“Definire la Chiesa Cattolica complice dei crimini 
						nazisti è non solo palesemente falso dal punto di vista 
						storico ma è anche, alla luce dell’opera di salvataggio 
						compiuta nei confronti di migliaia di ebrei, chiaramente 
						fuorviante e frutto di una intenzione malevola e 
						ideologizzata”
						
						
						Così scriveva, già nel 1949, Padre Alessandro Bencivenga 
						sull'Osservatore Romano. 
						
						
						E aveva ragione. Indubbiamente la Chiesa Cattolica non 
						fu complice e neppure fiancheggiatrice del nazismo in 
						nessuna forma, anzi, là dove e quando possibile, cercò 
						di lenire le sofferenze delle vittime di uno dei regimi 
						più efferati della storia: migliaia di documenti 
						provenienti da decine di paesi possono confermare questo 
						dato.
						
						Ma non essere complice e connivente non significa non 
						essere quiescente. Certo, ci si dovrebbe intendere su 
						cosa s'intende per Chiesa Cattolica, ma se, per uso 
						comune, con questo termine s'intende l'alta gerarchia 
						pontificia al cui vertice si pone il Papa, indubbiamente 
						i silenzi (per alcuni versi giustificabili, per altri 
						difficilmente spiegabili) di Pio XII e del Vaticano di 
						fronte ai crimini hitleriani configurano quantomeno 
						appunto un certo grado di quiescenza o, in termini più 
						apertamente religiosi, quello che potremmo chiamare un 
						“peccato d'omissione”.
						
						
						Il vero problema, però, dal punto di vista storico, è 
						proprio quello definitorio. Perché se con il termine 
						Chiesa vogliamo intendere l'intero corpus dei 
						credenti cattolici, allora, altrettanto indubbiamente 
						possiamo affermare che la gran parte dei cattolici 
						europei i cui paesi caddero sotto regimi dittatoriali 
						nazi-fascisti, Germania in primis, furono forse ben più 
						che quiescenti e, in numerosi casi, addirittura 
						largamente conniventi appunto con tali regimi.
						
						Poi, esiste, tra i due estremi, una terza zona: quella 
						della Chiesa intesa come membri effettivi e certificati 
						della Chiesa stessa, come suoi rappresentanti per 
						vocazione e professione, gli ecclesiastici.
						
						
						E qui entriamo in un terreno difficile: storicamente, 
						riguardo all'atteggiamento verso il nazionalsocialismo, 
						questa Chiesa, la Chiesa in abito talare, si presentò 
						completamente e inequivocabilmente divisa, con posizioni 
						che coprirono l'intero arco delle possibili reazioni 
						verso l'esistente: dall'odio che spinse alcuni preti ad 
						unirsi alle squadre partigiani al silenzio ostile dei 
						più, dalla quiescenza politica alla connivenza e, 
						addirittura, alla complicità più marcata di altri. 
						
						 
						
						Se, sulla base della “Lettera Evangelica”, 
						l'atteggiamento di coloro che imbracciarono i fucili per 
						difendere la libertà può apparire teologicamente 
						(sebbene non umanamente) problematico, ciò che, 
						sicuramente, stupisce maggiormente è che alcuni “uomini 
						di Dio” possano aver così apertamente tradito lo Spirito 
						della Fede a cui avevano deciso di dedicare la loro 
						stessa esistenza, per rendersi correi dei misfatti di un 
						regime criminale.
						
						Eppure, ciò avvenne: dalla Slovacchia alla Croazia, 
						dalla Germania alla Spagna, centinaia di sacerdoti e 
						alti prelati non esitarono a schierarsi pubblicamente a 
						favore dell'ideologia nazifascista e a sostenerla 
						addirittura dal pulpito, se non, criminalmente, con 
						azioni concrete.
						
						
						Ma, al di là delle responsabilità morali ed oggettive 
						dei singoli, vi fu anche chi si spinse ben oltre, 
						portando la propria fedeltà al di là di quella che, con 
						un certo grado di eufemismo, potremmo chiamare umana 
						debolezza, errore di giudizio, convenienza del momento, 
						per aderire alla follia nazista anche quando essa era 
						stata sconfitta dalla storia e quando i suoi orrori 
						erano diventati di pubblico dominio, segnando così uno 
						dei punti più bassi e ingiustificabili della vita del 
						Cattolicesimo, un punto che ha un nome ben definito: “Ratline”.
						
