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										moderna 
										
										
										BENVENUTO CELLINI E IL SACCO DI 
										ROMA DEL 1527LE nobili IMPRESE dell'artista
 
										
										
										di Ester Sintini 
										
										  
										
										È il 3 novembre del 
										1500. A Firenze, città virtuosa per 
										l’arte e per gli ingegni che l’hanno 
										popolata e attraversata, nasce un uomo 
										destinato a dare gran lustro al luogo 
										che ha avuto l’onore di dargli i natali. 
										Benvenuto, tale di nome e di fatto, è 
										figlio di Giovanni d’Andrea di 
										Cristofano Cellini, musicista e 
										costruttore di strumenti. Il figlio ne 
										segue le orme per un po; e si badi che 
										egli è musico talmente eccellente, che 
										papa Clemente VII, udendolo al Belvedere 
										Vaticano, gli chiede di suonare nella 
										sua corte. In realtà, le doti di 
										Benvenuto sono molteplici: ottimo musico, 
										superbo disegnatore, incisore e orafo 
										dalla mano sublime; nonché pratico 
										tiratore di archibugio, dote cui ricorre 
										più volte negli anni. 
										  
										
										La vita di Benvenuto 
										è avventurosa, satura di intrighi, 
										duelli, fughe e combattimenti. La 
										sceneggiatura per un film d’azione, da 
										cui il fiorentino ricava una lunga 
										autobiografia. L’enorme affresco che 
										l’autore fa di se stesso porta i lettori 
										in giro per le corti, tra le dame e i 
										Papi, gli attaccabrighe e gli 
										apprendisti sfaticati, nei tribunali e 
										nelle carceri. È sicuramente una lettura 
										appassionante, ma in questa sede vorrei 
										occuparmi solo di una frazione del testo.   
										
										
										Benvenuto, lo abbiamo detto, nasce nel 
										1500. Lo stesso anno, il 24 febbraio, 
										Gand dà i natali, in una culla più 
										sontuosa, ad un uomo che erediterà il 
										trono di un luminoso impero. Nel 
										frattempo, su quel trono siede il nonno, 
										Massimiliano I d’Asburgo. È carismatico, 
										un grande mecenate, nobile e valoroso 
										cavaliere; ma anche un sovrano dalle 
										mani bucate, e un «cattivo giardiniere». 
										Massimiliano è la perfetta 
										rappresentazione dei sovrani del suo 
										tempo. Come tale, intesse legami 
										matrimoniali efficaci, si fa strada con 
										forza attraverso i suoi nemici, 
										soprattutto se portatori di vessilli 
										francesi, crede negli oroscopi e si pone 
										in contrasto con la Chiesa. Raccoglie 
										nella sua corona un grande sogno, che 
										entrerà di buon grado nella dote da 
										passare ai successori: diventare il 
										perno di un impero unito, e cristiano. 
										Come di tradizione asburgica, famiglia 
										cattolicissima, l’Imperatore vede se 
										stesso tra i campioni della difesa 
										religiosa. E non gli dispiacerebbe, 
										perché no, ritagliare un poco del suo 
										tempo per pianificare una crociata. O 
										per diventare Papa. Questi, però, 
										resteranno sogni nel cassetto.   
										
										L’inimicizia vagante 
										tra Chiesa e Impero scivola sulle pareti 
										della storia per lungo tempo e, quando 
										sia Benvenuto che Carlo V compiono 
										ventisette anni, accade qualcosa.   
										
										Dobbiamo partire dal 
										1499, quando la Francia si allea con 
										Venezia per occupare il ducato di 
										Milano. Milano cade; sembrano tutti 
										soddisfatti, tranne Ludovico il Moro. 
										Poi però accade che Venezia decide di 
										espandersi un po’ troppo, arrivando ad 
										occupare Faenza e Rimini. Il nuovo, 
										combattivo pontefice, Giulio II, vuole 
										che la Serenissima ritiri le truppe; ma 
										la città la pensa diversamente. Nel 1509 
										la faccenda viene risolta dalla lega di 
										Cambrai: Impero, Spagna e Francia si 
										alleano contro Venezia, per la gioia del 
										Papa. Un’alleanza che non dura: le 
										inimicizie sbocciano come margherite a 
										primavera, e il Papa decide di farsi da 
										parte, cambiando bersaglio nei suoi 
										giochi di guerre: ora tocca alla Francia.   
										
										Viene stipulata una 
										nuova unione, la Lega Santa, tra papato, 
										svizzeri, Spagna e Inghilterra, sempre 
										pronte a far guerra al nemico francese. 
										Pochi anni dopo, nel 1515, sale al trono 
										francese l’eterno sfidante del futuro 
										Carlo V: Francesco I. Senza por tempo in 
										mezzo, decide che è ora di tornare in 
										Italia, come a suo tempo fece Carlo 
										VIII; e riesce a prendersi Milano. Nel 
										1516, a Nyon, Francia e Spagna fanno 
										pace, ma la tregua ha vita breve.   
										
