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N. 31 - Dicembre 2007

CARLO PISACANE

Spedizione di Sapri e testamento politico

di Marco Grilli

 

La storia del nostro Risorgimento è stata segnata dalla contrapposizione e l’incontro di due movimenti: il monarchico-moderato proposto dal Regno di Sardegna e il democratico-repubblicano ispirato da Mazzini. Se al primo siamo debitori per le notevoli capacità diplomatiche, non possiamo dimenticare il secondo per la tensione morale e la funzione di stimolo svolta.

 

Carlo Pisacane: la vita e gli ideali (1818-1857)

 

Il patriota napoletano, dopo gli studi al collegio militare della Nunziatella, prestò per qualche tempo servizio nell’esercito borbonico. Idealista e visionario, mostrò presto insofferenza agli ambienti militari, tanto che a 30 anni abbandonò Napoli e la carriera per trasferirsi con la sua amata Enrichetta De Lorenzo- donna sposata con un uomo anziano e madre di tre figli- in Inghilterra e poi in Francia. Arruolatosi nella Legione Straniera francese, alla notizia dello scoppio della prima guerra d’indipendenza (1848) tornò in Italia per combattere contro gli austriaci in Lombardia. Nel 1849 fu membro della Commissione di guerra e capo di Stato maggiore nella Repubblica romana, alla cui caduta prese la via dell’esilio.

 

Nel 1851 analizzò il fallimento dei moti nello scritto “Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-‘49”, in cui criticò la monarchia sabauda ed evidenziò la necessità di coinvolgere la popolazione nella lotta, in modo da far coincidere l’unità e l’indipendenza con l’emancipazione delle masse. Tra il 1851 e il 1856 redasse i “Saggi storici, politici, militari sull’Italia”, pubblicati postumi, dove teorizzò il suo socialismo libertario e utopistico permeato dagli ideali proudhoniani.

 

La società ideale di Pisacane prevedeva l’abolizione della proprietà, causa dello sfruttamento e della miseria, ed una libera associazione d’individui in comuni, a loro volta liberamente associati in una nazione fondata sulla sovranità popolare.  Per il patriota napoletano, il progresso industriale dell’epoca moderna aveva causato un concentramento della ricchezza nelle mani di pochi, aggravando la miseria delle masse. La libertà sarebbe rimasta quindi un’utopia senza l’effettiva uguaglianza politica e sociale dei cittadini: “…La libertà senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene, come il sole la luce e il calorico”. Teorico della rivoluzione nazionale, sociale e popolare, Pisacane sosteneva che le masse dovevano essere educate tramite l’azione, che equivaleva alla lotta per soddisfare gli interessi materiali.

 

I fermenti del meridione e i progetti insurrezionali

 

La preparazione di moti insurrezionali e la volontà di superare l’attesismo e le trattative diplomatiche del Piemonte di Cavour, portarono alla riconciliazione di due patrioti, fino al momento piuttosto distanti ideologicamente, come Pisacane e Mazzini. Il primo, forse influenzato dalle teorie di Louis Auguste Blanqui, rivide la sua precedente convinzione di una rivoluzione come frutto dell’impegno generale dei movimenti democratici, contraria al ricorso ai complotti e alle insurrezioni di carattere mazziniano. 

Gli anni ’50 del 1800 furono particolarmente critici per il movimento democratico il quale, pur rinnovando la sua volontà di lotta, era stato frustrato da vari insuccessi tra i quali la congiura di Mantova, conclusasi con nove condanne capitali, e l’insurrezione di Milano del 1853, che portò al sequestro dei beni degli esuli in Piemonte da parte del governo austriaco.

 

Molti repubblicani e mazziniani avevano abbandonato il “maestro” per avvicinarsi alla politica moderata di Cavour, tanto che nel 1857 anche Manin, La Farina e Garibaldi si raccolsero nella Società Nazionale, che si prefiggeva come programma l’unità italiana sotto la monarchia dei Savoia, al motto “Italia e Vittorio Emanuele”.

Alcuni fatti sembrarono convincere i democratici sulla possibilità di guidare un’insurrezione popolare nel meridione: i moti scoppiati nel Cilento, le rivolte all’assolutismo borbonico in Sicilia e l’attentato compiuto da un soldato calabrese, Agesilao Milano, contro Ferdinando II di Borbone (l’attentatore fu impiccato il 13 dicembre 1856 a Napoli).

 

In seguito alle forti sollecitazioni del Pisacane, Mazzini iniziò a progettare una spedizione armata a sud di Napoli, collegandosi coi gruppi clandestini democratici presenti nella città partenopea, nel salernitano e nel cilento, convinto che una rivolta al sud avrebbe incontrato maggiori possibilità di successo se contemporaneamente si fossero sollevate due città quali Genova e Livorno.

 

Il testamento politico

 

Pisacane si dedicò anima e corpo alla preparazione del moto insurrezionale, allacciando i contatti con altri patrioti meridionali-citiamo tra gli altri Nicola Fabrizi, Giuseppe Fanelli, Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone- e confidando nelle possibilità di successo, tanto che era solito dire: “L’Italia trionferà quando il contadino cambierà spontaneamente la marra con il fucile”...