						Letteralmente, una “ratline” è una cima che conduce alla 
						sommità dell'albero maestro di un veliero, estrema via 
						di fuga in caso di naufragio, ma, storicamente, questo 
						termine ha assunto tutt'altro significato, venendo ad 
						indicare un elemento fondamentale di quel sistema che, 
						con il tipico gusto nazista per gli acronimi, è 
						diventato famoso come O.D.E.S.S.A (Organisation Der 
						Ehemaligen SS-Angehörigen, Organizzazione degli 
						ex-membri delle SS), l'ultima possibilità di salvezza 
						per i criminali nazisti.
						
						Ma procediamo con ordine.
						
						
						Siamo nell'agosto del 1944 e ormai è chiaro per chiunque 
						non sia perduto, come Hitler, Goering o Himmler, in 
						sogni che ormai rasentano il puro vaneggiamento che la 
						Germania nazista si avvia verso la totale sconfitta.
						
						
						A Strasburgo, all'Hotel Maison Rouge, protetti da 
						imponenti misure di sicurezza, si incontrano alcuni 
						degli uomini più potenti del III Reich: per l'apparato 
						politico-militare ci sono Bormann, Speer e Canaris, per 
						la grande industria Kirdorf, Krupp, Thyssen e alcuni 
						altri, per le banche Von Schroeder...
						
						
						L'ordine del giorno è breve, ma fondamentale: cosa fare 
						“dopo”, quando Hitler non ci sarà più e quando il Reich 
						sarà, come appare ormai inevitabile, spazzato via. 
						
						 
						
						Per gli esponenti del mondo economico-finanziario, si 
						tratta di salvaguardare i propri capitali, ma per i 
						gerarchi del partito, al di là della paventata ma remota 
						possibilità di poter far sorgere un IV Reich, si tratta 
						di salvarsi la vita. 
						
						 
						
						Per entrambi, la sola speranza sembra risiedere nella 
						fuga, una fuga finanziata dai capitalisti e progettata 
						nei minimi particolari, tenendo conto delle situazioni 
						politiche dei paesi di destinazione e delle eventuali 
						relazioni dei presenti all'incontro con tali nazioni.
						
						
						Il risultato fu la designazione di tre itinerari 
						principali: 
						
						
						1) Monaco – Salisburgo – Madrid;
						2) Monaco – Salisburgo – Genova – Medio Oriente;
						3) Monaco – Salisburgo – Genova – Buenos Aires.
						
						Quello che più ci interessa è quel “passaggio per 
						Genova” che caratterizza le ultime due “ratline”: perché 
						proprio Genova? Certo, perché è un porto d'imbarco, ma 
						perché, allora, non Venezia o Marsiglia?
						
						
						La risposta, ottenuta dagli storici e giornalisti 
						americani Aarons e Loftus nel corso di una loro lunga e 
						dettagliatissima inchiesta, è quantomeno sconcertante: 
						perché a Genova c'era l'arcivescovo Giuseppe Siri 
						disposto a nascondere i criminali nazisti in attesa d 
						imbarco, in quella che, tristemente, divenne poi nota 
						come “via dei monasteri”.
						
						
						Chi era quello che sarebbe poi divenuto (dal 1953) il 
						cardinal Siri, l'uomo che per ben quattro volte (1958, 
						1963 e due volte nel 1978) fu ad un passo dal divenire 
						Sommo Pontefice (e che, forse, a detta di alcuni 
						vaticanisti, lo divenne, anche se per soli pochi minuti, 
						nel 1958)?
						
						
						Sacerdote dal 1929, brillante teologo tomista e docente 
						di teologia dogmatica, vescovo dal 1944, Siri si 
						contraddistinse per tutta la sua carriera ecclesiastica 
						e in particolare lungo il corso del suo vescovato 
						genovese (che si concluse solo con la sua morte nel 
						1987, ben oltre il canonico termine dei 75 anni di età) 
						per le sue posizioni ultraconservatrici: accolse nel 
						seminario di Genova molti seminaristi "tradizionalisti", 
						che, altrimenti, sarebbero usciti dalla Chiesa 
						Cattolica, ordinando vari di loro tra lo scontento di 
						parte del clero genovese; i sedevacantisti gli offrirono 
						(per sua stessa ammissione) la loro corona molte volte 
						ed egli contraccambiò le loro simpatie appoggiando con 
						tutte le sue forze la permanenza nella Chiesa Cattolica 
						di presbiteri di tendenze lefebvriane; ordinò che tutti 
						i preti della sua diocesi vestissero sempre l'abito 
						talare, considerando l'abbandono di esso come un segno 
						di infedeltà al ministero; avversò prima e durante il 
						suo svolgimento il Concilio Vaticano II e lottò affinché 
						prevalesse una linea il più possibile fedele alla 
						Tradizione; soprattutto, fu uno dei cardinali più ostili 
						alla partecipazione del Partito Comunista al governo 
						italiano.
						
