N. 17 - Ottobre 2006
BUSH E LO SCANDALO DELLE PRIGIONI SEGRETE
Le ultime rivelazioni e le nuove misure
antiterrorismo
di Leila
Tavi
Il 6 settembre il presidente americano George W. Bush
ha ammesso l’esistenza di prigioni segrete gestite
dalla CIA, fuori dal territorio degli USA, in cui sono
stati interrogati presunti “terroristi”. La
dichiarazione arriva come risposta alla forte
pressione dei giornalisti nei confronti delle
extraordinary rendition, delle detenzioni e delle
torture perpetrate durante la “guerra al terrore”.
In occasione del fallito attentato all’aeroporto di
Londra dell’agosto scorso Bush ha dichiarato in una
conferenza stampa all’Austin Straubel International
Airport in Green Bay, in Wisconsin, “a stark
reminder that this nation is at war with Islamic
fascists who will use any means to destroy those of us
who love freedom, to hurt our nation”.
L’incostituzionalità del Patriotic Act
I tempi però della solidarietà nazionale, che hanno
portato, immediatamente dopo lo shock del 9/11,
all’approvazione, con 98 voti a favore e 1 contrario
in Senato e 357 voti a favore e 66 contrari nella
House of Representatives, del Patriot Act
il 26 ottobre del 2001 appartengono ormai al passato e
gli Stati uniti d’America stanno oggi
inequivocabilmente revocando la fiducia accordata al
presidente Bush in quella che non riconoscono più come
una lotta al terrorismo, ma come una serie di atroci
violenze nei confronti di esseri umani.
Secondo una statistica della Gallup Poll,
condotta nel 2004, la gente comune negli USA aveva già
due anni fa dei seri dubbi sulle misure previste dall’Uniting
and Strengthening America by Providing Appropriate
Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act
(Public Law 107-56), comunemente conosciuto
come Patriotic Act.
Una delle sezioni più criticate già dall’entrata in
vigore della legge è stata la 215, grazie a cui la FBI
è stata autorizzata all’accesso di ogni database e
archivi cartacei contenenti informazioni sugli utenti
di biblioteche, librerie e società commerciali in nome
della lotta al terrorismo.
Il Patriotic Act rappresenta una violazione
della libertà di parola, di stampa e del diritto alla
riservatezza.
Il 23 gennaio 2004 il giudice Audrey Collins ha
dichiarato la sezione 805 del Patriotic Act,
quella relativa all’assistenza e ai consigli di
esperti come forma di supporto al terrorismo, vaga e
in violazione del Primo e del Quinto emendamento della
Costituzione americana.
Il 29 settembre 2004 il giudice Victor Marrero
ha dichiarato la sezione 505, in cui è previsto,
attraverso la National Secuirity Letters,
che il governo americano possa ottenere l’accesso ai
dati anagrafici e sensibili in possesso degli
internet server provider senza un’autorizzazione
giudiziale, incostituzionale e in violazione del Primo
e del Quarto emendamento della Costituzione americana.
Le torture dalla Bagram Air Base ad Abu Ghraib
I primi sospetti invece sulle torture ai prigionieri
della guerra al terrore risalgono al dicembre 2002,
quando Carlotta Gall, corrispondente
dall’Afghanistan per The New York Times ha
pubblicato un articolo su la morte di un prigioniero
nella Bagram Air Base, seguito dopo pochi
giorni dall’annuncio di un’altra morte di un detenuto
nella stessa base.
I militari della base al momento del decesso non hanno
reso ufficiali i nomi dei due uomini.
Poco dopo le indagini della Gall hanno portato alla
luce un’altra prigione “non ufficiale” alla frontiera
est della città di Khost.
Nel frattempo è stato restituito ai familiari dai
militari della base di Bagram il corpo senza vita di
Dilawar, un giovane taxista di 22 anni.
La versione del Luogotenente Generale Daniel Mc
Neill circa la causa della morte è stata quella
del decesso per infarto; qualche tempo dopo Mc Neill
ha dovuto ammettere che il giovane è morto per i
maltrattamenti subito durante la detenzione nella base
militare americana.
La Gall è riuscita dopo vari tentativi a pubblicare la
storia della morte di Dilawar due settimane prima
dell’invasione americana dell’Irak.