 

Poco prima di avventurarsi nella spedizione, il patriota napoletano consegnò il suo Testamento politico alla giornalista inglese Jesse White, un testo suggestivo, profondamente umano e venato da un certo pessimismo, in cui Pisacane ribadì i principi politici professati nel corso di tutta la sua esistenza: “…Io credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai sistemi francesi, tutti più o meno fondati sull’idea monarchica e dispotica, che prevale nella nazione. (…) Il socialismo di cui parlo può definirsi in queste due parole-libertà e associazione”.

 

L’autore del Testamento dichiarò esplicitamente il suo disdegno per il moderatismo e il programma minimo della monarchia sabauda, reclamando la necessità di procedere all’azione: “…Io sono convinto che l’Italia sarà grande per la libertà o sarà schiava. (…) Per quanto mi riguarda, io non farei il più piccolo sacrificio per cambiare un ministero e per ottenere una costituzione, neppure per scacciare gli austriaci dalla Lombardia e riunire questa provincia al Regno di Sardegna. Per mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa. (…) Io credo fermamente che se il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che lo furono gli altri Stati italiani, la rivoluzione d’Italia sarebbe a quest’ora compiuta. (…) Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perchè istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero. La sola cosa che può fare un cittadino per essere utile al suo paese, è di attendere pazientemente il giorno in cui potrà cooperare ad una rivoluzione materiale-le cospirazioni, i complotti, i tentativi d’insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti per mezzo dei quali l’Italia s’incammina verso il suo scopo, l’unità. L’intervento della baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto più efficace che mille volumi scritti dai dottrinari”.

 

Con parole tristemente profetiche, Pisacane motivò la sua scelta d’azione nel sud, professando la vocazione al sacrificio del rivoluzionario, la sottomissione dell’egoismo individuale all’utile collettivo, portata fino alle estreme conseguenze: “…Io sono convinto che nel mezzogiorno dell’Italia la rivoluzione morale esiste; che un impulso energico può spingere la popolazione a tentare un movimento decisivo, ed è perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quell’impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciare la vita sul palco. Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo faccio. Il resto dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia vita da sacrificare per quello scopo ed in questo sacrificio non esito punto”.

 

Una volontà inflessibile e un grande coraggio animarono questo affascinante personaggio sorretto dalla forza degli ideali, un uomo deciso a sfidare il destino, non per mania di protagonismo, ma per mutare le sorti di un paese in preda alla decadenza. Un ingenuo, un testardo, un perdente? Forse, ma anche uno dannatamente coerente: “Io sono persuaso che se l’impresa riesce, otterrò gli applausi generali; se soccombo, il pubblico mi trascinerà. Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento, e quelli che nulla mai facendo passano la vita nel criticare gli altri, esamineranno minuziosamente il tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi accuseranno di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e di energia…Tutti questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma anche di concepirne l’idea. A quelli che diranno che l’impresa era d’impossibile riuscita io rispondo che se prima di combinare di tali imprese si dovesse ottenerne l’approvazione del mondo bisognerebbe rinunziarvi. (…) Tutti i dolori e tutte le miserie d’Italia combattono con me (…).  Tutta la mia ricompensa la troverò nel fondo della mia coscienza, e nell’animo dei cari e generosi amici, che mi hanno prestato il loro concorso, e che hanno diviso i miei palpiti e le mie speranze. Che se il nostro sacrificio non porterà nulla di buono all’Italia, sarà per essa almeno una gloria l’aver generato figli, che volenterosi s’immolarono pel suo avvenire”.

 

Il fallimento della spedizione di Sapri (25 giugno 1857)

 

Le premesse per l’efficacia del moto insurrezionale non erano molto positive, il movimento democratico viveva infatti una situazione di grande difficoltà e gli oppositori politici erano esuli o languivano nelle tristemente famose carceri di Santo Stefano e della Favignana. Lo stesso Pisacane andò personalmente a tastare il terreno prima della partenza, in cerca di armi e aderenti, rimanendo fortemente deluso (il 13 giugno scrisse al patriota siciliano Rosolino Pilo che le speranze erano debolissime) senza per questo desistere dai suoi propositi. Come meta della spedizione fu scelto l’estremo lembo del Cilento, il più arretrato dal punto di vista economico e politico per la forte oppressione borbonica, nella speranza che le masse contadine si sarebbero destate al grido di rivolta. La realtà era invece ben diversa.