						
						Insomma, Siri fu sempre un personaggio “scomodo”, legato 
						a posizioni che molti consideravano sorpassate e persino 
						retrive, ma, soprattutto, in modo totale, 
						incondizionato, quasi crociato, fu, per tutta la vita, 
						un accesissimo nemico del comunismo, “dottrina atea, 
						inumana e negatrice di ogni verità di fede”.
						
						è qui che 
						incontriamo per la prima volta il presupposto che può 
						spiegare ogni possibile contatto tra uomini di chiesa e 
						criminali di guerra nazisti, quel “il nemico del mio 
						nemico è mio amico” che portò alla più inedita e 
						sorprendente delle alleanze immediatamente postbelliche.
						
						
						E che questa alleanza fosse ben presente a Genova a 
						partire dal 1946 è fatto più che provato.
						
						
						Al di là dell'accusa di Aarons e Loftus di essere uno 
						dei coordinatori della “ratline” vaticana, considerata 
						responsabile della fuga di oltre 5000 criminali, accusa 
						probabilmente esagerata (Siri, alla prova dei fatti, 
						risulta più che altro essere, al massimo, un 
						fiancheggiatore ideologico ed un esecutore, piuttosto 
						che un capo della linea), il vescovo di Genova era 
						sicuramente in stretto contatto con uno dei maggiori 
						responsabili dell'organizzazione ODESSA, Walter Rauff e 
						con il sacerdote croato Karlo Petranovic, ex-dirigente 
						della milizia croata ustascia. 
						
						 
						
						Quest'ultimo, nel 1989, intervistato da Aarons e Loftus, 
						ammise senza problemi di aver aiutato un paio di 
						migliaia di persone a lasciare l'Italia via Genova e che 
						i nazisti che giungevano a Genova erano ottimamente 
						assistiti da alti dignitari cattolici. 
						
						 
						
						Anzi, la Pontificia Commissione di Assistenza aveva 
						perfino un ufficio nella stazione ferroviaria della 
						città e patrocinatore di questa struttura di supporto 
						era proprio l'arcivescovo Siri, fondatore del "Comitato 
						Nazionale per l'Immigrazione in Argentina" e del 
						comitato diocesano “Auxilium” (una organizzazione di 
						aiuto ai profughi), entrambi impegnati ad aiutare i 
						fuggiaschi. 
						
						Secondo un rapporto dei servizi segreti americani del 
						1947, l'arcivescovo dirigeva "un'organizzazione 
						internazionale il cui obiettivo è predisporre 
						l'emigrazione in Sud America di europei anticomunisti... 
						Questa etichetta generale di anticomunisti copriva 
						ovviamente tutte le persone politicamente compromesse 
						con i comunisti, e segnatamente fascisti, ustascia e 
						altri gruppi simili". 
						
						
						Un importante centro di accoglienza, della struttura 
						gestita da Siri, fu la chiesa genovese di San Teodoro, 
						dove molti fuggiaschi sostarono e ricevettero cibo, 
						assistenza, documenti per imbarcarsi sulle navi dirette 
						in Sud America, perlopiù bastimenti della linea Costa: 
						un traffico cospicuo, di cui sono indizio i numerosi 
						"titoli di viaggio" rilasciati all'epoca dal locale 
						ufficio della Croce Rossa Internazionale e tuttora 
						custoditi negli archivi di Buenos Aires. 
						
						 
						
						Il parroco di San Teodoro, Bruno Venturelli, fiduciario 
						di Siri, amico dell'armatore Giacomino Costa, e per sua 
						stessa ammissione traghettatore di nazisti nel Nuovo 
						Mondo, fu additato dall'ex ministro francese del governo 
						di Vichy, William Guyedan, già condannato per 
						collaborazionismo, come colui che lo aiutò nella fuga: 
						"Mi imbarcai a Genova con l'aiuto di una persona molto 
						gentile, padre Venturelli, aiutante del cardinale". 
						
						
						Insomma, che Siri fosse implicato nella “ratline” è 
						molto più che un semplice sospetto.
						
						La domanda, a questo punto, è se agisse per iniziativa 
						personale (mossa dal suo anticomunismo viscerale) o per 
						ordini superiori e non si tratta di una domanda oziosa: 
						secondo alcuni storici la presa di posizione di Siri, 
						infatti, implica necessariamente l'esistenza di una 
						preventiva intesa tra i vertici nazisti e la Santa Sede. 
						
