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FILOSOFIA & RELIGIONE


N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

Eunuchi per il Regno di Dio?
le basi storiche del celibato ecclesiastico

di di Lawrence M.F. Sudbury

 

Al di là dello scalpore suscitato qualche tempo fa dalla notissima vicenda di Emmanuel Milingo, ex Arcivescovo di Lusaka, il celibato ecclesiastico è una di quelle questioni che sembrano essere da sempre dibattute sia all'interno che all'esterno della Chiesa e che, periodicamente, si ripropongono all'attenzione degli osservatori di tutto il mondo.


Leggiamo, ad esempio, quanto titola, qualche mese fa, El Pais: “I sacerdoti brasiliani hanno deciso di inviare una petizione al Vaticano per chiedere una revisione della legge canonica che li obbliga al celibato”. L'articolo che segue si riferisce alla decisione contenuta nel documento finale del dodicesimo “Incontro nazionale dei sacerdoti”, di chiedere alla Congregazione per il Clero, presieduta proprio dal cardinale brasiliano Claudio Hummes, ex arcivescovo di San Paolo, che vi siano due tipi di sacerdozio: uno celibatario, per chi prende i voti di castità in ordini e congregazioni religiose, e uno senza obbligo di celibato, riservato a persone sposate dai vescovi perché ritenute degne (una misura quest’ultima che, secondo il sinodo, aiuterebbe anche a reintegrare nella Chiesa i preti “spretati” per essersi uniti in matrimonio).


Si tratta, in realtà, solo dell'ultimo anello di una lunga catena di dispute e richieste relative a questa questione secolare che si è fatta sempre più centrale negli ultimi cinquant'anni: non è forse un caso che i venti anni successivi al Vaticano II abbiano registrato il più alto numero di abbandoni dell’esercizio del sacerdozio nella storia della Chiesa e che la grande maggioranza di coloro che hanno preso questa decisione si siano poi sposati, che avessero o no ottenute le dispense canoniche (siamo nel periodo in cui in particolare i “teologi olandesi” chiedevano a gran voce la soppressione del divieto matrimoniale per gli uomini di Chiesa) e che quest'esodo, accompagnato da una sempre più evidente mancanza di vocazioni, sia perdurato, seppure in misura minore e più sotterranea, fino ad oggi.

 

C’erano stati altri esodi di massa, ma con caratteristiche e motivazioni diverse: le conseguenze della Riforma protestante nel XVI secolo e la Rivoluzione francese tra XVIII e XIX secolo. Anche allora, comunque, il celibato legato necessariamente al sacerdozio era stato respinto, in quanto giudicato non come una conseguenza della prospettiva evangelica, ma come semplice prodotto di una decisione ecclesiastica, per giunta tardiva e limitata all’Occidente.

Su queste basi nasce la necessità, per lo storico, di indagare obiettivamente, sulle radici di una tra le regole ecclesiastiche più dure imposte dal Cattolicesimo (a differenza di ogni altra diramazione della fede cristiana) a chi si vota alla sequela di Cristo.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che: “Tutti i ministri ordinati della Chiesa latina, ad eccezione dei diaconi permanenti, sono normalmente scelti fra gli uomini credenti che vivono da celibi e che intendono conservare il celibato 'per il Regno dei cieli' (Mt 19,12). Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle 'sue cose', essi si donano interamente a Dio e agli uomini. Il celibato è un segno di questa vita nuova al cui servizio il ministro della Chiesa viene consacrato; abbracciato con cuore gioioso, esso annuncia in modo radioso il Regno di Dio”.


Innanzitutto, va subito chiarito che la concezione cattolica del celibato ecclesiastico si inserisce nel più ampio concetto di continenza, da osservare non solo non sposandosi, ma anche non usando del matrimonio se già sposati: nella Chiesa antica, la grande maggioranza del clero era composta di uomini maturi che, col consenso della moglie, accedevano agli Ordini sacri, lasciando la famiglia, alla quale provvedeva poi la comunità stessa. E questo si inquadrava nell'insegnamento in cui Gesù promette “il centuplo su questa terra e nell’aldilà la vita eterna” a coloro che, per amor suo e del Regno, “hanno abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie, figli”. Tutto ciò rende ancora più complesso comprendere le motivazioni di una imposizione che, ai più, appare a dir poco contro-natura.

