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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 157 / GENNAIO 2021 (CLXXXVIII)


moderna

BENVENUTO CELLINI E IL SACCO DI ROMA DEL 1527
LE nobili IMPRESE dell'artista

di Ester Sintini

 

È il 3 novembre del 1500. A Firenze, città virtuosa per l’arte e per gli ingegni che l’hanno popolata e attraversata, nasce un uomo destinato a dare gran lustro al luogo che ha avuto l’onore di dargli i natali. Benvenuto, tale di nome e di fatto, è figlio di Giovanni d’Andrea di Cristofano Cellini, musicista e costruttore di strumenti. Il figlio ne segue le orme per un po; e si badi che egli è musico talmente eccellente, che papa Clemente VII, udendolo al Belvedere Vaticano, gli chiede di suonare nella sua corte. In realtà, le doti di Benvenuto sono molteplici: ottimo musico, superbo disegnatore, incisore e orafo dalla mano sublime; nonché pratico tiratore di archibugio, dote cui ricorre più volte negli anni.

 

La vita di Benvenuto è avventurosa, satura di intrighi, duelli, fughe e combattimenti. La sceneggiatura per un film d’azione, da cui il fiorentino ricava una lunga autobiografia. L’enorme affresco che l’autore fa di se stesso porta i lettori in giro per le corti, tra le dame e i Papi, gli attaccabrighe e gli apprendisti sfaticati, nei tribunali e nelle carceri. È sicuramente una lettura appassionante, ma in questa sede vorrei occuparmi solo di una frazione del testo.

 

Benvenuto, lo abbiamo detto, nasce nel 1500. Lo stesso anno, il 24 febbraio, Gand dà i natali, in una culla più sontuosa, ad un uomo che erediterà il trono di un luminoso impero. Nel frattempo, su quel trono siede il nonno, Massimiliano I d’Asburgo. È carismatico, un grande mecenate, nobile e valoroso cavaliere; ma anche un sovrano dalle mani bucate, e un «cattivo giardiniere». Massimiliano è la perfetta rappresentazione dei sovrani del suo tempo. Come tale, intesse legami matrimoniali efficaci, si fa strada con forza attraverso i suoi nemici, soprattutto se portatori di vessilli francesi, crede negli oroscopi e si pone in contrasto con la Chiesa. Raccoglie nella sua corona un grande sogno, che entrerà di buon grado nella dote da passare ai successori: diventare il perno di un impero unito, e cristiano. Come di tradizione asburgica, famiglia cattolicissima, l’Imperatore vede se stesso tra i campioni della difesa religiosa. E non gli dispiacerebbe, perché no, ritagliare un poco del suo tempo per pianificare una crociata. O per diventare Papa. Questi, però, resteranno sogni nel cassetto.

 

L’inimicizia vagante tra Chiesa e Impero scivola sulle pareti della storia per lungo tempo e, quando sia Benvenuto che Carlo V compiono ventisette anni, accade qualcosa.

 

Dobbiamo partire dal 1499, quando la Francia si allea con Venezia per occupare il ducato di Milano. Milano cade; sembrano tutti soddisfatti, tranne Ludovico il Moro. Poi però accade che Venezia decide di espandersi un po’ troppo, arrivando ad occupare Faenza e Rimini. Il nuovo, combattivo pontefice, Giulio II, vuole che la Serenissima ritiri le truppe; ma la città la pensa diversamente. Nel 1509 la faccenda viene risolta dalla lega di Cambrai: Impero, Spagna e Francia si alleano contro Venezia, per la gioia del Papa. Un’alleanza che non dura: le inimicizie sbocciano come margherite a primavera, e il Papa decide di farsi da parte, cambiando bersaglio nei suoi giochi di guerre: ora tocca alla Francia.

 

Viene stipulata una nuova unione, la Lega Santa, tra papato, svizzeri, Spagna e Inghilterra, sempre pronte a far guerra al nemico francese. Pochi anni dopo, nel 1515, sale al trono francese l’eterno sfidante del futuro Carlo V: Francesco I. Senza por tempo in mezzo, decide che è ora di tornare in Italia, come a suo tempo fece Carlo VIII; e riesce a prendersi Milano. Nel 1516, a Nyon, Francia e Spagna fanno pace, ma la tregua ha vita breve.