						 
						
						Secondo i giornalisti Marisa Musu e Ennio Polito, 
						l'udienza segreta che Pio XII concesse al generale Karl 
						Wolff, comandante supremo delle SS e della polizia 
						tedesca in Italia, dieci giorni prima dell'arrivo degli 
						alleati a Roma, era proprio finalizzata proprio al 
						raggiungimento di un accordo bilaterale tra la Santa 
						Sede e gli alti gradi delle gerarchie naziste per 
						garantire il passaggio dei poteri, senza scosse, dai 
						nazisti agli anglo-americani (favorevole al Vaticano che 
						temeva una insurrezione popolare di stampo comunista), e 
						l'aiuto della Chiesa alla messa in salvo, a guerra 
						perduta, del maggior numero possibile di gerarchi e 
						criminali nazifascisti (favorevole, naturalmente, ai 
						nazisti). 
						
						
						Sebbene la possibilità di un coinvolgimento diretto 
						delle alte gerarchie della Santa Sede e del Papa in 
						particolare appare piuttosto dubbia e, comunque, non 
						suffragata da prove certe e nonostante il fatto che, 
						probabilmente, il Vaticano si sarebbe prodigato per 
						salvare chiunque fosse dichiaratamente cattolico o, 
						almeno, anti-bolscevico, resta il fatto certo che il 
						cuore della “ratline” risiedesse all'interno delle mura 
						papali.
						
						A tirare le fila, erano, in particolare, due personaggi 
						piuttosto ambigui: monsignor Alöis Hudal, responsabile 
						della sezione per l'espatrio dei criminali tedeschi e 
						padre Krunoslav Stjepan Draganović, responsabile della 
						sezione espressamente dedicata alla fuga dei criminali 
						legati al regime ustascia in Croazia.
						
						
						Per comprendere quanto questi due prelati agissero in 
						prossimità dei vertici papali, è necessario analizzare 
						brevemente le loro biografie.
						
						Tra i due, Hudal è, probabilmente, quello il cui ruolo è 
						più chiaramente definito.
						
						
						Nato a Graz, studioso delle Chiese Slavo-Ortodosse, 
						dottore in Teologia e in Sacre Scritture, dopo essere 
						stato cappellano militare durante la Prima Guerra 
						Mondiale, dal 1923 in poi fu (pare su raccomandazione 
						dell'ambasciatore austriaco Von Pastor, che voleva un 
						connazionale in quella posizione) rettore del “Collegio 
						Teutonico di Santa Maria dell'Anima”, il seminario 
						romano per i preti di lingua tedesca e, dieci anni dopo, 
						ottenne da Pio XII anche la titolarità della diocesi di 
						Aela. 
						
						 
						
						Con il rettorato dell'“Anima”, praticamente Hudal 
						divenne il più influente prelato austriaco della cerchia 
						vaticana, ma qualcosa doveva cambiare a causa delle sue 
						idee politiche: dal luglio 1933, dopo aver a lungo 
						osteggiato le posizioni pangermanistche, cominciò, con 
						un improvviso voltafaccia, a dichiararsi fervente 
						sostenitore di tale causa, ad assumere posizioni sempre 
						più violentemente antisemite (accusando addirittura i 
						banchieri ebrei di voler mettere le mani su Roma) e a 
						radicalizzare la sue già comunque anche in precedenza 
						ben evidenti idee anti-comuniste, anti-liberali ed 
						anti-parlamentari, fino ad allinearsi a quel credo 
						politico dei vari Schuschnigg e Von Papen poi definito “clerico-fascista”.
						
						
						Probabilmente, le ragioni principali di tale 
						allineamento sono da cercare nell'ascesa del comunismo 
						in Austria, con la paura che il marxismo sovietico 
						avrebbe finito per invadere l'Italia e distruggere il 
						cristianesimo, e nella visione dell'ascesa nazista come 
						dell'unico baluardo che si potesse frapporre tra il 
						“pericolo rosso” e la Santa Sede. Di fatto, comunque, 
						Hudal, in questa prospettiva, divenne a tutti gli 
						effetti un nazista, sicuramente critico, ma pur sempre 
						nazista. Quasi certamente è falsa la teoria di una sua 
						iscrizione ufficiale all'NSDAP, ma quando, nel 1937, il 
						“vescovo hitleriano” pubblicò il suo I Fondamenti del 
						Nazionalsocialismo, non rimase nessun dubbio a proposito 
						della sua posizione.
						