Le motivazioni normalmente addotte dalle gerarchie ecclesiastiche per il mantenimento del divieto matrimoniale per i sacerdoti sono riconducibili a tre grandi famiglie: per un motivo cristologico, per un motivo ecclesiologico, per un motivo escatologico.


Il motivo cristologico attiene al fatto che il sacerdote è un “alter Christus” (un altro Cristo) e celebra “in persona Christi” (nella persona di Cristo). Dal momento che Gesù scelse per sé il celibato, ecco dunque che il sacerdote deve vivere il celibato.


Il motivo ecclesiologico è invece relativo all’impegno del sacerdote. Questi non è un impiegato che può e deve mettersi a disposizione secondo orario, ma un vero e proprio “padre” che deve sempre essere a disposizione delle anime che ha in cura. Se è così, come è possibile coniugare bene la vita familiare (che richiede una disponibilità totale) con quella sacerdotale (che richiede ugualmente una disponibilità totale)?


Il motivo escatologico riguarda ciò che deve rappresentare la vita sacerdotale. Anche i sacerdoti secolari (seppur in maniera minore dei religiosi) sono, infatti, chiamati a prefigurare quella che sarà la vita del Paradiso.

Dal punto di vista storico, non è neppure pensabile entrare nel merito degli ultimi due motivi, che pertengono unicamente al campo socio-teologico, ma è, però, opportuno esaminare un po' più a fondo la prima motivazione.


Che prove abbiamo del celibato di Cristo? Se analizziamo criticamente le informazioni in nostro possesso, possiamo tranquillamente affermare di non avere alcuna certezza in questo senso.


I Vangeli canonici non fanno alcuna menzione di una sposa di Gesù e tutte le chiese cristiane d'ogni tempo, Chiesa cattolica, Chiesa ortodossa, e la maggioranza delle Chiese evangeliche credono fermamente che egli sia vissuto celibe per tutta la vita.


La tesi di fondo dei “matrimonialisti” è che ciò fosse impossibile per un ebreo del I secolo, dal momento che, con il celibato, si sarebbe contravvenuto alla prima Mitzvah della Bibbia:


“Dio li benedisse e disse loro:


« Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra ».”


In particolare ciò sarebbe stato impensabile per un Rabbi o Maestro, come Gesù è chiamato nei Vangeli in alcune circostanze: la Legge, infatti, prescriveva (e prescrive) che nessuno potesse insegnare senza avere una famiglia.


Sono dati sicuramente reali, ma non così probanti come da parte di alcuni studiosi si vuol far credere.

 

Va infatti osservato che:

 

- il celibato non era unanimemente condannato. Alcuni degli antichi profeti, come Geremia, non erano sposati (“Non prendere moglie, non aver figli né figlie in questo luogo”), il Battista non era sposato, l'ebreo Saulo di Tarso (S. Paolo) arriva addirittura ad elogiare la condizione celibataria e Rabbi Simeone Ben Azzai, quasi contemporaneo di Gesù, giustificava il suo celibato in questo modo: “La mia anima è innamorata della Torah. Altri penseranno a far andare avanti il mondo”. La letteratura rabbinica, inoltre, accosta spesso il tema della continenza con quello dell'esercizio della profezia; per questo Mosè aveva deciso di non abitare più con la moglie, dopo aver ricevuto la chiamata da parte di Dio;

 

- il gruppo degli Esseni, contemporaneo alla predicazione di Gesù, onorava e spesso osservava rigorosamente il celibato. Plinio il Vecchio descrive gli abitanti di Qumran come un popolo che “non ha alcuna donna e ha rinunciato all'amore [...] un popolo eterno nel quale nessuno nasce”. Giuseppe Flavio afferma che “presso di loro il matrimonio è in dispregio”, anche se questo non significa che essi condannassero in assoluto il matrimonio altrui: essi infatti “non aboliscono il matrimonio e la discendenza che ne deriva”. Anche Filone di Alessandria conferma che “nessuno tra gli Esseni prende moglie”, estendendo questa abitudine anche alle vergini dei Terapeuti che risiedevano nei pressi di Alessandria;

 

- non si può sostenere che Gesù, in quanto “rabbi”, doveva “per forza” essere sposato. In quanto “rabbi” Gesù non rispettava il sabato, né le regole della purezza rituale, né i riti religiosi, né il primato del Tempio e tante altre cose. Inoltre, lo scopo principale della sua vita era portare a compimento una missione, a cui gli aspetti personali tradizionali finivano necessariamente in subordine .


