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storia & sport


N. 125 - Maggio 2018 (CLVI)

storie di ciclismo e del giro d'italia

PARTE I - la nascita del giro nel 1909
di Riccardo Filippo Mancini

 

Un uomo solo al comando…

la sua maglia è bianca e celeste…

il suo nome è Fausto Coppi

 

Senza dubbio questa è una delle frasi più famose e iconiche legate al ciclismo, quella di un campionissimo (e così veniva chiamato dagli addetti ai lavori) di questo sport come Fausto Coppi impegnato in una fuga che è rimasta nella memoria storica della bicicletta: centonovantadue chilometri fatti in solitaria, scattando dopo poco più di un’ora di corsa, da solo tra cinque lunghi passi alpini duri da affrontare anche singolarmente: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere, prima della discesa finale che portava all’arrivo di Pinerolo.

 

Ci vollero ben 11 minuti e 52 secondi per veder comparire sulla linea del traguardo il secondo classificato di quella tappa, il rivale di sempre Gino Bartali. Una giornata entrata nell’epica del ciclismo.

 

Coppi poi vinse quell’edizione della corsa rosa arrivando sul traguardo finale di Monza con un vantaggio di 23’ 47” su Bartali e 38’ 27” sul terzo classificato Cottur. Probabilmente il fenomenale corridore piemontese non aveva bisogno dell’attacco nella Cuneo-Pinerolo per aggiudicarsi la vittoria finale di quel Giro, il suo vantaggio era già ampio.

 

Ma in questo sport, soprattutto in quegli anni, entravano in gioco altre componenti, c’erano meno tatticismi e più cuore. E l’azione di quel giorno, quel 10 giugno del 1949, ha contribuito a creare il mito di Coppi e ha arricchito l’album dei momenti indimenticabili nella storia delle due ruote.

 

Quella vinta dal campionissimo, il suo terzo successo, era l’edizione numero 32 del Giro, nato nel 1909 da un’intuizione di Armando Cougnet, considerato l’ideatore della corsa a tappe italiana. Ma andiamo con ordine.

 

Ad inizio novecento la bicicletta era senza dubbio un mezzo considerato innovativo e anche abbastanza popolare: stava prendendo sempre più piede, nonostante qualche resistenza, diventando pian piano parte della quotidianità.

 

Dobbiamo immaginare, proiettandoci indietro, della portata rivoluzionaria rappresentata dalle due ruote, o come venivano chiamate allora dai velocipedi: un mezzo di trasporto non troppo costoso, maneggevole e con costi di manutenzione relativamente bassi.

 

A livello sportivo il ciclismo si era sviluppato soprattutto su pista, ma già dalla seconda metà dell’800 erano state create delle gare su strada, alcune delle quali sono ancora oggi pietre miliari di questo sport, le cosiddette “classiche monumento” come la Liegi-Bastogne-Liegi (corsa per la prima volta nel 1892), la Parigi-Roubaix (datata 1896) e in Italia il Giro di Lombardia (1905) e la Milano-Sanremo (1907); a chiudere il quintetto il Giro delle Fiandre (1913).

 

Nel nostro paese c’era dunque un minimo di tradizione ciclistica, si organizzavano anche corse di un giorno che non sono rimaste nella storia perché eventi unici e non ripetuti ogni anno, che servivano spesso ai giornali sportivi dell’epoca per vendere qualche copia in più, avere qualcosa da raccontare sulle loro pagine.

 

Il calcio, e sembra strano dirlo, non aveva nemmeno lontanamente la popolarità della quale gode oggi, e avrebbe iniziato ad essere seguito con attenzione solamente intorno agli anni ’30, con le prime edizioni della Coppa Rimet (antenata della Coppa del Mondo), vinta dagli azzurri nel ’34 (in casa) e nel ’38.

 

Il ciclismo invece appassionava: lunghe distanze, mezzi pesantissimi che richiedevano un grande sforzo agli atleti (anche 15 chilogrammi a bicicletta), la possibilità di poter veder passare i corridori sul percorso senza pagare il biglietto.

 

I primi ad avere l’intuizione di un giro “nazionale” che non si limitasse a una corsa di un giorno furono i francesi: nel 1903 nacque il Tour de France, dall’iniziativa del quotidiano sportivo L’Auto (antesignano dell’attuale Equipe) e fu subito una scommessa vinta.

In Italia il giornale sportivo di riferimento era la Gazzetta dello Sport, bisettimanale fondato nel 1896 da Eugenio Costamagna ed Eliso Rivera, che avevano deciso di fondere i giornali che dirigevano, ossia La Tripletta e Il Ciclismo (che però continuò comunque ad uscire per un paio d’anni) per creare un soggetto nuovo che potesse occuparsi di tutti gli sport.

 

Il successo fu immediato e la “gazza” già nel 1898 decise di adottare il colore rosa, quello con cui la conosciamo anche oggi. Proprio nel 1898 accadde un fatto importante per la storia del Giro d’Italia: entrò nella redazione del giornale sportivo Armando Cougnet, giovane diciottenne appassionato di ciclismo e figlio di Alberto, ex schermidore e collaboratore esterno della Gazzetta.

