[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

180 / DICEMBRE 2022 (CCXI)


contemporanea

SUL LEGGERE E SCRIVERE COME FATTO ESTETICO
LE CONVERSAZIONI RADIOFONICHE DI BORGES
di Gaetano Cellura

«In casa, lei non troverà un solo libro mio o un libro scritto su di me». Così esordisce Jorge Luis Borges. Felice di aver diffuso l’amore per Stevenson, per Shaw, per Chesterton, per Mark Twain, per Emerson: «Questo è forse l’essenziale di quella che è stata chiamata la mia opera». Un’opera di cui non parla e che gli riesce facile dimenticare. E aggiunge subito di non essere interessato né al giudizio della critica né al numero di copie vendute dei suoi libri.

Jorge Luis Borges (1899-1986) ha da poco compiuto 85 anni, e quasi se ne vergogna, quando conversa alla radio, di queste e di tante altre cose, con il suo connazionale Osvaldo Ferrrari. Dal 1955 il poeta argentino è cieco, non può più vedere il mondo dei sette colori. Ma non ha perso la gioia, e dice di non aver mai vissuto come una disgrazia la sua cecità: perché gli rende facile la solitudine, condizione ideale per pensare, inventare favole, “costruire” poesie.

Le conversazioni radiofoniche diventano poi un libro intervista, intitolato appunto Conversazioni. Borges parla dei temi a lui più cari: i sogni, la memoria, il labirinto, il linguaggio (molto povero se lo si confronta con la complessità delle cose); e del tema degli specchi, nei quali si sdoppia il nostro io.

Parla naturalmente di letteratura, di libri e del leggere e dello scrivere, fatti “spontanei” tutt’e due, ma di diversa felicità. Non solo la scrittura: anche la lettura è atto creativo. Un libro, riposto in uno scaffale, è una cosa morta finché nessuno lo apre, finché nessuno lo legge. Ed è durante la lettura del libro preso dallo scaffale che si verifica il nuovo fatto estetico, una vita nuova nasce o rinasce: «Quello che è morto risuscita, e risuscita sotto una forma che non è necessariamente quella presa quando il tema s’è presentato all’autore».

Tutto quanto ci accade – di bello o di brutto – ha per Borges un valore estetico. Il mondo stesso esiste per approdare a un libro: come aveva detto (prosaicamente) Mallarmé; e prima di lui (poeticamente) Omero, per il quale gli dèi ordivano guerre e sventure e le mandavano sulla terra affinché gli uomini potessero cantarle. La stessa storia universale è un libro, un unico libro che, come pensava Carlyle, siamo incessantemente obbligati a leggere e a scrivere.

Idea terribile: noi stessi siamo in quel libro, lettere di un libro che scriviamo e leggiamo. Perché, per quanto modesti, siamo “parte di quella vasta criptografia che si chiama storia universale”. Lo scrittore implica il lettore, e viceversa. E l’uno e l’altro, soprattutto se limitiamo il discorso alla Sacra Scrittura, sono opera di Dio.

Parla anche degli argentini, Borges: “Europei in esilio”. E di sé: del suo disinteresse per la politica e di una vita passata a leggere e rileggere Schopenhauer. Parla della sua capacità di pensare non per mezzo di ragionamenti, ma di miti, sogni, invenzioni. E poi di Platone e di Aristotele, di Kipling e di Yeats. Del Castello e del Processo di Kafka dice che fanno parte della memoria dell’umanità.

Parla di Macedonio Fernàndez, cui non interessava pubblicare i propri scritti, avere dei lettori: scriveva per aiutarsi a pensare. Anche Emily Dickinson e John Donne, “uno dei massimi poeti d’Inghilterra”, erano dello stesso avviso, di Donne circolavano versi e sermoni manoscritti, e poche pubblicazioni. Oggi invece si pensa che tutto quanto resta inedito sia irreale.

Non mancano nei dialoghi radiofonici con Ferrari il nostro paese e la nostra letteratura. Non manca l’ammirazione di Borges per Virgilio e per Dante; per Roma, vista come prolungamento della Grecia; e per il Mezzogiorno d’Italia, che vuol dire Vico, “la sua teoria dei cicli della storia”; vuol dire Croce, la “sua stupenda Estetica”; vuol dire Marino, “il più gran poeta barocco, che fu maestro di Gòngora”. Il suo amato Gòngora. Il poeta che fece del sogno una rappresentazione drammatica e di noi tutti, quando dormiamo e sogniamo, dei drammaturghi: «Il sogno, grande autore di commedie,/nel suo teatro sul vento levato/ombre suole vestir di bell’aspetto».

Definisce poi l’Eneide squisita epopea. E si chiede infine cosa si può ancora scrivere dopo la Divina Commedia, un libro che contiene tutto. Meravigliandosi degli italiani che hanno avuto il coraggio di scrivere dopo Dante. E così, con il suono di queste parole, ci si avvia alla fine del libro.

Felici, come Borges all’inizio della conversazione, spegniamo la radio immaginaria che non abbiamo ascoltato. Con l’assoluta certezza che i ricordi di quest’uomo che fu poeta, narratore, critico, esteta, fine letterato riguardano più la letteratura che la vita. Sono più i ricordi di ciò che ha letto che di ciò che ha vissuto. Sono il libro grande di cui noi siamo le lettere, una sfilza di segni sulle pagine bianche. La storia universale cui apparteniamo. 
 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]