[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 208 / APRILE 2025 (CCXXXIX)


arte

IL CINEMA DI FANTASCIENZA E IL MITO DELLA CAVERNA
riflessioni
di Giancarlo Chiariglione

 

Quando il cinema, nel 1995, ha festeggiato i suoi primi cento anni di storia (come la psicoanalisi o il saggio Psicologia delle Folle di Gustave Le Bon), si è cominciato a parlare della sua inevitabile obsolescenza rispetto a un sistema di comunicazione di massa sempre più invasivo, a una rivoluzione multimediale travolgente (dal televisore, simbolo del focolare domestico, si è passati ai sempre più potenti computer e cellulari), che parevano davvero invincibili come fenomeno di cultura e di costume.

 

La cosiddetta “settima arte”, in realtà, grazie alla sua capacità di suggestionare persone di ogni età, cultura e ceto sociale, pur attraversando delle fasi alterne di floridezza e di stagnazione, è sopravvissuto sino ai giorni nostri, diventando un simbolo quasi mitico nell’immaginario collettivo.

 

Platone, tramite il racconto della caverna presente all’inizio del libro settimo della Repubblica, ha dimostrato che la tentazione di contentarsi/consolarsi con spettacoli suggestivi di immagini e ombre (più o meno cinesi) è antica quanto la nostra civiltà e con il suo straordinario genio creativo, ha anticipato di ventidue secoli e mezzo la creazione del cinema. È noto infatti come il fascinoso mistero che trasmette lo schermo cinematografico, rispetto, ad esempio, alla televisione, ai computer, ai portatili, è dato, soprattutto dalla sala cinematografica buia e chiusa, la quale ricorda una caverna, mitica, come quella del racconto platonico.

 

Per il pensatore ateniese, affascinato dai misteri, dai culti orfico-pitagorici, infatti, l’essere umano vive costantemente in una condizione di doppia realtà in cui il sogno è sovente così complesso ed efficace da oscurare la stessa realtà quotidiana: non solo molti suoi miti, come quello di Er narrato nella Repubblica, paiono elaborazioni oniriche (tale mito che conclude il decimo e ultimo libro della Repubblica è incentrato su un eroico soldato originario della Panfilia morto in battaglia, il quale dichiara di essere stato per dodici giorni nell’Ade e di aver poi ottenuto la possibilità di tornare nella realtà per raccontare agli uomini cosa ha visto nel mondo della vera realtà), ma anche concetti come l’Iperuranio, zona al di là del cielo dove risiedono le idee e si estende la Pianura della Verità, erano per lui la vera realtà, mentre la scialba, immutabile realtà in cui l’uomo è immerso quotidianamente, era una modesta copia di quell’autentica realtà.

 

Negli ultimi cinquant’anni, anche per il fatto che il rapporto tra il reale e l’onirico è sempre più accomunabile al rapporto tra il reale e il virtuale, il cinema di fantascienza, soprattutto quello hollywoodiano; ovverossia di quel paese che viene comunemente considerato la "versione originale della modernità", ha sfornato interessanti pellicole sulla questione delle due realtà separate o del doppio mondo.

 

Anche ispirate da scienziati come Vladimir Vernadskij e P. Teilhard de Chardin che introdussero il concetto di noosfera (termine con cui si intende la “sfera del pensiero umano”, una specie di “coscienza collettiva” che scaturisce dall’interazione fra le menti degli uomini) o da matematici e cognitivisti come W.S. McCulloch, W. Pitts, John von Neumann, Stephen M. Kosslyn che hanno riscontrato delle omologie tra la mente e il computer, nonché dalle riflessioni di filosofi come Putnam, il quale, nel suo libro Reason, Truth and History (1981) immagina che noi tutti siamo soltanto dei cervelli immersi in una vasca piena di sostanze nutritive le cui terminazioni nervose sono collegate ad un super-computer programmato da uno scienziato malvagio che si prefigge di simulare gli stimoli sensoriali del mondo reale, opere come Dark City (1998) di Alex Proyas, Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, 1999) di Josef Rusnak, Matrix (The Matrix, 1999), di Lana e Andy Wachowski o Branded (2012) di Jamie Bradshaw e Aleksandr Dulerayn, presentano un’umanità che vive prigioniera e incosciente.

 

Se nel primo film abbiamo una metropoli-mondo clonata dalle megalopoli americane degli anni Quaranta e sospesa tra le stelle, nei cui sotterranei, perfidi alieni, esseri a metà tra i cenobiti e i vampiri, conducono esperimenti sulla memoria degli ignari cittadini approntando molteplici vite illusorie; Matrix presenta una realtà simulata sviluppata dalle macchine per poter tenere sotto controllo gli umani (una "neuro-simulazione interattiva" la definisce Morpheus, capo dei ribelli che lottano per liberare gli uomini da tale schiavitù), globale e collettiva (gli abitanti di Matrix infatti interagiscono con la simulazione e indirettamente anche tra di loro), mentre Branded presenta una società distopica in cui i “marchi” delle corporations controllano le persone nel loro pensare e agire rendendole disilluse e passive.

 

Più in generale, è a partire da opere come Metropolis (1927) diretto da Fritz Lang, e poi Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut, L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138, 1971) di George Lucas, Blade Runner e Tron, entrambi del 1982 e diretti, rispettivamente, da Ridley Scott e Steven Lisberger, Videodrome (1983) di David Cronenberg, Essi vivono (They Live, 1988) di John Carpenter o Il tagliaerbe (The Lawnmower Man, 1992), di Brett Leonard, che il cinema ha preconizzato l’avvento di un’umanità consegnata ad un mercato universale fatto di merci, valori, simboli e immagini, appiattiti e frullati lungo l’infinito trash-road di ogni supporto disponibile e pronti per essere venduti e consumati.

 

Una umanità caratterizzata da quella unidimensionalità indagata da filosofi come il già citato Jean Baudrillard con la sua società del simulacro, il quale ha messo ripetutamente in dubbio il concetto di realtà («Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero»), dato che, nell’attuale era della comunicazione virtuale (radiofonica, televisiva, giornalistica, informatica), qualsiasi fatto tende a scomparire e a cedere il posto a un’apparenza che è il suo esatto contrario. O a diventare uno spettacolo od oggetto di consumo.

 

Una unidimensionalità studiata anche da Herbert Marcuse, da Guy Debord con la sua Société du spectacle, da Edgar Morin e da Jean-Luc Tourenne; la quale appare come la condizione finale cui pare averci destinato la nostra trimillenaria civiltà.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

R. Canudo, La Septième art e son esthétique, «L’amour de l’Art», III, 1922, trad. it. In L’officina delle immagini, Roma, «Bianco & Nero», 1966, ora in G. Grignaffini, Sapere e teorie del cinema. Il periodo del muto, Bologna, Clueb, 1989.

Hilary Putnam, Reason, Truth and History, New York, Cambridge University Press, 1981.

Jean Baudrillard, Simulacres et simulation, Parigi, Éditions Galiée, 1981.

Jean Baudrillard, L’America, Feltrinelli, 1987.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]