N. 95 - Novembre 2015
(CXXVI)
New York Times Co. v. Sullivan
A proposito libertà di espressione del pensiero
di Cristian Usai
Il 9 marzo 1964 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America emanò la sentenza riguardante il caso Sullivan vs. The New York Times Co. Il caso Sullivan segnò il passaggio forse più importante della lotta per la libertà di espressione del pensiero negli USA.
Antefatti
Negli
USA
degli
anni
1960,
vigeva
la
segregazione
raziale.
I
neri
non
erano
titolari
dei
medesimi
diritti
dei
bianchi.
In
quegli
anni
accadevano
sovente
episodi
in
cui
ai
neri
veniva
rifiutata
la
colazione
nei
locali
riservati
ai
bianchi,
veniva
impedito
di
sedersi
sugli
autobus
nei
posti
riservati
ai
bianchi
e
così
via.
Alcuni
cittadini
di
colore
si
ribellavano
a
tali
ingiustizie
pacificamente,
per
esempio
rifiutandosi
di
uscire
dai
locali
ove
gli
era
precluso
consumare
alimenti,
ecc;
tuttavia,
nella
maggior
parte
dei
casi,
subivano
passivamente
le
prevaricazioni
dei
bianchi.
Il
reverendo.
Martin
Luther
King
prese
platealmente
le
difese
di
coloro
che
serenamente
lottavano
contro
le
“leggi”
degli
stati
in
nome
della
Legge
concepita
come
principio
supremo.
Furono
organizzati
svariati
sitin
di
protesta
in
molti
stati
del
sud,
fra
i
quali
uno
presso
gli
scalini
del
municipio
di
Montgomery
in
Alabama.
Fu
proprio
in
Alabama
che
King
venne
accusato
del
controverso
reato
di
“dichiarazione
fiscale
infedele”,
probabilmente
come
rappresaglia
ad
opera
della
polizia
cittadina.
Un
comitato
nato
a
supporto
del
reverendo
King,
acquistò
una
pagina
del
numero
del
29
marzo
1960
del
The
New
York
Times
(NYT)
pubblicandovi
a
proprie
spese
un
pezzo
in
cui
veniva
narrato,
invero
con
fatti
inventati
come
corollario,
ciò
che
accadeva
e
denunziando
le
persecuzioni
dei
«southern
violators».
Il
pubblico
ufficiale
a
capo
di
quell’operazione
di
polizia
a
Montgomery,
L.
B.
Sullivan
(non
direttamente
menzionato
nel
pezzo
in
questione),
citò
il
New
York
Times
per
diffamazione.
Ebbe
così
inizio
il
caso
Sullivan.
Le
ragioni
della
sentenza
Il
caso
giunse
alla
Corte
Suprema
dell’Alabama
che
diede
ragione
a
Sullivan,
in
seguito
fu
portato
dinanzi
alla
Corte
Suprema
degli
Stati
Uniti,
la
quale
ribaltò
la
sentenza
di
livello
statale.
La
sentenza
della
Corte
Suprema
federale
affermò
che,
a
differenza
di
quanto
avveniva
per
i
casi
di
diffamazione
fra
privati,
i
pubblici
ufficiali
potevano
perseguire
legalmente
per
diffamazione
un
privato
cittadino
solo
se
questi
avesse
diffamato
la
loro
persona,
giammai
le
agenzie
di
cui
erano
responsabili.
Il
giudice
Powell
della
Corte
Suprema
ebbe
a
dire,
«affermazioni
false
in
merito
a
determinati
fatti
sono
protette
[dal
Primo
Emendamento]
in
quanto
l’errore
è
inevitabile
in
un
dibattito
libero
e la
punizione
dell’errore
potrebbe
portare
a
un’intollerabile
autocensura».
Il
redattore
del
parere
della
maggioranza
dei
giudici
della
Suprema
Corte
statunitense,
il
giudice
Brennan,
affermò
: «l’affermazione
erronea
è
inevitabile
nel
dibattito
pubblico
e
deve
essere
protetta
se
vogliamo
che
la
libertà
di
espressione
abbia
quello
spazio
vitale
[breathing
space]
di
cui
ha
bisogno
per
sopravvivere».
Finalmente,
il
giudice
Learned
Hand,
rammentò:
«[il
Primo
Emendamento]
presuppone
che
alle
conclusioni
vere
è
più
probabile
arrivarci
attraverso
una
moltitudine
di
lingue
che
attraverso
una
selezione
da
parte
dell’autorità.
Per
molti
questo
è, e
sarà
sempre,
una
follia;
ma
noi
abbiamo
basato
tutto
su
questo».
Epilogo
In
un
paese
come
l’Italia,
dove
a
causa
di
retaggi
del
passato,
la
libertà
di
espressione
è
fortemente
limitata,
paradossalmente,
i
principi
che
guidarono
i
giudici
della
Corte
Suprema
degli
Stati
Uniti
nella
sentenza
del
Caso
Sullivan,
sarebbero
difficilmente
compresi.
Si
farebbe
cioè
fatica
a
capire
che
solo
un’azione
può
essere
illegittima,
non
l’espressione
di
un
pensiero.
Ad
esempio,
nel
caso
Calabresi,
ad
essere
illegittimo
fu
l’omicidio
del
commissario,
non
la
diffamazione
che
lo
precedette.
Stessa
cosa
dicasi
per
i
cosiddetti
“reati”
di
“istigazione
a
delinquere”:
Tizio
può
istigare
Caio
a
commettere
una
rapina
(azione
illegittima),
ma
la
responsabilità
del
reato
è di
Caio,
non
di
Tizio,
il
quale
ha
soltanto
esercitato
il
diritto
alla
libertà
di
espressione.
Laddove
si
accetta
che
la
libertà
di
espressione
assoluta
si
regge
su
basi
di
principio,
tale
libertà
va
difesa
indipendentemente
dalle
sue
conseguenze
(e
quindi
va
accettato
che
in
alcuni
casi
particolari
ci
potranno
essere
conseguenze
negative):
nel
momento
in
cui
viene
prodotta
un’arma,
si
sa
che
con
molta
probabilità
ci
saranno
incidenti
per
mezzo
della
medesima.
Questo
tuttavia,
non
significa
che
si
deve
impedire
ad
un
privato
di
produrre
armi
e ad
altri
di
utilizzarle
per
legittima
difesa
o
per
andare
ad
allenarsi
al
poligono
di
tiro.
Riferimenti
bibliografici:
Giudice
C.S.
Powell
L.F.,
1974,
caso
Gertz
vs.
Robert
Welch,
Inc.,
418
U.S.
340.
Lewis
A.,
1992,
Make
No
Law
(Vintage
Books,
New
York),
p.
60.
Madison
J.,
citato
in
Giudice
C.S.
Brennan
W.J.,
1964,
caso
The
New
York
Times
Co.
vs.
Sullivan,
376
U.S.
271.
Giudice
C.S.
Brennan
W.J.,
1964,
caso
The
New
York
Times
Co.
vs.
Sullivan,
376
U.S.
272.