						Tra l'altro, pare che Hitler stesso sia rimasto molto 
						colpito dal testo e che, nonostante le proteste dei 
						numerosi gerarchi contrari ad un commento sull'ideologia 
						nazionalsocialista proveniente da un ecclesiastico, ne 
						abbia fatte stampare 2000 copie da distribuire tra i 
						maggiori esponenti del partito, “a scopo di studio”. 
						
						 
						
						In realtà, Hudal, nel testo, era molto critico nei 
						confronti di alcuni dei maggiori ideologi del partito, 
						quali Rosenberg, Himmler e Bergeman, accusati di voler 
						scristianizzare un messaggio come quello nazista, che, 
						secondo lui, risultava, in fondo, pienamente compatibile 
						con la fede cattolica ed è su questa linea che il 
						vescovo presentò il nazismo a Pio XI: come un movimento 
						diviso tra una “sinistra” malvagia (appunto i vari 
						Rosemberg, Himmler, etc.) ed una “destra” buona (quella 
						di Von Papen e, secondo lui, di Hitler); il cui unico 
						scopo era quello di preservare i valori occidentali 
						dall'avanzata del bolscevismo. Purtroppo, Pio XI si 
						lasciò convincere e il Mein Kampf non venne mai messo 
						all'indice.
						
						Ovviamente, queste posizioni gli costarono la totale 
						ostilità dei “nazisti cattivi”, tanto che il suo libro 
						non fu fatto circolare in Germania. Nonostante ciò e la 
						piega decisamente anti-cattolica presa da molti 
						provvedimenti nazisti (dalla proibizione dell'educazione 
						religiosa nelle scuole all'abolizione del crocefisso 
						negli uffici pubblici, alla confisca di numerosi edifici 
						religiosi), Hudal non ritrattò mai le sue posizioni e 
						arrivò ad attaccare piuttosto duramente la Mit 
						Brennender Sorge, in nome di una “naturale omogeneità 
						tra Stato Tedesco e Cristianesimo” che doveva opporsi al 
						“nemico giudeo-marxista”. 
						
						 
						
						Il suo estremismo lo portò, al termine del regno di Pio 
						XI e lungo tutto il regno di Pio XII, a venire isolato 
						all'interno del Vaticano: gli venne mantenuto (fino al 
						1952) il rettorato dell'“Anima”, ma gli fu negato 
						qualunque accesso alla corte papale. 
						
						 
						
						Fu, probabilmente, in questo periodo che, come affermato 
						da alcuni storici, Hudal divenne un informatore del 
						servizio segreto tedesco, con frequenti contatti con il 
						capo della Gestapo in Italia, Waler Rauff. Forse, 
						proprio in occasione di tali contatti i due cominciarono 
						ad elaborare i piani per quella che divenne una delle 
						più importanti “ratlines” europee. 
						
						 
						
						Comunque stessero le cose, certamente, a partire dal 
						1945, Hudal divenne il centro della rete di fuga dei 
						nazisti, in quello che egli stesso, in seguito, definì: 
						“un atto di carità verso persone in estremo bisogno, non 
						colpevoli di alcunché e rese capri espiatori di un 
						sistema malvagio”. Formalmente, il vescovo agiva 
						dall'Ufficio Austriaco a Roma, in grado di fornire le 
						“Carte di Riconoscimento” indispensabili per emigrare, 
						anche se non è ben chiaro se vi operasse come incaricato 
						ufficiale dell'Organizzazione Pontificia per i Rifugiati 
						o come capo della comunità cattolica austriaca in 
						Italia. 
						
						 
						
						In ogni caso, tra i criminali di guerra aiutati da Hudal, 
						certamente figurano personaggi del calibro di Franz 
						Stangel, comandante del campo di Treblinka (a cui Hudal 
						fornì la “Carta” per fuggire in Siria), Edward Roschmann, 
						il “macellaio di Riga”, Josef Mengele, l'“angelo della 
						morte” di Auschwitz, Gustav Wagner, comandante del campo 
						di Sobibor, Alois Brunner, organizzatore delle 
						deportazioni in Francia e Slovacchia, Adolf Eichmann, 
						pianificatore della “Soluzione Finale”, Otto Wächter, 
						creatore del ghetto di Cracovia e responsabile della 
						morte di quasi due milioni di ebrei polacchi, che, dopo 
						la guerra visse per quattro anni in un monastero romano 
						facendosi passare per frate.
						