Anche che i Vangeli Canonici non parlino esplicitamente né del celibato né di un matrimonio di Gesù può essere interpretato in modo opposto. Da un lato infatti se Gesù fosse stato sposato gli evangelisti non avrebbero avuto nessun motivo per tacere la presenza di una moglie e appare dunque strana l'assenza di ogni riferimento. D'altro canto il suo celibato, trattandosi di una situazione non comune, avrebbe dovuto essere menzionato e spiegato, sebbene questa spiegazione manchi anche nel caso di san Giovanni Battista o di san Paolo.


Moralmente, poi, alle affermazioni di diversi autori cristiani che, prendendo spunto da allusioni metafisiche, sostengono che la vera sposa di Cristo è la Chiesa, si potrebbe contrapporre l'idea che Gesù, avendo condiviso tutto della natura umana, avrebbe inevitabilmente dovuto condividere anche l'amore per una donna...


Insomma, sussistendo possibilità logiche e storiche sia che Gesù fosse sposato, sia che non lo fosse, qualunque affermazione in proposito appare unicamente arbitraria: così come affermare scandalisticamente che il Cristo avesse moglie (magari, secondo teorie più e meno recenti, la Maddalena) ha poco senso, allo stesso modo anche sostenere il contrario significa essere mossi più da istanze fideistiche che da certezze oggettive, su cui fondare addirittura una regola di vita.

Dal punto di vista storico, inoltre, è possibile tentare di ricostruire, al di là dell'assunto cristologico in senso stretto, le motivazioni di sviluppo della norma celibataria.


Sostanzialmente, ogni norma ecclesiastica si fonda su due grandi pilasti: l'enunciato scritturale e la traditio fidei.


Per quanto riguarda il secondo pilastro, nonostante alcuni affermino che di continenza clericale, estesa chiaramente alla Chiesa universale, si possa parlare soltanto dal 1139, con una disposizione del II Concilio Lateranense (che, però, stabilì solamente che i matrimoni contratti da vescovi, sacerdoti, diaconi, come anche quelli di coloro che avevano emesso voti per la vita religiosa, non fossero più solamente illeciti ma anche invalidi), in realtà sussistono pochi dubbi che la condizione celibataria sacerdotale sia presente almeno dal IV secolo.


Il XXXIII canone del Sinodo di Elvira (presso Granada), tenutosi intorno al 300 d.C., infatti, dichiara esplicitamente che “È parsa cosa buona vietare in senso assoluto ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi, come pure a tutti i chierici impegnati nel ministero di avere relazioni (coniugali) con la propria moglie e di generare figli: se qualcuno lo fa, che sia escluso dallo stato clericale”.


Trattandosi di una regola sinodale, potremmo pensare che la proibizione avesse carattere unicamente locale, ma già nel 325, a Nicea, nel primo Concilio Ecumenico della storia, viene stabilito, come espresso dal III canone disciplinare, che: “Il Concilio allargato ha vietato assolutamente ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi ed a tutti i membri del clero di tenere con sé una donna 'co-introdotta', a meno che non si tratti della madre, di una sorella, di una zia o comunque di una persona superiore ad ogni sospetto” ed è interessante notare che il testo non menziona le spose tra le donne che i chierici possono ospitare nelle proprie case, il che potrebbe essere indicativo della pre-esistenza di una consuetudine celibataria non formalizzata per il clero.


