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N. 121 - Gennaio 2018 (CLII)

con la mafia ai ferri corti
i ricordi e i risentimenti del Prefetto di ferro

di Gaetano Cellura

 

Era per Cesare Mori “una spugna che assorbiva e rendeva invisibili”. Vero paradiso per i briganti che nei suoi sotterranei trovavano sicuro rifugio. Così il Prefetto di ferro parla di Gangi nel suo libro di ricordi Con la mafia ai ferri corti.

 

Le abitazioni erano fornite di nascondigli dietro le spesse pareti e sotto i pavimenti, “nei sottoscala o nelle alte volte”. Un paese di gallerie sotterranee, alcune percorribili a cavallo; di cunicoli e camminamenti “scavati tra cavità naturali e artificiali attorno a tre strade maestre” che conducevano nelle viscere del monte Marone o in aperta campagna.

 

Mussolini vi fece una breve sosta che l’allora Commissario prefettizio del comune seppe ben onorare con la cittadinanza al Duce e con una targa sul luogo della sua fermata. E vi era scritto: “Benito Mussolini Primo Ministro della Nuova Italia. Nel suo giro di amorosa indagine per la Sicilia qui sostò il 6 maggio del 1924”.

 

La targa, che oggi non esiste più, era posta di fronte alla strada di accesso al paese. Il barone Li Destri aveva preparato un banchetto in suo onore, ma il Duce non varcò l’ingresso della città e proseguì il proprio viaggio. Era venuto per rendersi conto del dominio dei briganti e della mafia del feudo nelle Madonie e per porvi rimedio. Decise infatti di inviare in Sicilia il prefetto Mori con ampi poteri per sradicare il brigantaggio per il bene del fascismo e dell’isola.

 

Gangi venne efficacemente descritta da Mori come un’amena cittadina “nel pittoresco gruppo montuoso delle Madonie, bello come una Svizzera mediterranea” dove da più di trent’anni comandano i briganti delle bande Dino, Andeloro, Lisuzzu e del patriarca Gaetano Ferrarello.

 

Protetti dalla mafia, i briganti vivevano di estorsioni e di rapine e avevano potere su tutto: amministrazione della cosa pubblica, appalti, riscossione dei tributi, gabellotti cui affidare il controllo delle terre, pagamento del pizzo, restituzione della refurtiva; risolvevano controversie familiari su eredità e matrimoni.

 

Insomma, erano uno stato nello stato. La caratteristica di questo brigantaggio – scrive Mori – era stabile e non vagante. Dei sedicimila abitanti di Gangi 160 erano briganti, favoreggiatori tutti gli altri. E a ingrossarne le file arrivavano latitanti, delinquenti comuni e renitenti alla leva. Il labirinto sotterraneo in cui trovavano rifugio, costruito attraverso gli acquedotti realizzati dagli arabi, li rendeva imprendibili.

 

Il 3 dicembre del 1925, un mese prima dell’avvio dell’imponente operazione di polizia, Mori con un telegramma già annunciava a Mussolini le sue intenzioni: “Duce, è prossimo a totale rastrellamento il borgo di Gangi, e località resistenti limitrofe poiché pericolosissime e sedi di genti sovversive”. Il dominio dei briganti si estendeva sino alla province di Enna e, in parte, di Caltanissetta.

 

Proprio all’inizio del nuovo anno, il banditore di Gangi gira per le strade annunciando a rullo di tamburo: “Curriti, curriti, ascutati, ascutati, è u prefettu Mori che vi parra”; mentre sui muri viene affisso il bando con cui il prefetto intima a tutti i latitanti del territorio di costituirsi entro dodici ore, “decorse le quali sarà proceduto contro loro famiglie, possedimenti di qualsiasi genere, favoreggiatori sino a estreme conseguenze”.

 

Andato a vuoto l’ultimatum, il paese venne circondato, isolato e setacciato in ogni angolo da Reali Carabinieri, poliziotti, milizia armata, squadre a cavallo: dieci giorni di repressione il cui risultato fu l’arresto di quattrocento malviventi tra briganti, favoreggiatori e mafiosi, di cui alcuni spediti al confino. Ma mancava all’appello, protetto dalla straordinaria rete di nascondigli, dalla “spugna” che assorbe e rende invisibili, Gaetano Ferrarello. Contro cui Cesare Mori – si dice – abbia agito d’astuzia sfidandolo a un pubblico duello. Solo allora il patriarca delle Madonie esce dal proprio nascondiglio e si consegna, dopo trentacinque anni di latitanza, al sindaco Sgadiri secondo alcuni, al barone Li Destri secondo altri.

 

Inutile dire che non vi fu alcun duello e che Mori abbia voluto pungerlo nell’orgoglio di capo. Ferrarello disse di essersi consegnato solo per il bene degli abitanti di Gangi ai quali persino l’acqua era stata tagliata.

 

C’è chi dice che il suo nascondiglio si trovava nel sottotetto abbandonato della palazzina che ospitava la caserma dei carabinieri. Per tanto tempo Ferrarello aveva raggirato chi gli dava la caccia, ma alla fine era stato lui a essere raggirato dalla sfida a duello lanciatagli da Mori. Ritenne compromesso il suo “onore” e dunque finita la sua vita. Condotto in carcere, eluse la sorveglianza e si suicidò gettandosi nella tromba delle scale.

 

Al processo di Termini Imerese contro i briganti delle Madonie 148 furono gli imputati condannati il 10 gennaio del 1928.

 

Benché sia stato fermato prima di dedicarsi ai mafiosi di Palermo, il prefetto Mori si vantò a lungo di questa sua parziale impresa e dei metodi messi in campo. Disse al diplomatico americano Washburn d’aver adoperato una tattica che non mirava alla violenza e alle ingiurie, ma a colpire i malviventi nell’onore dando alle popolazioni “la tangibile prova della loro viltà”. Per questo aveva ordinato ai suoi uomini di dormire e mangiare nelle loro case, uccidere il loro bestiame vendendone “la carne ai contadini della zona a prezzo ridotto”.

 

Storia o leggenda, un’altra abile astuzia fu quella del commissario Spanò, che seppe servirsi del brigante Onofrio Lisuzzu entrato in contrasto con le altre bande. Gli chiese di condurlo nel nascondiglio dei Dino e gli diede dell’oppio da versare nella minestra dei briganti. “Li prenderemo nel sonno, – gli disse – senza sparatorie e spargimento di sangue”. E così fu.

 

Tra i mafiosi inviati al confino da Cesare Mori c’era don Calò Vizzini di Villalba. Fu mandato a Chianciano, ma da lì continuò a occuparsi dei suoi affari nell’isola. Dall’America Frank Costello l’aveva da poco nominato capo della mafia siciliana dopo l’arresto di Vito Cascioferro.

 

Con la mafia ai ferri corti fu pubblicato da Mondadori nel 1932 e sessant’anni dopo dall’editore napoletano Flavio Pagano. Mondadori lo pubblicò con molta prudenza e senza darvi grande pubblicità per non dispiacere al regime che già aveva chiesto il ritiro delle prime copie.

 

In effetti dal libro emerge più di un risentimento da parte di Cesare Mori che avrebbe voluto continuare la sua opera repressiva in Sicilia colpendo anche i complici politici della mafia. E volentieri avrebbe fatto a meno dal ricevere il telegramma che lo nominava senatore.

 

Ma al fascismo quanto era stato fatto bastava. Aveva interesse a diffondere di sé l’immagine propagandistica di restauratore dell’ordine pubblico nei territori dominati dalla malavita. E a non andare oltre.



 

 

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