										Negli anni ‘20 per 
										Carlo V è il momento di riprendersi 
										Milano, e soprattutto la Borgogna. È la 
										vittoria schiacciante dell’Imperatore, 
										fresco di nomina. Le sue truppe, nel 
										1524, vincono Francesco I, e lo fanno 
										anche prigioniero. Francesco è costretto 
										alla firma del trattato di Madrid, di 
										cui non manterrà nemmeno una virgola. E 
										si riparte all’attacco. Nel 1526 il 
										francese riunisce la seconda Lega Santa, 
										con la Chiesa, Venezia e il Ducato di 
										Milano, per il quale si pianifica la 
										liberazione dalle mani imperiali. In 
										teoria gli obiettivi sono molteplici, 
										non solo l’azione nel milanese: c’è in 
										mezzo una guerra contro Genova, la presa 
										di Napoli, e la liberazione dei figli di 
										Francesco I, ancora in ostaggio. E poi, 
										guerra aperta contro Carlo.   
										
										Il problema 
										fondamentale fu, probabilmente, che 
										ognuno badava solo ai propri affari. 
										Alla fine Francesco I, forse troppo 
										preso da «caccia e altri sollazzi», non 
										terrà fede nemmeno ad una delle promesse 
										fatte alla Lega. Per Guicciardini, che 
										ricorda bene gli avvenimenti, e li 
										descrive nella Storia d’Italia, 
										la fortuna giocò un ruolo da 
										protagonista. Il destino, che per molti 
										uomini del tempo giace già scritto da 
										qualche parte, forse nelle stelle, 
										porterà la guerra fino alle porte di 
										Roma. Piuttosto che il destino, 
										preferisco pensare che sia, come spesso 
										accade, tutta opera degli uomini.   
										
										La liberazione di 
										Milano non avviene, vuoi per i ritardi 
										nell’arrivo delle truppe svizzere, vuoi 
										perché il generale delle truppe dei 
										legati, Francesco Maria della Rovere, ha 
										in antipatia sia il Papa che i Medici in 
										generale, e combatte con poco entusiasmo. 
										Tant’è che, ad un certo punto, Milano 
										capitola. I francesi non si muovono; 
										Clemente VII si vede, disperato, a dover 
										fuggire a Castel Sant’Angelo. Pompeo 
										Colonna, al comando dell’esercito 
										imperiale, arriva fino alla zona di 
										Borgo, poi al Vaticano. Per salvare 
										qualcosa, il Papa deve promettere di far 
										ritirare l’esercito da Genova e 
										dall’area lombarda.   
										
										Intanto, Georg von 
										Frundsberg si manifesta sul campo di 
										battaglia, seguito da quattordicimila 
										lanzichenecchi, che sbaragliano l’azione 
										avversa di Giovanni de Medici, detto 
										delle Bande Nere, mentre Francesco Maria 
										della Rovere resta a guardare.   
										
										Arriva il fatidico 
										1527. L’esercito imperiale è alle porte 
										di Roma, e gli alleati della Lega non 
										rispondono agli appelli del Papa. Si può 
										solo tentare una tardiva difesa della 
										città. Intanto, anche i lanzichenecchi 
										fremono: i soldati reclamano la paga, e 
										i generali promettono loro, per tenerli 
										a bada, un enorme bottino. Il 6 maggio c’è nebbia e piove. L’esercito imperiale 
										viola la Città Santa e, nel caos dei 
										primi momenti d’azione, Carlo di Borbone, 
										generale al soldo di Carlo V, viene 
										colpito da un proiettile d’archibugio.   
										
										«Giugnemmo alle mura 
										di Campo Santo, e quivi vedemmo quel 
										maraviglioso esercito, che di già faceva 
										ogni suo sforzo per entrare. A quel 
										luogo delle mura, dove noi ci accostammo, 
										v’era molti giovani morti da quei di 
										fuora: quivi si combatteva a più potere: 
										era una nebbia folta quanto immaginar si 
										possa». È così che Benvenuto descrive 
										ciò che vede con i propri occhi il 
										giorno dell’ingresso a Roma del nemico 
										imperiale. Aggiungendo «quelli (gli 
										imperiali) montano e questi (i legati) 
										fuggono», completa il quadro della 
										supremazia imperiale sul campo di 
										battaglia. Tuttavia egli non perde la 
										sua audacia, e, affermando che «da poi 
										che voi (i suoi amici) mi avete menato 
										qui, gli è forza fare qualche atto da 
										uomo», si mette all’opera. Punta 
										l’archibugio su un gruppo di soldati 
										abbastanza folto, incita gli amici a 
										fare lo stesso, e prende di mira un uomo 
										in posizione più elevata rispetto alla 
										folla. Poi spara; e Carlo di Borbone 
										muore. O almeno, questo è quanto Cellini 
										ci riferisce. D’altra parte, un uomo del 
										suo calibro non poteva che colpire il 
										generale avversario, niente di meno.   
										