D'altra parte però, secondo lo storico greco Socrate, un curioso episodio si sarebbe verificato proprio durante il concilio di Nicea. Il sinodo avrebbe voluto vietare ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi di avere delle relazioni con le loro spose; su tale argomento un certo Pafnuzio, vescovo dell'Alta Tebaide, sarebbe intervenuto ed avrebbe dissuaso l'assemblea dal votare una legge simile, nuova - assicurò - e che avrebbe fatto torto alla Chiesa.


Va, comunque, notato che oggi questa storia è da molti considerata un falso dal momento che:
Socrate, che scrive la sua Storia Ecclesiastica nel 440, più di un secolo dopo il concilio di Nicea, non cita la sua fonte;
per il periodo che va dal 325 al 440 non si trova in tutta la letteratura patristica alcuna allusione ad un intervento di Pafnuzio;
il nome di Pafnuzio non figura, come sostiene Winckelmann, tra i vescovi firmatari del Concilio di Nicea;
il racconto figura per la prima volta in una cronaca di Matteo Blastares, addirittura del XIV secolo.


Sta di fatto che il III canone del primo concilio ecumenico, costituì la regola fondamentale che servì da modello ai concili locali ed ecumenici successivi nelle disposizioni da essi adottate, fino al sigillo conclusivo sul celibato ecclesiastico rappresentato dalla presa di posizione anti-riformistica del concilio di Trento, nel XVI secolo.

Certamente, anche volendo ritenere valida l'interpretazione di molti studiosi cattolici su un divieto che si sviluppa a partire dal IV secolo (se non, come vedremo, anche prima, è quantomeno sorprendente come tale norma venisse ben poco recepita in ambito ecclesiastico.


Nei primi secoli della Chiesa, si trovano, infatti, numerosissimi vescovi, presbiteri e diaconi sposati e con figli. Sembra che le comunità cristiane dell'epoca, che vivevano intensamente del ricordo degli apostoli, considerassero effettivamente un fatto normale l'ammissione al ministero sacerdotale di uomini sposati, in omaggio alla santità del matrimonio ed allo stesso tempo alla scelta del Signore che aveva chiamato Pietro e, forse, altri uomini sposati a lasciare tutto per seguirlo. Numerosi documenti pubblici e testi patristici attestano molto evidentemente l'esistenza di questi chierici monogami: per quanto riguarda i primi sette secoli, almeno duecentotrenta nomi di vescovi, presbiteri e diaconi sposati figurano da varie fonti.

 

Tra di loro spiccano molti personaggi illustri: il vescovo Antonio, di una Diocesi suburbicaria di Roma, che fu padre del Papa Damaso (366-384); il presbitero Giocondo, padre di Bonifacio I (416-419); il sacerdote Felice, padre di Felice III (483-492); il sacerdote Pietro, padre di Anastasio II (496-498); il sacerdote Giordano, padre di Agapito I (535-536); il Suddiacono Stefano, padre di Adeodato I (615-618) e il Vescovo Teodoro, originario di Gerusalemme, padre di Teodoro I (642-649). Papa Ormisda, nel VI secolo, ebbe per successore il proprio figlio Silverio (536-538) e San Gregorio Magno ci informa che il suo trisavolo era Felice III, a sua volta figlio di un sacerdote. E possiamo citare ancora alcuni dei nomi più illustri della chiesa antica: Demetrio, Patriarca di Alessandria (il Vescovo di Origene); Gregorio l'illuminatore, primo "catholicos" armeno, e i suoi successori della dinastia gregoridea: i "catholicos" Verthanès, Nersès il Grande e Sahaq il Grande; Gregorio di Nissa; Gregorio di Nazianzo, detto l'Anziano; Sinesio di Cirene; Ilario di Poitiers; Paciano di Barcellona; Severo di Ravenna; Vittore di Numidia; Eucherio di Lione; Giuliano da Eclano; Sidoino Apollinare, vescovo di Clennont e molti altri.

In questo quadro, per altro un po' contraddittorio, due sono le domande che dobbiamo porci:


Possiamo pensare all'esistenza di una norma celibataria precedente al sinodo di Elvira e al concilio di Nicea?


Come dobbiamo intendere la condizione dei numerosi preti uxorati citati?