La tragica storia di Dilawar è passata al momento
della pubblicazione dell’articolo della Gall
inosservata a causa della mobilitazione del popolo
americano del post 9/11 e della campagna patriottica
di successo di Bush che ha convinto l’America della
necessità di una guerra preventiva.
A tre anni dalla disperata impresa, e dopo la scandalo
di Abu Ghraib, gli articoli sugli abusi nelle
prigioni di guerra occupano le prime pagine dei
giornali; gli Americani non sono più pronti a
legittimare in nome della sicurezza in patria azioni
del genere.
Le prigioni segrete dal 2005 alle rivelazioni di Bush
Non è stato più possibile per Bush oggi negare
l’evidenza, grazie anche a quella che Eric Umansky
chiama una “sinergica azione del Congresso e della
stampa” tra l’autunno del 2005 e l’estate del 2006.
Il Washington Post ha pubblicato nel novembre 2005 in
prima pagina la notizia che il vice presidente
Richard B. Cheney stava facendo pressione su una
parte dei Senatori per esonerare la CIA
dall’emendamento proposto dal senatore John McCain,
che vietava le torture sui prigionieri di guerra
approvato il 6 ottobre 2006.
L’emendamento McCain non è stato mai modificato dal
Congresso, ma con l’emendamento Graham-Levin-Kyl,
approvato nel novembre 2005, si è permesso alla CIA di
cooperare con servizi segreti stranieri che utilizzano
la tortura come mezzo per l’estorsione.
L’emendamento prevede inoltre la possibilità che a
detenere come prigionieri quelli che la CIA considera
“sospetti terroristi” siano proprio tali
servizi segreti stranieri.
In un articolo di Dana Priest pubblicato sul
Washington Post nel novembre 2005 si è
parlato di più di 100 “sospetti”, trasportati in
segreto fuori dagli Stati Uniti e detenuti in prigioni
segrete gestite, in parte direttamente dalla CIA e in
parte da servizi segreti stranieri, tra cui quelli
dell’ex blocco sovietico.
I media sapevano già da tempo che si trattava di “ghost
prisoner”, non registrati alla Croce Rossa
Internazionale, ma hanno richiamato l’attenzione
dell’opinione pubblica sui gravi abusi subiti dai
presunti terroristi, detenuti senza regolare processo
e sotto tortura, solo alla fine del 2005.
Dana Priest e il suo collega Bart Gellman hanno
rivelato l’esistenza di prigioni segrete nella base di
Bagram in Afghanistan e nella isola britannica di
Diego Garcia nell’Oceano indiano già alla fine del
2002, ma ai due articoli non è seguita la giusta eco,
anche per colpa dei media stessi che hanno applicato
il metodo dell’autocensura per schierarsi in
blocco a fianco di Bush, fino a negare l’evidenza.
Addirittura si può far risalire il primo caso di
extraordinary rendition in Pakistan ad un
mese dal 9/11, notizia che è uscita in un trafiletto
di Rajiv Chandrasekaran sul Washington Post,
ma gli elementi in mano al giornalista potevano solo
far sospettare di un coinvolgimento diretto della CIA.
Dopo cinque anni di denuncie il mea culpa di Bush è
arrivato il mese scorso; il presidente americano ha
ammesso per la prima volta l’esistenza delle prigioni
segrete, pur negando di essere stato a conoscenza
delle torture avvenute nei luoghi di detenzione non
ufficiali.
In un articolo de Il Manifesto dell’8 settembre
si è sottolineato come il portavoce della Casa Bianca
abbia tenuto a precisare con i giornalisti presenti
alla conferenza stampa di Bush, che le rivelazioni del
Presidente non hanno come secondo fine il riscatto di
Bush in vista della prossima campagna elettorale.
Angela Pascucci,
autrice dell’articolo dell’8 settembre, ha dichiarato
che, ogni qualvolta un nuovo giornalista entrava nella
sala dove la conferenza stampa ha avuto luogo e gli
era fornito il comunicato letto dal portavoce di Bush,
scoppiava in una fragorosa risata.
Riferimenti bibliografici:
Angela Pascucci, L’esportazione del crimine,
“Il Manifesto”, www.ilmanifesto.it
Eric Umansky, Failures of imagination, “CJR”,
maggio 2006, http://www.cjr.org/issues/2006/5/Umansky.asp |