[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 154 / OTTOBRE 2020 (CLXXXV)


contemporanea

LA CINA DEI FIGLI UNICI
UNA LEGGE TRA ECONOMIA E UMANITÀ

di Consuelo Marziali

 

La legge sul figlio unico venne introdotta in Cina nel 1979, al fine di frenare l’incontrollabile crescita demografica del Paese. Essa fu il risultato di decisioni economiche rivelatesi disastrose, prima tra tutti quella del “Grande Balzo in Avanti” (1958-1959).

 

All’ascesa al potere di Mao Zedong (1893-1976), la Cina viveva ancora di un’economia prevalentemente agricola, molto arretrata rispetto all’Occidente. Nell’intento di offrire al Paese una nuova immagine, il leader politico avviò una serie di campagne volte a promuovere la ripresa economica della nazione. Tra queste, il succitato “Grande Balzo in Avanti” rivestì un ruolo di primaria importanza. I protagonisti di questo progetto furono i lavoratori cinesi.

 

Lanciata ufficialmente nella primavera del 1958, tale politica rappresentava apparentemente un’occasione di riscatto economico e sociale per il popolo cinese, condannato a millenni di arretratezza dalla tradizione confuciana. I residenti delle zone rurali e delle zone urbane, indipendentemente da età e censo, vennero chiamati ad abbandonare i loro mestieri d’origine, per concentrare le loro forze nella produzione di ferro e acciaio.

 

Questo progetto portò a dei risultati che, di certo, non erano quelli sperati: il ferro e l’acciaio ottenuti si rivelarono inutili e di infima qualità. Nel frattempo, a causa del quasi totale abbandono delle campagne, la produzione di grano, che rappresentava il 90% del contenuto calorico dell’alimentazione cinese, subì pesanti battute d’arresto: le condizioni di vita dei cittadini iniziarono rapidamente a peggiorare e gli effetti del Grande Balzo in Avanti si fecero insostenibili in tutto il Paese.  Il governo si trovò, infatti, ad affrontare sempre maggiori difficoltà nel riuscire a nutrire una popolazione che, nelle città, aumentava di anno in anno.

 

L’ascesa al potere di Deng Xiaoping (1904-1997), anche noto con il nome di “Piccolo Timoniere”, segnò un decisivo punto di svolta. Questi lanciò delle politiche di modernizzazione che condussero la Cina verso risultati mai ottenuti in precedenza. Ciononostante, i problemi che avevano piegato il Paese sin dall’inizio del XX secolo, tra cui la pressione demografica, costantemente in eccesso rispetto alla disponibilità alimentare cinese, erano ancora lontani dall’essere risolti.

 

Pertanto, al fine di disinnescare l’eccessiva crescita della popolazione, il governo di Deng Xiaoping pensò a dei sistemi di politica di controllo delle nascite. Essi si tradussero nella legge sul figlio unico, provvedimento lanciato ufficialmente nel 1979 e tristemente noto in tutto il mondo. Il governo centrale stabilì che ogni coppia avesse diritto a un unico erede e inaugurò così una delle stagioni umanamente più crude della storia cinese.

 

La promulgazione di tale politica scatenò reazioni intense tra la popolazione, a causa della violazione dei diritti umani fondamentali. Con “violazione dei diritti umani”, non si fa riferimento solo all’obbligo previsto dalla summenzionata legge ad avere un solo erede, ma anche agli aborti forzati e alle sterilizzazioni indotte  che hanno seguito l’istituzione della legge sul figlio unico.

 

Il popolo veniva sollecitato ad avere un unico figlio tramite incentivi materiali e finanziari, quali l’incremento salariale, l’accesso alle scuole migliori e ai servizi sanitari di maggior prestigio. Alle coppie con più di un bambino non solo erano negati questi privilegi, ma veniva loro imposto di pagare una tassa, la cui somma aumentava in modo direttamente proporzionale al numero totale di figli.

 

Dalla fine della fase arcaica-matriarcale della sua storia e soprattutto con l’avvento della tradizione confuciana, la Cina ha sempre dato maggior peso, in termini di procreazione, ai figli di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile; gli uomini rappresentavano di fatto la forza motrice della società ed erano proprio loro a prendersi cura dei propri genitori durante la vecchiaia, in linea con un valore morale confuciano da sempre alla base della società cinese, quello della pietà filiale.

 

A causa di queste convinzioni,  le bambine iniziarono a essere sempre più oggetto di abbandono e infanticidio. Inoltre, aumentò in maniera piuttosto significativa l’incidenza del tasso di aborti nei casi in cui ci si confrontava con la certezza che al termine di una gravidanza sarebbe nata una femmina.

 

L’antica preferenza per i figli maschi ha creato uno squilibrio di genere gravemente alimentato dal ricorso all’aborto selettivo, facilitato in qualche maniera dall’avvento delle tecnologie a ultrasuoni, che permettevano di riconoscere il sesso di un nascituro già intorno alle venti settimane di gestazione, in una fase, quindi, in cui era ancora possibile effettuare un’interruzione di gravidanza.