						La domanda che immediatamente sorge è: è possibile che 
						il Vaticano non si rendesse conto dell’incredibile rete 
						di connivenze che si stava sviluppando all’ombra di San 
						Pietro e del ruolo che un vescovo che, per quanto 
						marginalizzato, aveva comunque un ruolo di un certo 
						rilievo dell’organizzazione pontificia, stava giocando 
						in essa?
						
						
						Oggettivamente, la risposta a questa domanda è 
						difficile, ma, pur lasciando un certo margine di dubbio, 
						probabilmente possiamo rispondervi affermativamente: il 
						Vaticano, al termine della II Guerra Mondiale, era 
						impegnato a prestare soccorso a circa 12 milioni di 
						rifugiati provenienti da ogni angolo d'Europa ed era 
						assolutamente impossibile, all'interno di questo 
						gigantesco sforzo per salvare centinaia di migliaia di 
						vite da morte pressoché certa, analizzare la posizione 
						politica o penale dei singoli. Proprio nelle maglie 
						piuttosto larghe di questo enorme sistema umanitario 
						potrebbe essersi infilato Hudal, per perseguire scopi 
						totalmente personali. 
						
						Alcuni storici sostengono che, in realtà, il vescovo 
						fosse una figura di secondo piano in tutta 
						l'organizzazione delle “ratlines”, ma i suoi rapporti ad 
						altissimo livello (ad esempio, la sua corrispondenza 
						diretta con Juan Perón, a cui il prelato austriaco 
						arrivò a chiedere in un colpo solo 5000 visti destinati 
						a “combattenti anticomunisti”) porterebbero ad escludere 
						tale eventualità. Potrebbe, al contrario, apparire più 
						realistico che Hudal di servisse del proprio ruolo per 
						convincere altri ecclesiastici ad assecondare i suoi 
						scopo, senza che, necessariamente, questi fossero consci 
						della causa che, involontariamente, stavano servendo: 
						ciò, ad esempio, potrebbe (ma il condizionale è 
						d'obbligo) spiegare il coinvolgimento 
						nell'organizzazione del direttore della Caritas di Roma, 
						Monsignor Karl Bayer, che utilizzò fondi specificamente 
						stanziati per ordine di Pio XII per pagare la fuga in 
						Sud America di notori criminali di guerra, e, forse, 
						anche la partecipazione dello stesso Siri a questa 
						incredibile trama (il che spiegherebbe la stranissima 
						posizione del futuro cardinale che, per quanto, come 
						detto, ultraconservatore, aveva, in effetti, aiutato la 
						Resistenza durante l'occupazione nazista).
						
						
						Tra l'altro, Hudal, nelle sue memorie postume, si 
						lamentò molto della scarsissima collaborazione trovata 
						all'interno delle alte sfere pontificie a favore della 
						sua opera di “difesa della cristianità dall'avanzata 
						comunista”. 
						
						è davvero 
						difficile spingersi più oltre: chiaramente, un 
						ragionevole dubbio non può che persistere, ma, se anche 
						vi fu una qualunque forma di collusione pontificia 
						nell'opera di Hudal, le tracce di tale possibile 
						collusione vennero certamente ben nascoste e persino le 
						apparenze salvate, con le pressioni fatte dalla Santa 
						Sede, attraverso il vescovo di Salisburgo, nel 1952, 
						perché Hudal lasciasse la sua posizione all'“Anima” e si 
						ritirasse a vita privata, cosa che il vescovo 
						puntualmente fece, rinchiudendosi nella sua lussuosa 
						residenza di Grottaferrata a vivere i suoi ultimi anni 
						(morì nel 1963) con uno stile di vita piuttosto poco 
						consono al suo voto di povertà.
						
						E si apre, così, un altro grande capitolo della 
						questione dei rapporti tra prelati cattolici e 
						organizzazione delle “ratlines”, un capitolo che ha 
						lasciato dietro di sé dolorosi strascichi giudiziari 
						che, in alcuni casi, risultano ancora aperti: quello 
						riguardante il “cui prodest” economico dell'intera 
						operazione di espatrio dei vari criminali di guerra.
						
						
						Per analizzare meglio questo capitolo, però, dobbiamo 
						esaminare, ancorché brevemente, le vicende che 
						riguardano l'altro grande protagonista vaticano della 
						rete di fuga post-bellica: padre Draganović.
						