Per quanto riguarda il primo punto, all'interno del cattolicesimo la posizione è piuttosto definita. Osserva il cardinale Stickler: “Non è possibile vedere in questo canone una legge nuova. Essa appare invece chiaramente quale reazione contro l’inosservanza di un obbligo tradizionale ben noto, al quale si annette ora anche la sanzione: o osservanza dell’impegno assunto della rinuncia alla famiglia o rinuncia all’ufficio clericale.

 

Una novità in simile materia, con per giunta una tale retroattività della sanzione contro diritti già acquisiti, avrebbe causato una tempesta di proteste contro una tale evidente violazione di un diritto in un mondo, come quello romano, tutt’altro che digiuno di diritto. Ciò ha percepito chiaramente già Pio XI quando, nella sua enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente”.

 

Secondo questa tesi, dunque, ad Elvira non si fece che ribadire quanto già da tempo immemorabile si praticava, seguendo la tradizione.
Ciò sarebbe comprovato dal fatto che, notoriamente, lo jus, il diritto – il sistema giuridico di un popolo o di un gruppo, sistema basato anche su norme orali e su consuetudini, solo lentamente, magari dopo molti secoli, diventa un sistema di leggi scritte, cioè lex e quindi, la lex del sinodo di Elvira doveva presupporre uno jus precedente.


Infine, che non si trattasse affatto di innovazione sarebbe dimostrato dagli atti di molti altri sinodi o concili, come quello africano, tenuto a Cartagine nel 390 in piena comunione con tutte le altre Chiese locali, dove si approvò all’unanimità la seguente dichiarazione: “Conviene che tutti coloro che servono ai divini sacramenti (vescovi, sacerdoti, diaconi) siano continenti in tutto, affinché custodiscano ciò che hanno insegnato gli apostoli e ciò che tutto il passato ha conservato”, che si riferirebbe esplicitamente a una tradizione indiscussa, che viene semplicemente confermata e che si fa risalire addirittura all’epoca apostolica e poi a una prassi ininterrotta.

In realtà, queste posizioni sono piuttosto discutibili. Se, infatti, la norma di Elvira fosse stata unicamente una reazione all'inosservanza da parte di alcuni di una regola universalmente riconosciuta anche se non formalizzata, viene naturale chiedersi la ragione per cui alcuni “inosservanti”, invece che essere puniti, isolati o, addirittura esclusi dalla Chiesa, ne vengano eletti capi assoluti, papi.

 

Quanto alla questione del divario temporale tra jus e lex, è ben difficile, anzi, impossibile quantificare tale divario, essendo il numero delle variabili che possono intervenire pressoché infinite e, dunque, potremmo tranquillamente pensare ad una norma già informalmente in vigore da secoli, così come ad una norma stabilita o diffusasi pochi anni prima, tra l'altro, molto possibilmente, derivata da infiltrazioni gnostiche (la gnosi distingueva tra spirito puro e materia impura).

 

Infine, non ha un gran senso parlare di una tradizione che si radica con i sinodi successivi per la sua antichità, quando un sinodo fondamentale come quello della Chiesa iberica e un concilio ecumenico avevano dato una tale forza alla regola, da renderla pressoché intangibile da decisioni successive.

Il vero snodo, allora, riguarda la seconda domanda. Tenendo conto che effettivamente era prassi consolidata che l'ordinazione sacerdotale avvenisse in età matura e dell'abitudine di matrimoni molto precoci, è certamente sostenibile che i preti sposati fossero tali in quanto ordinati ben dopo il matrimonio (nessuna legge lo vietava prima del V secolo) ed è possibile che, dopo l'ordinazione, tali presbiteri si dessero alla continenza perfetta.

 

è certamente vero, come affermato dal cardinal Stickler, che non è possibile affermare che alcun ecclesiastico sia mai vissuto maritalmente dopo l'ordinazione, ma, allo stesso modo, non è possibile neppure provare il contrario e, anzi, apparirebbe a dir poco strano che tutte le paternità riportate dai testi siano avvenute prima dell'ordinazione.

Resta ancora da capire su che basi, comunque, una tale norma che, come visto non può essere provata come precedente al IV secolo, venga introdotta.


