazione,
è sopravvissuto sino ai giorni
nostri, diventando un simbolo quasi
mitico nell’immaginario collettivo.
Platone, tramite il racconto della
caverna presente all’inizio del
libro
settimo
della
Repubblica,
ha dimostrato che la tentazione di
contentarsi/consolarsi con
spettacoli suggestivi di immagini e
ombre (più o meno cinesi) è antica
quanto la nostra civiltà e
con il suo straordinario genio
creativo, ha anticipato di ventidue
secoli e mezzo la creazione del
cinema. È noto infatti come il
fascinoso mistero che trasmette lo
schermo cinematografico, rispetto,
ad esempio, alla televisione, ai
computer, ai portatili, è dato,
soprattutto dalla sala
cinematografica buia e chiusa, la
quale ricorda una caverna, mitica,
come quella del racconto platonico.
Per il pensatore ateniese,
affascinato dai misteri, dai culti
orfico-pitagorici,
infatti, l’essere umano vive
costantemente in una condizione di
doppia realtà in cui il sogno è
sovente così complesso ed efficace
da oscurare la stessa realtà
quotidiana: non solo molti suoi
miti, come quello di Er
narrato nella Repubblica,
paiono
elaborazioni
oniriche (tale
mito che conclude il decimo e ultimo
libro della Repubblica è
incentrato su un eroico
soldato originario
della Panfilia
morto
in battaglia,
il quale dichiara di essere stato
per dodici giorni nell’Ade e di aver
poi ottenuto la possibilità di
tornare nella realtà per raccontare
agli uomini cosa ha visto nel mondo
della vera realtà),
ma anche concetti come
l’Iperuranio,
zona al di là del cielo dove
risiedono le idee
e si estende
la
Pianura della Verità, erano per lui
la vera realtà, mentre la scialba,
immutabile realtà in cui l’uomo è
immerso quotidianamente, era una
modesta copia di quell’autentica
realtà.
Negli ultimi cinquant’anni, anche
per il fatto che il rapporto tra il
reale e l’onirico è sempre più
accomunabile al rapporto tra il
reale e il virtuale, il cinema di
fantascienza, soprattutto quello
hollywoodiano; ovverossia di quel
paese che viene comunemente
considerato
la
"versione originale della
modernità",
ha sfornato interessanti pellicole
sulla questione delle due realtà
separate o del doppio mondo.
Anche ispirate da scienziati come
Vladimir Vernadskij e P. Teilhard de
Chardin che introdussero il concetto
di
noosfera (termine
con cui si intende
la “sfera del pensiero umano”,
una specie di “coscienza collettiva”
che scaturisce dall’interazione fra
le menti degli uomini)
o da matematici e cognitivisti come
W.S. McCulloch, W. Pitts,
John von Neumann,
Stephen M. Kosslyn che hanno
riscontrato delle omologie tra la
mente e il computer, nonché dalle
riflessioni di filosofi come Putnam,
il quale, nel suo libro
Reason, Truth and History
(1981) immagina che
noi tutti siamo soltanto dei
cervelli immersi in una vasca piena
di sostanze nutritive le cui
terminazioni nervose sono collegate
ad un super-computer programmato da
uno scienziato malvagio che si
prefigge di simulare gli stimoli
sensoriali del mondo reale,
opere come Dark City
(1998) di Alex Proyas, Il
tredicesimo piano (The
Thirteenth Floor, 1999) di Josef
Rusnak,
Matrix (The
Matrix,
1999), di Lana e Andy
Wachowski o
Branded
(2012) di
Jamie Bradshaw e
Aleksandr Dulerayn,
presentano un’umanità che vive
prigioniera e incosciente.
Se nel
primo film abbiamo una
metropoli-mondo clonata dalle
megalopoli
americane degli anni Quaranta e
sospesa tra le stelle, nei cui
sotterranei, perfidi alieni, esseri
a metà tra i cenobiti e i vampiri,
conducono esperimenti sulla memoria
degli ignari cittadini approntando
molteplici vite illusorie; Matrix
presenta una realtà simulata
sviluppata dalle macchine per poter
tenere sotto controllo gli umani
(una "neuro-simulazione interattiva"
la definisce Morpheus, capo dei
ribelli che lottano per liberare gli
uomini da tale schiavitù), globale e
collettiva (gli abitanti di Matrix
infatti interagiscono con la
simulazione e indirettamente anche
tra di loro), mentre Branded
presenta una società
distopica in cui i “marchi” delle
corporations controllano le
persone nel loro pensare e agire
rendendole disilluse e passive.
Più in
generale, è a partire da opere come
Metropolis (1927) diretto da
Fritz Lang,
e poi
Fahrenheit 451 (1966) di
François Truffaut,
L’uomo che fuggì dal futuro
(THX 1138, 1971) di George
Lucas,
Blade
Runner e Tron,
entrambi del 1982 e diretti,
rispettivamente, da
Ridley Scott e Steven
Lisberger,
Videodrome (1983) di
David
Cronenberg, Essi
vivono
(They Live,
1988) di John Carpenter o
Il
tagliaerbe
(The Lawnmower Man,
1992), di Brett Leonard, che
il cinema ha preconizzato l’avvento
di un’umanità consegnata ad un
mercato universale fatto di merci,
valori, simboli e immagini,
appiattiti e frullati lungo
l’infinito trash-road di ogni
supporto disponibile e pronti per
essere venduti e consumati.
Una
umanità caratterizzata da quella
unidimensionalità indagata da
filosofi come il già citato
Jean
Baudrillard con la sua società del
simulacro, il quale
ha
messo ripetutamente in dubbio il
concetto di realtà («Il
simulacro non è mai ciò che nasconde
la verità; ma è la verità che
nasconde il fatto che non c’è alcuna
verità. Il simulacro è vero»), dato
che, nell’attuale era della
comunicazione virtuale (radiofonica,
televisiva, giornalistica,
informatica), qualsiasi fatto
tende a scomparire e a cedere il
posto
a un’apparenza che è il suo esatto
contrario. O a diventare uno
spettacolo od oggetto di consumo.
Una
unidimensionalità studiata anche da
Herbert Marcuse, da
Guy
Debord con la
sua
Société du
spectacle, da
Edgar
Morin
e da
Jean-Luc
Tourenne;
la quale appare come la condizione
finale cui pare averci destinato la
nostra
trimillenaria
civiltà.
Riferimenti bibliografici:
Jean Baudrillard, Simulacres et
simulation, Parigi, Éditions
Galiée, 1981.
Jean Baudrillard, L’America,
Feltrinelli, 1987.