 

L’infanticidio femminile non era una pratica approvata dalle autorità governative; esso era piuttosto un fenomeno complesso, determinato dai fattori culturali precedentemente citati e da altri di natura economica. La pratica dell’infanticidio era comunque diffusa, soprattutto nelle aree rurali, laddove la tradizione confuciana era maggiormente radicata, e rappresentava una forma di violenza che si estendeva addirittura alle donne incinte di nasciture. Queste future mamme erano spesso al centro di discriminazioni, colpevolizzate talvolta dagli stessi mariti di non essere state in grado di concepire un figlio maschio.

 

In tutta la Cina, con qualche eccezione riservata alle minoranze etniche e alle zone rurali, la nascita del secondo figlio era punita con severissime sanzioni. La più comune di esse era il pagamento di una multa straordinariamente salata, che in genere coincideva con l’equivalente di un anno di lavoro di una comune famiglia cinese, ma nei casi più estremi, la somma da pagare poteva corrispondere al doppio dello stipendio annuo.

 

Nel caso in cui una famiglia non avesse avuto il denaro necessario per colmare il debito, autorità inviate dalla commissione per il controllo delle nascite avrebbero confiscato parte dei beni domestici, fino al raggiungimento di un valore equivalente a quello indicato dalla multa. Le punizioni più estreme però erano, se possibile, peggiori.

 

Nel caso in cui lo Stato avesse scoperto l’esistenza di un bambino nato fuori dalla pianificazione delle nascite o una gravidanza non permessa, avrebbe potuto disporre il licenziamento lavorativo immediato di entrambi i coniugi, il loro arresto, l’aborto forzato a qualsiasi stadio della gestazione o, addirittura, la sterilizzazione di almeno uno dei due componenti della coppia. Quest’ultima soluzione era la preferita dalle autorità cinesi, in quanto rappresentava la prova schiacciante e definitiva della non fertilità dei coniugi; inoltre, era una pratica irreversibile, contrariamente a molti altri strumenti anticoncezionali dalla durata temporanea, che potevano essere evitati o rimossi in qualsiasi momento.

 

Molte sono anche le testimonianze di donne costrette a interrompere la gravidanza quando il parto era ormai alle porte. L’aborto forzato era praticato con un’iniezione di lattato di etacridina nello spazio extra amniotico, a seguito della quale il feto veniva estratto dall’utero materno e solitamente poggiato in un cesto accanto al letto della mamma, poiché doveva fungere da monito per coloro che avessero osato disobbedire alla politica di pianificazione delle nascite.

 

La legge sul figlio ha impedito, dal 1979, la nascita di circa 400 milioni di bambini.

 

Interrompendo il “flusso” delle nascite, però, ha anche determinato un enorme gap generazionale, tanto che nel 2030, più di un quarto della popolazione cinese avrà probabilmente superato i 60 anni. È probabile, pertanto, che nell’immediato futuro si verificherà una grave mancanza di lavoratori.

 

Il costante invecchiamento della popolazione ha così spinto demografi, economisti e leader politici cinesi a fare un passo indietro, a remare nella direzione opposta e dichiarare l’apertura universale al secondo figlio nel 2016, nel tentativo di risollevare il tasso di natalità del Paese. Questo provvedimento non ha però realizzato le speranze del governo, che dal 2017 ha tentato ulteriormente di incentivare la procreazione tramite un baby bonus, un “pacchetto” che comprende un supporto economico e la garanzia di accesso a privilegi scolastici e sanitari. Anche questo stimolo non è stato però sufficiente per risollevare il tasso di natalità del Paese.

 

Il governo, attualmente impegnato a fronteggiare il problema opposto rispetto a quello per cui la legge sul figlio unico era stata introdotta, ha ora a che fare con una società diversa da quella del 1980, una società che pare assumere una forma sempre più simile a quella occidentale, almeno in termini di famiglia. I ritmi di vita frenetici a cui i giovani sono sottoposti, la loro concentrazione sullo studio e l’ossessione di fare carriera per ottenere un impiego dignitoso ha ormai distolto l’attenzione dei giovani dalla famiglia.

 

Ad oggi, infatti, a tutte le coppie cinesi è concessa la possibilità di avere due bambini. Sebbene la popolazione tocchi un miliardo e quattrocento milioni di persone, però, il tasso di natalità del Paese è ai minimi storici, motivo per cui il governo centrale sta considerando l’idea di abbandonare totalmente la pianificazione delle nascite in vigore dal 1979.

 

 

Riferimenti Bibiografici:

 

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Greenhalgh Susan and Li Jiali, “Engendering Reproductive Policy and Practice in Peasant China: For a Feminist Demography of Reproduction”, in Signs, The University of Chicago Press, vol. 20, n. 3, 1995.

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Samarani Guido e Scarpari Maurizio (a cura di), La Cina verso la modernità, Einaudi, Torino, 2009, vol. III.

Wang Fei, Zhao Liqiu e Zhong Zhao, “China’s Family Planning Policies and Their Labor Market Consequences”, in Discussion Paper Series, Bonn, IZA Dp, n. 9746, 2016.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]