Tendenzialmente, tutte le leggi ecclesiastiche e soprattutto ogni elemento della Traditio dovrebbe avere una base scritturale. Ebbene, che cosa dicono i Vangeli riguardo alla condizione celibataria?


Gli assertori del celibato ecclesiastico citano tre passi in particolare:


- “Pietro allora disse: «Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito».
Ed egli rispose: «In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà»” (Lc. 18:28-30);


- “Gli dissero i discepoli: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». Egli rispose loro: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca»” (Mt. 19:10-12);


- “Quanto poi alle cose di cui mi avete scritto, è cosa buona per l'uomo non toccare donna; tuttavia, per il pericolo dell'incontinenza, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito. La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera, e poi ritornate a stare insieme, perché satana non vi tenti nei momenti di passione. Questo però vi dico per concessione, non per comando. Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere. Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie” (I Cor. 7:1-11)


Il primo brano starebbe a dimostrare che la sequela comporta l'abbandono di ogni cosa, inclusa la propria moglie ed è considerato il caposaldo del celibato ecclesiastico.


Il problema è, però, che potrebbe trattarsi di una delle frequenti iperbole utilizzate dal Cristo (si pensi all'occhio che dà scandalo e deve essere estirpato...) e, soprattutto, che si pone in netta contraddizione con due altri passi evangelici:


- “Entrato Gesù nella casa di Pietro, vide la suocera di lui che giaceva a letto con la febbre” (Mt. 8:14);


- “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” (I Cor. 9:5)


Se, per quanto riguarda il primo versetto, potremmo tranquillamente pensare ad un Pietro che, una volta chiamato, abbandona la propria casa e la propria moglie, ma, ovviamente, continua ad avere una suocera, il secondo versetto non lascia nessun dubbio sul fatto che gran parte degli apostoli e dei discepoli fossero sposati e, tenendo conto della assoluta mancanza di sessuofobia all'interno dell'istituzione matrimoniale della cultura ebraica, difficilmente possiamo pensare a qualcosa di diverso da un normalissimo matrimonio.


Per quanto riguarda il secondo brano, per altro piuttosto misterioso, ciò che risulta più evidente non è il rifiuto del matrimonio per chi voglia dedicarsi a Dio, quanto, piuttosto, una assoluta libertà di scelta e, tenendo conto della legge del rabbinato che, come detto, imponeva ai “religiosi” di avere una famiglia, ciò che si può desumere è, unicamente, che Gesù sostiene la possibilità (e non la necessità) di seguire e diffondere i suoi insegnamenti anche per chi decida di vivere in perfetta castità.


Infine, il terzo brano ripete, con parole diverse il concetto precedente: Paolo ha deciso di votarsi alla perfetta castità e incita alla continenza, ma ammette che altri possano avere esigenze differenti e, soprattutto (e si arriva qui alla palese negazione della possibilità che i consacrati dopo il matrimonio possano lasciare le proprie mogli), parla di continenza temporanea e di legame matrimoniale fondamentalmente indissolubile.

D'altra parte, una posizione differente darebbe risultata completamente contraddittoria, sia nei confronti dello status quo, sia se paragonata ad altri passaggi paolini.


Per quanto riguarda la situazione reale, gli Atti chiariscono senza mezzi termini che molti alti esponenti del clero proto-cristiano erano tranquillamente sposati. Si pensi, ad esempio, ai due brani seguenti:


- “Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava” (Atti 18:2-3);


- “Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarèa; ed entrati nella casa dell'evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia” (Atti 21:8-9).

Ma, soprattutto, due altre Lettere paoline chiariscono in forma piuttosto lampante il pensiero della Chiesa dei primi anni in materia: 1 Timoteo e Tito.


In 1 Timoteo, infatti, troviamo: “Ma lo Spirito dice esplicitamente che nei tempi futuri alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demòni, sviati dall'ipocrisia di uomini bugiardi, segnati da un marchio nella propria coscienza. Essi vieteranno il matrimonio e ordineranno di astenersi da cibi che Dio ha creati perché quelli che credono e hanno ben conosciuto la verità ne usino con rendimento di grazie. Infatti tutto quel che Dio ha creato è buono; e nulla è da respingere, se usato con rendimento di grazie; perché è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera” (1 Tim. 4:1-5).
Dunque, il matrimonio, in quanto voluto da Dio, è cosa buona. Perché, allora, i consacrati dovrebbero negarne la validità e soprattutto privarsene?