 

Il 25 giugno 1857 Pisacane s’imbarcò a Genova sul piroscafo Cagliari diretto a Tunisi; ad accompagnarlo c’erano 24 patrioti. Impossessatisi della nave e di un carico di fucili e munizioni presenti a bordo, e dopo aver mancato l’incrocio con altre barche che dovevano fornirli di altre armi, i patrioti fecero rotta verso l’isola di Ponza allo scopo di liberare i detenuti politici presenti nel carcere borbonico. L’azione fu condotta velocemente in quanto la guarnigione si arrese senza reagire; Pisacane e i suoi requisirono altre armi e liberarono 323 detenuti, gran parte dei quali delinquenti comuni poco interessati alla spedizione, solo una trentina erano infatti gli oppositori politici. Il piroscafo dei “trecento” giunse a Sapri solo la sera del 28 giugno, quando le autorità di Gaeta erano già state avvertite dei fatti di Ponza.

 

Lo sbarco causò grande confusione fra le autorità locali, fino a quando prese in mano la situazione il giudice regio di Sanza, Vincenzo Leoncavallo. Pisacane e i suoi, contrariamente alle previsioni, si trovarono di fronte non masse esultanti pronte a seguire la rivolta, ma una popolazione ignara che credette alle prime versioni dei fatti astutamente fornite dalle autorità borboniche, ossia la presenza di una banda di ergastolani senza scrupoli e briganti nemici di Dio, pronti a rubare, violentare le donne e distruggere ogni bene, dai quali bisognava assolutamente difendersi.  La situazione volse al peggio: la subdola propaganda, i mancati collegamenti coi democratici meridionali e l’assenza nella zona di molti braccianti, in passato molto attivi nella lotta contro le usurpazioni di terre demaniali, ma in quel periodo emigrati per il raccolto, furono fattori che permisero all’esercito borbonico di sopraffare in breve la rivolta.

 

Il grido “Viva l’Italia, Viva la Repubblica” lanciato dai patrioti non riuscì a fare proseliti.  Pisacane decise di puntare su Padula dove il 1° luglio vi fu un primo scontro con le guardie e i soldati di stanza presenti nel luogo; più di 50 patrioti rimasero uccisi, mentre gli altri decisero di ripiegare su Sanza, luogo in cui finirono accerchiati dalle masse inferocite armate di forconi e ogni genere di arma, che aiutarono i soldati borbonici nella repressione. Molti patrioti furono massacrati senza reagire di fronte all’aggressione di quelli che credevano avrebbero combattuto dalla loro parte; Pisacane, inorridito dalla situazione paradossale e ormai consapevole della sconfitta, compì il gesto estremo rivoltando la pistola su se stesso, imitato dal patriota Falcone.

 

Il suo sogno di una trascinante insurrezione contadina che sarebbe giunta fino alla liberazione di Napoli, svanì miseramente nel sangue versato dai patrioti.     Scriveva il Giornale ufficiale del Regno delle Due Sicilie: “…Pisacane, Nicotera e Falcone con alquanti di loro fuggirono verso Sanza; ma furono assaliti la mattina dopo dagli abitanti di vari paesi, che non volevano saperne della loro pretesa libertà, dopo qualche ora di combattimento, ventisette di loro caddero sul campo, mentre ventinove venivano arrestati. Pisacane e Falcone morti; Nicotera prigioniero. Molti altri individui furono arrestati successivamente, e la Corte criminale di Salerno ebbe a procedere contro 284 rei di lesa maestà. Ai 19 di luglio, 7 ne condannava a morte, 30 all’ergastolo, 2 a trent’anni di ferri, 52 a venticinque anni, 137 a pene minori; 56 vennero rilasciati in libertà provvisoria. Dei sette condannati a morte, il “crudele” Re Ferdinando commutò a tutti la pena”.

 

Alla sconfitta di Pisacane si unirono i fallimenti dei moti mazziniani di Genova e Livorno; il movimento democratico segnava il passo, Cavour e la sua via diplomatica e moderata sembravano ormai l’unica speranza per raggiungere l’agognata indipendenza e unità italiana. Mazzini continuò però a difendere strenuamente i suoi metodi di lotta dalle critiche che piovvero da gran parte della democrazia italiana ed europea; celebre il suo articolo “Sovra ogni cosa preparare l’azione” : “Ogni rivoluzione nazionale fu e sarà sempre preceduta da una serie di tentativi falliti, di sommosse represse; gli animi s’educano, su quella via provata inevitabile dalla storia, alle virtù della lotta, s’affratellano nei patimenti comuni, si purificano a poco a poco nel sagrifizio delle colpe e dell’egoismo inseparabili da ogni servaggio. Nessuno sa il numero dei tentativi che precederanno la vittoria; ma la storia c’insegna che quel numero si fa minore in ragione della loro energia e della loro frequenza. Quando la protesta è continua, Dio e i popoli decretano la vittoria”.

 

La triste vicenda del Pisacane resta ancora oggi immortalata nei delicati e semplici versi de “La spigolatrice di Sapri” del poeta patriottico Luigi Mercantini: “…Eran trecento e non vollero fuggire, parean tre mila e vollero morire; ma vollero morir col ferro in mano, e avanti a loro correa sangue il piano: fin che pugna vid’io per lor pregai, ma un tratto venni men, né più guardai: io non vedea più fra mezzo a loro quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro. Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!”.

 



 

 

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