[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 152 / AGOSTO 2020 (CLXXXII)


contemporanea

Inchiesta sul 25 luglio 1943

PARTE II / IL CONTRIBUTO DI DINO GRANDI ALLA CADUTA DEL FASCISMO

di Federico Toscano

  

Ricostruire le intenzioni dei membri del Gran Consiglio del fascismo che hanno votato l’ordine del giorno a prima firma Dino Grandi è opera complessa, ma deve necessariamente partire dalla decifrazione della figura e delle determinazioni del promotore principale di questa iniziativa: il conte di Mordano.

 

Dino Grandi, scrivendo la prefazione introduttiva al suo libro sulla seduta del Gran Consiglio del 24 e del 25 luglio, uscito nel 1983 per i tipi de il Mulino, aveva definito quell’evento come atto che aveva le sue profonde radici in un intima avversione nei confronti delle politiche praticate dal regime, maturata nel corso degli anni a partire dal 1932: “[…] se pur ha trovato l’ambiente nelle tragiche vicende vissute dall’Italia nel 1943, ha le sue radici lontane, […]”.

 

Di questa interpretazione da parte dello stesso protagonista in realtà non si trova riscontro nelle dichiarazioni pubbliche e in alcun atto dell’uomo politico bolognese: egli cioè non manifestò mai il suo dissenso.

 

Sarebbe facile obbiettare che in un regime quantomeno autoritario non vi sarebbe stato spazio per opposizioni esterne o interne che fossero e per questo, per valutare la buona fede delle affermazioni di Grandi, è necessario scandagliare le sue realizzazioni per il regime fascista, atte a testimoniare più delle parole la sua posizione.

 

Osservando anche solo la conclusione della sua carriera in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia, carica che detenne sino al 6 febbraio 1943, si registra come egli fu il grande artefice del nuovo Codice Civile, datato marzo 1942, che occorre sottolineare sarà uno dei lasciti più duraturi del regime, essendo esso in vigore nella sua struttura portante, seppur variamente emendato, tutt’oggi.

 

A tal proposito, lo stesso Grandi nella relazione di presentazione del nuovo codice al sovrano, datata 21 aprile 1942 scriveva: “il codice del popolo italiano, quale lo hanno forgiato e organizzato le forze della Rivoluzione fascista”.

 

Questi elementi inducono a ritenere poco credibile la professione di dissenso e la presa di distanza dalle politiche del regime di cui parlò il gerarca nel dopoguerra, essendo evidente che egli agì quale uno dei migliori interpreti dei principi dell’ideologia fascista e in qualità di importante legislatore per il regime sino a pochi mesi prima della caduta dello stesso.

 

Dino Grandi, inoltre, anche nell’immediatezza della data fatale del 24 luglio, non mostrò mai con chiarezza di avere elaborato un piano adeguato per estromettere Mussolini dal governo del paese, anzi, pareva non avere alcuna idea di come procedere.

 

Quanto appena affermato è dimostrato dal contenuto di un colloquio che egli ebbe con il Re Vittorio Emanuele III, tenutosi poco più di un mese prima i fatti di cui ci stiamo occupando, il 4 giugno 1943, in occasione della presentazione di una relazione sull’andamento dei lavori della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Nel corso dell’incontro, il sovrano ebbe infatti modo di indicare a Grandi che era necessario affinché egli agisse una legittimazione politica conferitagli o da una deliberazione della maggioranza dei consiglieri della Camera, oppure in alternativa da un voto del Gran Consiglio che avrebbe fornito la forza politica appunto (la facoltà costituzionale era già affidata al Re dallo Statuto), per imporre le dimissioni a Mussolini. In sostanza fu lo stesso Vittorio Emanuele a tracciare la strada e a sollecitare il Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e non viceversa, affinché egli si attivasse per ottenere un pronunciamento di uno dei due organi.

 

Ma ciò che più concorre a smentire il racconto dato, a posteriori, da Dino Grandi circa il suo contributo alla caduta del regime fu il suo atteggiamento a seguito dell’incontro menzionato. Egli infatti, non solo soggiornò per buona parte del mese di luglio nella sua Bologna, tenendosi dunque ben distante dagli ambienti politici romani e non sollecitando alcuna convocazione del supremo organo del fascismo, ma addirittura maturò l’idea di lasciare la Presidenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni: a tal proposito egli si era addirittura premurato di avvertire colui che riteneva essere un buon successore, Giuseppe Bottai.

 

Occorre segnalare che se tale avvicendamento fosse realmente avvenuto prima del fatidico 24 luglio, in assenza di altra collocazione in un nuovo incarico istituzionale o presso il partito, Grandi sarebbe decaduto dal Gran Consiglio e dunque evidentemente, non vi sarebbe stato alcun ordine del giorno a sua firma.

