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N. 31 - Dicembre 2007

Carter e i dissidenti sovietici

Il rispetto dei diritti umani e la parabola discendente della distensione Usa-Urss

di Stefano De Luca

 

Nel 1976 il Democratico Jimmy Carter vinse la contesa elettorale con il Repubblicano Gerald Ford e divenne il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. La nuova Amministrazione Carter fu contrassegnata da uno scontro costante tra i ‘falchi’ del Consigliere della sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski, che chiedevano un atteggiamento più duro verso l’Unione Sovietica, e le ‘colombe’ del ministro degli Esteri Cyrus Vance, sostenitori di una linea più morbida.

 

Se Nixon, Ford e Kissinger “avevano lavorato essenzialmente all’interno della tradizione europea di realpolitik”, il nuovo Presidente “richiamò alla mente Woodrow Wilson” per il suo “idealismo progressista”. Dichiarò infatti che a guidare la sua azione non era una politica “di equilibrio delle potenze”, ma “la preoccupazione per i diritti umani universali”.

 

Nel 1977 Carter dimostrò immediatamente l’appoggio della nuova Amministrazione americana ai dissidenti sovietici, perseguitati dal regime in violazione dei più elementari diritti umani e civili, attraverso cinque iniziative senza precedenti: denunciò apertamente il trattamento cui era vittima lo scienziato Andreij Sacharov; manifestò preoccupazione per gli arresti di altri due dissidenti, Aleksandr Ginzburg e Jurij Orlov; scrisse una lettera a Sacharov nella quale confermava che i diritti umani costituivano una «preoccupazione primaria» della Presidenza americana e che gli Stati Uniti si sarebbero adoperati ad assicurarne il rispetto anche in Unione Sovietica; indirizzò una petizione alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite affinché chiedesse delle informazioni al Cremlino in merito ai dissidenti arrestati; concesse udienza, con il vicepresidente Mondale, allo scrittore dissidente Vladimir Bukovskij.

 

Di valore enorme fu, in particolare, l’udienza concessa a Bukovskij in quanto costituì una legittimazione politica dei dissidenti: questo gesto scatenò l’immediata reazione della stampa sovietica.

 

Nell’articolo di Spartak Beglov, dell’Agenzia Novosti, intitolato Come l’Unione Sovietica adempie le intese di Helsinki, venne attaccata la campagna statunitense lanciata a favore dei diritti civili: “non è difficile immaginare quale sia l’intento di coloro che prendono singoli principi sanciti ad Helnsiki e, manipolandoli arbitrariamente, li oppongono agli altri. L’intento è quello, precisamente, di impedire la cooperazione, di far tornare l’Europa a ritroso, verso la guerra fredda. Come è possibile interpretare altrimenti il comportamento di coloro che contrappongono a tutti gli altri il principio del rispetto dei diritti dell’uomo, distaccandolo dal principio della non-ingerenza negli affari interni e del rispetto delle prerogative sovrane delle nazioni?”.

 

Un altro articolo, intitolato I diritti dell’uomo: miti e realtà, scritto nel 1977 dal giurista Gutsenko, ribadì i cardini ideologici sui quali i sovietici avevano da sempre fondato il diritto di opprimere ogni genere di dissenso. “I diritti dell’uomo” - scriveva - “non coincidono con la possibilità per ciascuno di fare ciò che si vuole”. Essi “sono innanzi tutto stabiliti dalla legge dei singoli Paesi”, ed in ciascun Paese “esistono numerosi articoli che prevedono non poche limitazioni, non rispettando le quali si rischia d’incorrere nella responsabilità penale”.

 

Se gli Stati Uniti facevano pressioni per il rispetto dei diritti umani, l’Unione Sovietica si batteva per la non ingerenza negli affari interni degli altri Stati, per lo status quo. Sottolineando come la limitazione della libertà personale fosse sancita anche in articoli dei Codici Penali occidentali, l’articolo terminava definendo i dissidenti, “di cui si assumono la difesa gli antisovietici”, come dei “criminali, ai quali si applicano le leggi dello Stato”.

 

Alla fine di marzo del 1977 Vance andò a Mosca per definire il Salt II, un nuovo trattato sul disarmo, ma i colloqui sovietico-statunitensi fallirono. Secondo Maldwin Jones i sovietici rigettarono le proposte del Ministro degli Esteri americano, che prevedevano una drastica riduzione dei rispettivi arsenali nucleari, e decisero di non riaprire le trattative fino a quando gli americani non avessero cessato la campagna a favore dei dissidenti.

 

Secondo Nicholas Werth, invece, il Salt II non sarebbe stato concluso nel 1977 “a causa di un nuovo progresso tecnologico americano, il missile «da crociera»”, che sbilanciò a favore degli Stati Uniti la forza contrattuale in materia di disarmo. Entrambe le considerazioni sono corrette e non si escludono l’una con l’altra: i sovietici erano infastiditi dalle prese di posizione di Carter sui diritti umani, così come il progresso tecnologico americano stava cominciando a produrre un nuovo vantaggio sui sovietici.

 

Carter introdusse nella dialettica tradizionale della “distensione” tra Usa e Urss l’elemento del rispetto dei diritti umani come una condizione non formale, ma sostanziale della stessa. I sovietici non gradirono il nuovo atteggiamento statunitense, che comunque non riuscì ad impedire che i dissidenti continuassero ad essere perseguitati nelle modalità consuete. Lo confermano gli arresti, iniziati nei mesi di febbraio e marzo del 1977, dei membri del «Comitato per il controllo dell’applicazione degli accordi di Helsinki in URSS», e terminati nel 1979 con gli arresti dei membri del «Comitato russo per le difese dei diritti dei credenti» Gleb Jakunin e Tat’jana Velikanova.

 

L’elemento che pose la parola fine alla “distensione” fu, indiscutibilmente, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel dicembre del 1979, ma che quella stagione di dialogo fosse ormai giunta a conclusione lo si era capito già nell’appoggio dato dal Presidente statunitense Carter ai dissidenti sovietici.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Maldwin Jones, Storia degli Stati Uniti d’America

Paolo Garimberti, Il dissenso nei Paesi dell’Est prima e dopo Helsinki

 



 

 

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