 

Negli anni ‘20 per Carlo V è il momento di riprendersi Milano, e soprattutto la Borgogna. È la vittoria schiacciante dell’Imperatore, fresco di nomina. Le sue truppe, nel 1524, vincono Francesco I, e lo fanno anche prigioniero. Francesco è costretto alla firma del trattato di Madrid, di cui non manterrà nemmeno una virgola. E si riparte all’attacco. Nel 1526 il francese riunisce la seconda Lega Santa, con la Chiesa, Venezia e il Ducato di Milano, per il quale si pianifica la liberazione dalle mani imperiali. In teoria gli obiettivi sono molteplici, non solo l’azione nel milanese: c’è in mezzo una guerra contro Genova, la presa di Napoli, e la liberazione dei figli di Francesco I, ancora in ostaggio. E poi, guerra aperta contro Carlo.

 

Il problema fondamentale fu, probabilmente, che ognuno badava solo ai propri affari. Alla fine Francesco I, forse troppo preso da «caccia e altri sollazzi», non terrà fede nemmeno ad una delle promesse fatte alla Lega. Per Guicciardini, che ricorda bene gli avvenimenti, e li descrive nella Storia d’Italia, la fortuna giocò un ruolo da protagonista. Il destino, che per molti uomini del tempo giace già scritto da qualche parte, forse nelle stelle, porterà la guerra fino alle porte di Roma. Piuttosto che il destino, preferisco pensare che sia, come spesso accade, tutta opera degli uomini.

 

La liberazione di Milano non avviene, vuoi per i ritardi nell’arrivo delle truppe svizzere, vuoi perché il generale delle truppe dei legati, Francesco Maria della Rovere, ha in antipatia sia il Papa che i Medici in generale, e combatte con poco entusiasmo. Tant’è che, ad un certo punto, Milano capitola. I francesi non si muovono; Clemente VII si vede, disperato, a dover fuggire a Castel Sant’Angelo. Pompeo Colonna, al comando dell’esercito imperiale, arriva fino alla zona di Borgo, poi al Vaticano. Per salvare qualcosa, il Papa deve promettere di far ritirare l’esercito da Genova e dall’area lombarda.

 

Intanto, Georg von Frundsberg si manifesta sul campo di battaglia, seguito da quattordicimila lanzichenecchi, che sbaragliano l’azione avversa di Giovanni de Medici, detto delle Bande Nere, mentre Francesco Maria della Rovere resta a guardare.

 

Arriva il fatidico 1527. L’esercito imperiale è alle porte di Roma, e gli alleati della Lega non rispondono agli appelli del Papa. Si può solo tentare una tardiva difesa della città. Intanto, anche i lanzichenecchi fremono: i soldati reclamano la paga, e i generali promettono loro, per tenerli a bada, un enorme bottino. Il 6 maggio c’è nebbia e piove. L’esercito imperiale viola la Città Santa e, nel caos dei primi momenti d’azione, Carlo di Borbone, generale al soldo di Carlo V, viene colpito da un proiettile d’archibugio.

 

«Giugnemmo alle mura di Campo Santo, e quivi vedemmo quel maraviglioso esercito, che di già faceva ogni suo sforzo per entrare. A quel luogo delle mura, dove noi ci accostammo, v’era molti giovani morti da quei di fuora: quivi si combatteva a più potere: era una nebbia folta quanto immaginar si possa». È così che Benvenuto descrive ciò che vede con i propri occhi il giorno dell’ingresso a Roma del nemico imperiale. Aggiungendo «quelli (gli imperiali) montano e questi (i legati) fuggono», completa il quadro della supremazia imperiale sul campo di battaglia. Tuttavia egli non perde la sua audacia, e, affermando che «da poi che voi (i suoi amici) mi avete menato qui, gli è forza fare qualche atto da uomo», si mette all’opera. Punta l’archibugio su un gruppo di soldati abbastanza folto, incita gli amici a fare lo stesso, e prende di mira un uomo in posizione più elevata rispetto alla folla. Poi spara; e Carlo di Borbone muore. O almeno, questo è quanto Cellini ci riferisce. D’altra parte, un uomo del suo calibro non poteva che colpire il generale avversario, niente di meno.