Per altro, nel capitolo precedente, nelle istruzioni per la nomina di un vescovo, Paolo è ancora più chiaro: “Certa è quest'affermazione: se uno aspira all'incarico di vescovo, desidera un'attività lodevole. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino né violento, ma sia mite, non litigioso, non attaccato al denaro, che governi bene la propria famiglia e tenga i figli sottomessi e pienamente rispettosi (perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?), che non sia convertito di recente, affinché non diventi presuntuoso e cada nella condanna inflitta al diavolo. Bisogna inoltre che abbia una buona testimonianza da quelli di fuori, perché non cada in discredito e nel laccio del diavolo” (1 Tim. 3:1-7). Al di là di alcuni tentativi (francamente piuttosto goffi) di certi esegeti ultra-cattolici di manipolare queste affermazioni, la possibilità per un vescovo di sposarsi risulta completamente palese.


Se ciò non bastasse, in Tito troviamo: “Per questa ragione ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine nelle cose che rimangono da fare, e costituisca degli anziani in ogni città, secondo le mie istruzioni, quando si trovi chi sia irreprensibile, marito di una sola moglie, che abbia figli fedeli, che non siano accusati di dissolutezza né insubordinati. Infatti bisogna che il vescovo sia irreprensibile, come amministratore di Dio; non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, temperante, attaccato alla parola sicura, così come è stata insegnata, per essere in grado di esortare secondo la sana dottrina e di convincere quelli che contraddicono” (Tito 1:5-9), che non fa che ribadire lo stesso concetto espresso nel passaggio precedente.

Cosa dire, dunque, a conclusione di questa breve carrellata storica?


In primo luogo, possiamo affermare che molto difficilmente è possibile trovare, oggettivamente, un fondamento biblico alla norma celibataria.


In secondo luogo, che altrettanto difficilmente è possibile sostenere con certezza che tale norma, per quanto non formalizzata fosse già diffusa da tempo al momento della sua statuizione legale.


In terzo luogo, che, comunque, l'idea celibataria fa parte della Traditio ed è radicata in essa dai tempi di papa Siricio e via via lungo il pensiero di un numero enorme di pensatori e papi (da da Girolamo a Agostino, a Pelagio II, da Leone IX a Gregorio VII, da Urbano II a Tommaso, via via fino a Paolo IV, che ribadì solennemente la regola nella enciclica Sacerdotalis Caelibatus, e a Giovanni Paolo II).


Il dubbio che permane è se questa continua riaffermazione non sia dovuta a un ininterrotto ossequio proprio alla Traditio Fidei che potrebbe aver perpetuato una norma nata più che da fondamenti teologici e scritturali, da una determinata visione della donna di una epoca ormai molto lontana e da una sottolineatura persino eccessiva della necessità della continenza, che arriva a sfiorare i limiti della sessuofobia.

Ma, prima di rispondere a questa domanda, lo storico deve fermarsi, per lasciare spazio a dibattiti teologici che, come accennato in precedenza, non gli devono competere.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

AA. VV., Catechismo della Chiesa Cattolica, Editrice Vaticana 2002.
F. Cardini, Processi alla Chiesa, Piemme 1994.
R. Cholij, Clerical Celibacy in East and West, Leominster 1989.
G. Concetti, Il prete per gli Uomini d’Oggi, Ave 1975.
C. Cochini, Origines Apostoliques du Célibat Sacerdotal, Ed. Lethielleux 1981.
F. Liotta, La continenza dei Chierici nel Pensiero Canonistico Classico (da Graziano a Gregorio IX), Quaderni di Studi Senesi, 24, Giuffrè 1971.
SS. Paolo IV, Sacerdotalis Caelibatus, Ed. Paoline 1967.

A.M. Stickler, Il Celibato Ecclesiastico, la Sua Storia e i Suoi Fondamenti Teologici, Libreria Editrice Vaticana 1994.



 

 

 

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