 

Il giovane Armando aveva stoffa da vendere: si fece notare sin da subito e dopo soli 4 anni dal suo ingresso, nel 1902, assunse la direzione amministrativa della testata. Come accennato in precedenza sotto l’egida della Gazzetta nascono prima il Giro di Lombardia e in seguito la Milano-Sanremo, due autentici successi in tutti i sensi, sia giornalistici che sportivi.

 

La popolarità dalla “rosea” crebbe sempre di più, così come crebbe la tiratura, che dalle 20.000 copie dei primi numeri arrivò a toccare il record di 102.000 nel corso del 1907.

 

Era però necessario fare qualcosa in più, un passo ulteriore. Nel corso del 1908 c’era già in campo l’ipotesi di fare una corsa a tappe sul territorio italiano, seguendo l’esempio francese del Tour, idea che soprattutto Cougnet caldeggiava, convinto che potesse essere una carta vincente.

 

Facile a dirsi, meno a concretizzarsi, vista la difficoltà di organizzare una manifestazione così grande: bisognava trovare i fondi, istituire dei premi, disegnare un percorso. Ma proprio nell’estate di quell’anno arrivò la svolta decisiva.

 

Il Corriere della Sera stava pensando proprio in quel periodo alla stessa cosa: lanciare un giro ciclistico attraverso l’Italia, in collaborazione con il Touring Club Italiano e la Bianchi, una delle prime aziende produttrici di biciclette.

 

La Bianchi aveva affidato da poco la gestione della parte commerciale ad un ex ciclista molto noto al tempo, Gian Fernando Tomaselli; per fargli spazio in azienda era stato mandato via Angelo Gatti, che a sua volta decise di fondare l’Atala e mettersi in concorrenza con la Bianchi nella produzione di mezzi a due ruote.

 

Gatti è un personaggio decisivo per la nostra storia: venuto infatti a sapere cosa bolliva nella pentola del Corriere della Sera, decise, in guerra non solo commerciale ma anche personale con la Bianchi e Tomaselli, di rivelare tutto al caporedattore della Gazzetta dello Sport, Tullio Morganti.

 

Fu così che in fretta e furia la “rosea” riuscì a bruciare sul tempo la concorrenza e fare il primo passo: il 7 agosto del 1908 si annunciava, per l’anno successivo, l’organizzazione della prima corsa a tappe italiana, che avrebbe preso il nome di Giro d’Italia.

Un salto nel buio almeno in quel momento, visto che non c’erano i fondi per poter organizzare la corsa. Ma alla fine i soldi si trovarono e la Gazzetta disegnò il percorso del primo storico Giro, grazie anche al contributo proprio del Corriere della sera, che mise in palio 3.000 lire per il vincitore, somma abbastanza importante per l’epoca.

 

Qui entrò prepotentemente in scena Cougnet, che dopo l’esperienza maturata con la Milano-Sanremo prese in mano l’organizzazione della corsa, disegnandone il percorso: otto tappe con partenza da Milano e arrivo sempre nel capoluogo lombardo, sede della Gazzetta. Gli arrivi delle frazioni toccarono alcune delle principali città italiane: Bologna, Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino per poi tornare come detto ancora nella città meneghina.

 

La partenza avvenne il 13 maggio del 1909, l’arrivo il 30: si decise, viste le distanze enormi da coprire, di fare un giorno di corsa e uno di riposo. Vennero invitate alcune squadre e sei presero il via con i loro corridori: Atala-Dunlop, Bianchi-Dunlop, Stucchi-Persen, Dei-Michelin, Rudge Whitworth-Pirelli, Labor-Chauvin (i nomi erano la fusione dell’azienda produttrice della bici e del fornitore delle ruote), più altri atleti senza squadra che venivano chiamati “isolati” e non avevano alcun tipo di supporto logistico. In tutto presero il via 127 corridori (166 erano originariamente gli iscritti).

 

Le partenze venivano effettuate di notte, così da permettere a tutti di arrivare entro il tramonto successivo. Dobbiamo immaginare che la media oraria della corsa, per i più forti, era compresa tra i 25 e i 30 km: le bici pesantissime e le strade non asfaltate non aiutavano di certo, e si restava in sella in alcuni casi oltre le 12 ore. Per la classifica si decise di adottare il metodo a punti (come al Tour: il punteggio era dato dal piazzamento all’arrivo di ciascuna tappa mentre ricevevano identico punteggio tutti coloro che arrivavano oltre la metà dei concorrenti partiti, con valore crescente: 1 punto il primo e a salire gli altri) e non quello a tempo utilizzato nel ciclismo odierno, che entrerà in vigore nella corsa italiana a partire dal 1914.

 

La prima tappa del Giro fu vinta dal ventiduenne romano Dario Beni, mentre sul traguardo finale di Milano trionfò il corridore dell’Atala Luigi Ganna, con 25 punti. Secondo arrivò Galetti e terzo Rossignoli: se si fosse deciso di adottare il metodo a tempo, avrebbe vinto lui, con Ganna relegato in terza piazza. Conclusero il percorso solamente in 49, ricevendo un premio di 300 lire per aver portato a termine la fatica.

 

Il primo Giro d’Italia fu un vero successo: le strade erano piene di curiosi e tifosi, l’attesa altissima per ogni arrivo, migliaia di persone accolsero i ciclisti nell’epilogo a Milano.


L’epopea del ciclismo in salsa italica iniziò lì, e negli anni si è arricchita di aneddoti, storie, curiosità e personaggi entrati nel mito.



 

 

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