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N. 100 - Aprile 2016 (CXXXI)

BELLUM CATILINAE

RITRATTO DI CATILINA - PARTE III

di Paola Scollo

 

La sequenza dei delitti compiuti da Catilina riprende al capitolo XVI, laddove è contenuto un esempio di exaggeratio, espediente adoperato più volte in tragedia per descrivere una catena di mali che generano altri mali. Sallustio scrive (XVI 1 - 2): «I giovani che, come ho detto sopra, aveva adescato, li istruiva in molti modi al delitto. Forniva, scegliendoli tra loro, falsi testimoni e firmatari; li incitava a disprezzare la parola data, le ricchezze, i pericoli; poi, quando aveva distrutto il loro buon nome e il loro onore, comandava altri e più orrendi crimini. Se sul momento mancava un’occasione per delinquere, nondimeno li induceva ad assalire e sgozzare i colpevoli come gli innocenti: preferiva essere malvagio e feroce senza motivo, certamente per evitare che la mano o l’animo si intorpidissero nell’inerzia. Confidando su tali amici e alleati Catilina concepì il disegno di rovesciare lo stato. Tutto era calmo e tranquillo, dunque favorevole a Catilina». Di qui la digressione sulla prima congiura della fine del 66. Sallustio non intende assolvere Catilina, tuttavia cerca di comprendere le ragioni della sua condotta. In questo contesto un ruolo rilevante occupa il primo discorso di Catilina ai congiurati (XX). Il rivolgersi ai propri milites è un topos storiografico che testimonia l’importanza dell’oratio all’interno della narrazione storica.

 

Dopo aver accusato il ceto dominante avido di potere e ricchezze, Catilina esorta gli alleati al coraggio (virtus), alla fedeltà (fides) e alla libertà (libertas): «Noi abbiamo la miseria in casa, i debiti fuori, un presente difficile, un futuro ancora più duro: insomma, che cosa ci resta se non una vita miserabile? Perché dunque non vi svegliate? Eccola, ecco la libertà che avete sempre desiderato; e ancora le ricchezze, l’onore, la gloria stanno davanti ai vostri occhi; la fortuna ha stabilito tutti quei premi per i vincitori. Più del mio discorso vi esortano le circostanze, l’occasione, i pericoli, la miseria, le splendide spoglie di guerra. Servitevi di me come capo o come semplice soldato; non vi mancheranno il mio cuore né il mio braccio. Queste cose, spero, le farò con voi da console, a meno che l’animo non mi inganni e che voi non siate più pronti a servire che a comandare (XX 13 - 17)». A ben vedere, manca qualsiasi richiamo alla moderazione e al rifiuto della violenza. Il successo dell’impresa è rimandato all’audacia e alla fides reciproca. Ma audacia ha qui sfumatura negativa: è coraggio temerario, privo di limiti. Tutti questi elementi concorrono a gettare luce sulla natura psicologica di Catilina e dei congiurati.

 

La caratterizzazione viene confermata dal secondo discorso, che riprende e amplifica i motivi del primo. Anche qui Catilina si appella alla virtus, all’audacia e alla spregiudicatezza degli alleati (LVIII 12 - 15): «Noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; per loro è superfluo battersi per il potere di pochi. Perciò attaccateli con più coraggio, memori dell’antico valore. Avreste potuto trascorrere la vita in esilio col massimo disonore; qualcuno di voi, perduti i beni, avrebbe potuto aspettare a Roma i soccorsi altrui. Ma dato che questo sembrava vergognoso e intollerabile per dei veri uomini, avete deciso di seguire questa strada. Se volete uscirne c’è bisogno di coraggio; nessuno se non il vincitore sa cambiare la guerra in pace». Queste parole sono spesso state valutate come vuoto esercizio retorico, perché non conformi né al contesto né al carattere di Catilina. Pur proponendo luoghi comuni della letteratura, l’oratio ben si inserisce e si salda entro il piano complessivo della monografia. I discorsi in Sallustio hanno anzitutto funzione di caratterizzazione psicologica: contribuiscono a definire l’indole del personaggio, dando voce alle sue convinzioni ideologiche.

 

Dopo l’excursus centrale, Sallustio riporta il dibattito in senato sulla condanna da infliggere ai congiurati. L’epilogo del dramma viene narrato a partire dal capitolo LV. Nella battaglia di Pistoia del gennaio del 62 Catilina trova la morte, sconfitto dall’esercito consolare guidato da Petreio. Secondo il racconto di Sallustio (LX 6), «Catilina, vedendo l’esercito sbaragliato e lui stesso rimasto con pochi uomini, memore della sua stirpe e della passata dignità (memor generis atque pristinae suae dignitatis) si getta dove i nemici sono più folti e lì, combattendo, viene trafitto». Anche dopo la morte, permangono sul volto i segni del coraggio e della fierezza d’animo. Il vigore di Catilina è tale da contagiare e nobilitare i suoi seguaci. Sembra che qui Sallustio non stia parlando dei depravati (improbi) che volevano rovesciare il potere costituito, ma di valorosi (probi) soldati. Ritorna il tema della nobilitas che, metaforicamente, viene esteso anche ai congiurati. Ma Sallustio non assolve Catilina, che continua ad essere ambiguo eroe del male. Emerge, piuttosto, il rammarico nei confronti di un personaggio che ha posto audacia e coraggio non in difesa della patria, ma della rovina. Questa amara riflessione getta inevitabilmente delle ombre anche sulla vittoria dell’esercito romano, che non è presentata con toni trionfalistici (LXI 7): «né d’altra parte l’esercito del popolo romano aveva conseguito una vittoria lieta o incruenta; infatti tutti i più coraggiosi o erano caduti in battaglia o si erano allontanati gravemente feriti». Sono ormai evidenti i segni della crisi della concezione, propria della tradizione annalistica, di historia come epopea del popolo romano. Per Sallustio la grandezza di Roma è frutto dell’azione di pochi individui che, grazie a mirabili virtutes, si distinguono dalla massa. E su tutto regna incontrastata la tyche, che guida e intreccia i destini degli uomini in modo imperscrutabile.



 

 

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