						Se gli avvenimenti bellici e dell'immediato dopoguerra 
						relativi a Hudal mostrano un uomo dall'ideologia 
						piuttosto contorta e a tratti sconvolgente, quelli 
						relativi a Draganović disegnano una figura addirittura 
						aberrante, dal momento che questo frate francescano 
						bosniaco, riuscì a riassumere in sé ogni caratteristica 
						negativa che non tanto un uomo consacrato ma, in 
						generale, un essere umano avrebbe potuto raccogliere 
						dagli anni più bui della storia europea.
						
						Nato nel 1903 in ambiente ultranazionalista, dopo gli 
						studi teologici e filosofici a Sarajevo, Draganović si 
						trasferì a Roma, dove, oltre a frequentare l'Università 
						Gregoriana, trovo impiego negli Archivi Vaticani. Dal 
						1935 in poi, ha inizio la sua “parabola nazista”: 
						tornato in Bosnia, divenne segretario di Ivan Šarić, il 
						vescovo croato di Sarajevo che, in seguito, durante la 
						guerra, appoggiò e incoraggiò le pulizie 
						etnico-religiose del poglavnik degli Ustascia Ante 
						Pavelić a tal punto da meritarsi l'appellativo di “boia 
						della Serbia”.
						
						
						Le raccomandazioni di Šarić gli valsero una cattedra di 
						Teologia a Zagabria ed è in questo periodo che, a detta 
						di molti storici, Draganović diventa un influente membro 
						degli ustascia (certamente non l'unico religioso ad 
						esserlo: basterebbe ricordare il francescano, poi 
						espulso dal suo Ordine, Miroslav Filipović, cappellano 
						del battaglione delle “guardie del corpo” di Pavelić, 
						protagonista delle conversioni forzate degli ortodossi e 
						responsabile del lager di Jasenovac, o la posizione di 
						gradimento verso il governo fantoccio ustascia a lungo 
						mantenuta dell'arcivescovo di Zagabria Stepinàc, che 
						solo a partire dal 1943 assunse un atteggiamento critico 
						verso i crimini di Pavelić, atteggiamento che, forse, 
						gli valse la discutibile e ampiamente discussa 
						beatificazione da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 
						1998). 
						
						Alcune fonti dell’OSS (i servizi informativi americani 
						durante la guerra) intervistate da Aarons e Loftus, 
						cercarono di chiarire l'ambigua posizione del frate 
						francescano, dichiarando che egli era, non 
						ufficialmente, il capo dei Servizi Segreti Vaticani in 
						Croazia e che, al contempo, collaborava con 
						l’Intelligence americana, francese e britannica. Di 
						fatto, comunque, Draganović era anche vicepresidente 
						dell'Ufficio per la Colonizzazione ustascia, cioè di 
						quell'ufficio che decideva quali serbi ed ebrei fossero 
						da destinare ai campi di lavoro o ai campi di sterminio.
						
						
						Nel 1943, due anni dopo l'invasione tedesca dei Balcani, 
						la grande svolta: in agosto Draganović ritorna a Roma e 
						diventa Segretario di Stato della “Confraternita Croata 
						di San Girolamo” nel monastero di San Gerolamo degli 
						Illirici. 
						
						 
						
						è da 
						questo monastero che, come ampiamente documentato dai 
						Servizi Segreti statunitensi, il frate bosniaco 
						organizzò tutte le operazioni della “ratline” croata: 
						grazie all'appoggio dell'arcivescovo Stepinàc, che gli 
						aveva procurato influenti contatti in Vaticano, 
						Draganović era intimo con le più alte cerchie vaticane 
						(dal Segretario di Stato Maglione a papa Pio XII), con i 
						diplomatici dell'Asse presso il Vaticano e con le 
						autorità italiane. In particolare, i suoi contatti erano 
						molto stretti con il vicesegretario di Stato Montini 
						(futuro papa Paolo VI, allora, secondo molti, 
						responsabile anche dei Servizi Segreti Vaticani), che lo 
						aiutò a ottenere l’accesso alla Commissione Papale per 
						l’Assistenza ai Profughi, cosicché, già nel 1944, la 
						ratline di San Gerolamo poteva considerarsi operativa 
						grazie alla gran quantità di documenti in bianco fornita 
						proprio dalla Commissione: nella maggioranza dei casi, 
						tali documenti andavano a profughi veri, ma, in alcuni 
						casi, fornirono la copertura diplomatica di cui 
						criminali di guerra quali il “boia di Lione” Klaus 
						Barbie, Vjekoslav Vrancic, il generale Kren, lo stesso 
						Pavelić e centinaia di SS croate, albanesi e 
						montenegrine si servirono per eludere la giustizia.
						