 

Cellini e i compagni fuggono verso Castel Sant’Angelo, dove il Papa ha trovato rifugio, e subito Benvenuto viene posto sul Maschio, con il suo fido archibugio in mano. Accanto a lui, soldati disperati temono nel prendere la mira sui nemici sotto di loro: non vogliono colpire le proprie case, le loro famiglie. Cellini si fa meno scrupoli; non si fa prendere da «cotai passione», e fa fuoco senza pensarci due volte. Posto sulla cima del Castello, Benvenuto ha il compito di fare ogni sera tre fuochi. È un messaggio all’esercito della Lega: avverte che Roma non è ancora caduta, e che attendono il loro aiuto. Senza mezzi termini, Cellini ci informa che i soccorsi non arrivarono mai. Armato di falconetto e sacro, nulla ferma l’offensiva dell’orafo: quando viene chiesto di cessare il fuoco, poiché il Papa sta trattando con il nemico, Benvenuto spara comunque. Il Cardinale Orsini vorrebbe punire questa disobbedienza con l’impiccagione; ma Clemente VII difende Cellini.

 

Compie ogni giorno «qualche impresa nobilissima», qualche prodezza. Sono le «belle cose che in quella infernalità crudele» fanno risaltare Benvenuto agli occhi del Papa, nel caso già non lo avesse notato. Le atrocità del conflitto, cui seguono giorni di saccheggi, violenze e depravazioni di ogni genere sugli abitanti e sui loro averi, cadono un poco in secondo piano.

 

Tra le righe il fiorentino lamenta, un po’ come fece Guicciardini, la corrente avversa del destino, delle stelle, che gettano ombra su di lui. Credo invece che, se davvero il suo destino fosse stato scritto negli astri, almeno una stella avesse la vita di Benvenuto particolarmente a cuore. Scampa a diverse ondate di peste; conclude rapporti lavorativi a peso d’oro nella corti più importanti; sopravvive persino al Sacco del ‘27, dopo avervi partecipato.

 

Non è certamente un uomo senza macchia: attaccabrighe e vendicativo, non si cura di nascondere, nell’autobiografia, le scorribande all’insegna della violenza. Anche perché, dal suo personalissimo punto di vista, non c’è occasione in cui la ragione non sia dalla sua parte. Non si cura nemmeno di tralasciare gli svariati rapporti amorosi; desiderato da donne e uomini, finisce anche in tribunale per sodomia.

 

Il Sacco di Roma è uno dei più terribili eventi che percorrono le vie della Città Santa. Ne scuote le fondamenta, facendo tremare il pontefice fino alla punta dei capelli. Clemente VII, invecchiato e stanco, si riappacificherà con l’Imperatore incoronandolo a Bologna; non a Roma, dove vi era ancora troppo trambusto. Intanto, in Inghilterra si preparano all’Atto di Supremazia. E, come se non bastasse, la Riforma Protestante dilaga in tutta Europa. In questo calderone di avvenimenti che apriranno anni di contese teologiche, Cellini ci ricorda che Carlo V in persona, in occasione dell’incoronazione bolognese, vestito di viola e del nobile pallore imperiale, si è complimentato con lui per l’ottimo lavoro eseguito con il fermaglio del piviale per il Papa.

 

Non termina così la sua impresa. Alla fine dei giochi, a Sacco concluso, Benvenuto viene accusato di aver rubato dell’oro dal tesoro ecclesiastico. Da difensore di Castel Sant’Angelo ne diventa prigioniero, ma tenerlo a bada non è facile: organizza una fuga. Come? Calandosi dalla sua cella tramite una corda di lenzuoli annodati. Un finale molto scenografico, per una vita degna di un film d’azione dei nostri tempi.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]