 

Coloro che invece si adoperarono per creare un’occasione di dibattito sulla grave crisi militare, che andava acuendosi sempre più con l’avanzata delle truppe alleate in Sicilia, furono il segretario nazionale del partito Carlo Scorza e altri gerarchi tra cui l’ex ministro per l’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai.

 

Essi, venerdì 16 luglio si diedero appuntamento presso la sede romana del partito a Palazzo Wedekind in Piazza Colonna, ufficialmente per preparare le adunate fasciste che si sarebbero dovute tenere quella domenica al fine di risollevare il morale della nazione e incitare la popolazione civile alla resistenza nei confronti dell’invasore, ma in realtà il tema all’ordine del giorno prevedeva un franco dibattito circa le possibili vie d’uscita da un conflitto che giorno dopo giorno si rivelava sempre più disastroso per le armi italiane.

 

Al termine della riunione, tutti i convenuti concordarono per recarsi in udienza dal Duce nel pomeriggio dello stesso giorno e richiedere un’urgente convocazione del Gran Consiglio, che Mussolini, seppur restio dovette accettare. Di questo drappello in 9 voteranno l’ordine del giorno Grandi, assente però nell’occasione e ancora senza una precisa idea sul da farsi.

 

Giunti a questo punto occorre analizzare ciò che avvenne in seguito alla convocazione ufficiale dell’organo avvenuta nella giornata di lunedì 19 luglio, in seguito al ritorno del Duce dal convegno di Feltre: egli in un incontro avuto con Scorza a Villa Torlonia aveva ordinato di fissare l’assise per sabato 24 alle ore 17.

 

Dino Grandi, già aveva posto mano a una prima bozza dell’ordine del giorno a sua firma il giorno 15, prima di apprendere la notizia della convocazione del Gran Consiglio. In questa prima stesura si chiedeva con radicalità il ripristino delle prerogative regie, ma non solo, anche quelle del Consiglio dei Ministri come supremo organo di indirizzo politico del governo e la soppressione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni con il conseguente ripristino della Camera dei Deputati.

 

Il testo non si esauriva qui: era infatti proposta l’abolizione dei più rilevanti istituti autoritari con il conseguente ristabilimento della libertà di manifestazione del pensiero e di attività politica. Il PNF dunque avrebbe cessato di essere l’unico partito ammesso per legge e secondo gli intendimenti di Grandi doveva interrompere ogni interferenza con la pubblica amministrazione.

 

Il gerarca dunque decise di partire per rientrare a Roma (secondo due versioni discordanti che ha fornito o lunedì 19 sera o martedì 20) con un testo che faceva intendere la chiara volontà di liquidare il regime e non poteva che comportare una inequivocabile sfiducia politica nei confronti del Capo del Governo.

 

Nel corso delle giornate romane antecedenti il 24 luglio, la bozza dell’ordine del giorno però subì alcune modifiche che ne andarono a mitigare l’impatto. Nella seconda stesura in effetti sparirono i riferimenti al ripristino della libera attività politica e anzi trapelava la richiesta di una maggiore centralità del PNF come elemento fondamentale di organizzazione del consenso e di educazione alla vita pubblica per la popolazione italiana, ma fu l’ultima bozza, quella definitiva, che mostrò i più rilevanti mutamenti.

 

La versione in questione dell’ordine del giorno fu scritta a quattro mani da Grandi e da Giuseppe Bottai e a giudicare dalla trascrizione che quest’ultimo fece del testo sul suo diario personale si nota come vi sia stata anzitutto una rilevante compressione nella grandezza, ma anche come furono stralciate le considerazioni articolate e le richieste puntuali svolte nelle precedenti bozze: in particolare il ripristino della libertà di manifestazione del pensiero e il ristabilimento di un consolidato potere legislativo, nonché la reintroduzione del basilare principio della collegialità nell’azione di governo, rappresentato dal Consiglio dei Ministri più che dal Gran Consiglio del fascismo, di cui nelle due stesure vergate da Grandi era chiesta la soppressione. Probabilmente per esigenze di sintesi, molte delle argomentazioni sopra citate furono condensate in proposizioni generiche, che però frustravano buona parte del lavoro preparatorio che il gerarca bolognese aveva svolto.

 

In definitiva, le evidenze menzionate in questa breve disamina permettono di affermare che il ruolo svolto da Dino Grandi nel corso delle cruciali giornate del 24 e del 25 luglio 1943 rispetto agli altri 18 gerarchi “traditori” fu indebitamente accresciuto da lui stesso tramite ricostruzioni imprecise e poco veritiere nel dopoguerra e che esso non rappresentò probabilmente il fattore decisivo per la caduta del regime.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Gentile E., 25 luglio 1943, Laterza, Bari 2018.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]