						 
						
						Attraverso i documenti vaticani, Draganović poteva 
						ottenere il visto d'ingresso in Argentina dal DAIE (Delegacion 
						Direcion Argentina de Immigracion Europea), per altro 
						diretta dall'ex ufficiale delle SS Carlos Fuldner e, con 
						l'accondiscendenza di Juan Peron, far sparire ogni 
						traccia dei suoi “protetti” in Sud America. 
						
						Tutta l'operazione non era, però, a titolo gratuito. 
						
						
						A quanto pare, Draganović (che tornò poi in Croazia, 
						dove morì nel 1983, probabilmente dopo essere stato 
						anche, dal 1967, spia dei Servizi di Tito) era solito 
						farsi consegnare dagli ex ustascia tutto l'oro e le 
						ricchezze che essi avevano trafugato agli ebrei e ai 
						serbi e che avevano portato con sé.
						
						
						Proprio questi beni, che molti sostengono siano finiti 
						nelle casseforti dello IOR, la Banca Vaticana, hanno 
						recentemente riportato agli onori della cronaca la 
						questione della ratline romana: il 15 novembre 1999, i 
						procuratori Tom Easton e Dr. Jonathan H. Levy di San 
						Francisco hanno aperto una “class action” contro la 
						Banca Vaticana e contro l'Ordine Francescano a nome dei 
						congiunti delle vittime del regime di Pavelić, che 
						vorrebbero la restituzione dei beni trafugati ai loro 
						cari e, secondo gli avvocati, ora trattenuti 
						illegalmente nelle casse pontificie. Sebbene la Corte 
						Distrettuale si sia dichiarata incompetente a procedere 
						contro lo IOR, il giudizio è passato direttamente alla 
						IX Corte d'Appello ed il processo è ancora in corso.
						
						
						Ma su che basi storiche è possibile sostenere che il 
						“tesoro degli Ustascia” sia finito in Vaticano?
						
						
						Come accennato, il referente vaticano diretto di 
						Draganović era il vescovo Montini, nella sua qualità di 
						incaricato degli “affari straordinari” della Segreteria 
						di Stato e, nel corso del processo è stato chiamato a 
						testimoniare l'ex agente del CIC di stanza a Roma 
						William Gowen, la cui deposizione, poi pubblicata dal 
						giornale israeliani Haaretz è stata: “Ho interrogato 
						personalmente Draganović, il quale mi ha detto di 
						dipendere direttamente da Montini”. L'ex agente ha, 
						inoltre, testimoniato che Montini, avvertito 
						dell'investigazione di Gowen dal capo dell'OSS romana 
						James Angleton, avrebbe accusato l'agente presso i suoi 
						superiori di indebite intromissioni negli affari della 
						Santa Sede e di violazione della immunità vaticana, onde 
						bloccare la sua attività. Infine, Gowen ha asserito, 
						senza ombra di dubbio, di aver potuto appurare che il 
						“tesoro degli Ustascia” era stato incamerato dalla Banca 
						Vaticana, che lo aveva utilizzato in parte per il 
						mantenimento della ratline e in parte per finanziare 
						attività religiose.
						
						Naturalmente, la testimonianza di un singolo agente può 
						avere un valore molto relativo, ma se il lavoro “sporco” 
						di un singolo prelato, come nel caso di Hudal avrebbe 
						potuto passare inosservato nell'incredibile opera 
						umanitaria svolta dalla Santa Sede nel periodo 
						post-bellico, certamente, qualora le accuse di Gowen 
						fossero provate, ben più difficile sarebbe poter pensare 
						che un tale passaggio di fondi attraverso lo IOR 
						avvenisse all'insaputa delle alte prelature e, forse, 
						del Papa stesso e comunque, con ogni probabilità almeno 
						il futuro Paolo VI ne avrebbe dovuto avere piena 
						conoscenza.
						
						
						Nel qual caso, l'unica spiegazione per un tale crimine 
						(perché, anche volendo includere l'attenuante del fine 
						umanitario, comunque, in tutte le legislazioni del 
						mondo, il favoreggiamento nei confronti di criminali 
						conclamati è un crimine) da parte delle gerarchie 
						vaticane risulterebbe ancora una volta essere il 
						tentativo di costruire un fronte di uomini di idee 
						chiaramente antibolsceviche per tentare di frenare 
						l'avanzata comunista verso occidente. 
						
						 
						
						Insomma, ancora una volta, il solito “i nemici dei miei 
						nemici sono miei amici” che, coinvolgendo anche, in 
						misura maggiore o minori, i servizi segreti delle 
						potenze vincitrici, segnò una dei picchi più bassi del 
						diritto internazionale.