										Cellini e i compagni 
										fuggono verso Castel Sant’Angelo, dove 
										il Papa ha trovato rifugio, e subito 
										Benvenuto viene posto sul Maschio, con 
										il suo fido archibugio in mano. Accanto 
										a lui, soldati disperati temono nel 
										prendere la mira sui nemici sotto di 
										loro: non vogliono colpire le proprie 
										case, le loro famiglie. Cellini si fa 
										meno scrupoli; non si fa prendere da «cotai 
										passione», e fa fuoco senza pensarci due 
										volte. Posto sulla cima del Castello, 
										Benvenuto ha il compito di fare ogni 
										sera tre fuochi. È un messaggio 
										all’esercito della Lega: avverte che 
										Roma non è ancora caduta, e che 
										attendono il loro aiuto. Senza mezzi 
										termini, Cellini ci informa che i 
										soccorsi non arrivarono mai. Armato di 
										falconetto e sacro, nulla ferma 
										l’offensiva dell’orafo: quando viene 
										chiesto di cessare il fuoco, poiché il 
										Papa sta trattando con il nemico, 
										Benvenuto spara comunque. Il Cardinale 
										Orsini vorrebbe punire questa 
										disobbedienza con l’impiccagione; ma 
										Clemente VII difende Cellini.   
										
										Compie ogni giorno «qualche 
										impresa nobilissima», qualche prodezza. 
										Sono le «belle cose che in quella 
										infernalità crudele» fanno risaltare 
										Benvenuto agli occhi del Papa, nel caso 
										già non lo avesse notato. Le atrocità 
										del conflitto, cui seguono giorni di 
										saccheggi, violenze e depravazioni di 
										ogni genere sugli abitanti e sui loro 
										averi, cadono un poco in secondo piano.   
										
										Tra le righe il 
										fiorentino lamenta, un po’ come fece 
										Guicciardini, la corrente avversa del 
										destino, delle stelle, che gettano ombra 
										su di lui. Credo invece che, se davvero 
										il suo destino fosse stato scritto negli 
										astri, almeno una stella avesse la vita 
										di Benvenuto particolarmente a cuore. 
										Scampa a diverse ondate di peste; 
										conclude rapporti lavorativi a peso 
										d’oro nella corti più importanti; 
										sopravvive persino al Sacco del ‘27, 
										dopo avervi partecipato.   
										
										Non è certamente un 
										uomo senza macchia: attaccabrighe e 
										vendicativo, non si cura di nascondere, 
										nell’autobiografia, le scorribande 
										all’insegna della violenza. Anche perché, 
										dal suo personalissimo punto di vista, 
										non c’è occasione in cui la ragione non 
										sia dalla sua parte. Non si cura nemmeno 
										di tralasciare gli svariati rapporti 
										amorosi; desiderato da donne e uomini, 
										finisce anche in tribunale per sodomia.   
										
										Il Sacco di Roma è 
										uno dei più terribili eventi che 
										percorrono le vie della Città Santa. Ne 
										scuote le fondamenta, facendo tremare il 
										pontefice fino alla punta dei capelli. 
										Clemente VII, invecchiato e stanco, si 
										riappacificherà con l’Imperatore 
										incoronandolo a Bologna; non a Roma, 
										dove vi era ancora troppo trambusto. 
										Intanto, in Inghilterra si preparano 
										all’Atto di Supremazia. E, come se non 
										bastasse, la Riforma Protestante dilaga 
										in tutta Europa. In questo calderone di 
										avvenimenti che apriranno anni di 
										contese teologiche, Cellini ci ricorda 
										che Carlo V in persona, in occasione 
										dell’incoronazione bolognese, vestito di 
										viola e del nobile pallore imperiale, si 
										è complimentato con lui per l’ottimo 
										lavoro eseguito con il fermaglio del 
										piviale per il Papa.   
										
										Non termina così la 
										sua impresa. Alla fine dei giochi, a 
										Sacco concluso, Benvenuto viene accusato 
										di aver rubato dell’oro dal tesoro 
										ecclesiastico. Da difensore di Castel 
										Sant’Angelo ne diventa prigioniero, ma 
										tenerlo a bada non è facile: organizza 
										una fuga. Come? Calandosi dalla sua 
										cella tramite una corda di lenzuoli 
										annodati. Un finale molto scenografico, 
										per una vita degna di un film d’azione 
										dei nostri tempi. |