[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

166 / OTTOBRE 2021 (CXCVII)


moderna

SULLA BATTAGLIA DI LEPANTO

STORIA DI UN GIORNO ENTRATO NELLA LEGGENDA

di Titti Brunori Zezza

 

Era il 7 ottobre 1571, esattamente 450 anni fa, quando con un mare arrossato di sangue e seminato di “di giubbe, di turbanti, di carcassi, di frecce, di archi, di tamburri, di nacchere, di remi, di tavole, di casse, di valige e sopra ogni cosa di corpi umani” (Barbero 2010) si chiudeva il giorno in cui si combatté quella che diverrà la più famosa di tutte le battaglie nella storia della marineria a remi.

 

L’anno prima Venezia era stata colpita in uno dei territori più preziosi del suo vasto “Dominio da mar” a seguito dell’invasione da parte dell’Impero ottomano dell’isola di Cipro, allora tappa significativa lungo una delle rotte marittime che attraversavano il Mediterraneo nel senso dei paralleli. Possedimento, questo, a lungo ambito da Venezia in competizione con Genova per la sua importante posizione strategica, ma anche per la ricchezza di risorse agricole e minerarie che l’isola possedeva.

 

Vino, olio, miele, zucchero, cera, zafferano e soprattutto sale avevano rimpinguato i mercati veneziani da quando, a seguito di un lungo, tenace progetto di acquisizione, nel 1489 il dominio sull’isola le era stato ceduto a malincuore da Caterina Cornaro, appartenente a una famiglia del patriziato veneziano, che era andata sposa nel 1468 al sovrano Giacomo II di Lusignano e si era ritrovata reggente dell’isola alla morte di costui.

 

Al suo rientro in laguna, racconta Francesco Sansovino in “Venetia città nobilissima e singolare” del 1581, Caterina fu incontrata dal doge Agostino Barbarigo e da tutta la nobiltà e le fu poi donato il bellissimo castello di Asolo dove visse tenendo corte fino al 1510 anno della sua morte. Da allora e sino al 1570 il governo dell’isola fu saldamente retto dai Veneziani. In quegli anni i rapporti tra la Serenissima e gli Ottomani erano improntati a un reciproco rispetto in quanto vantaggi economici derivavano a entrambi dall’intreccio dei loro traffici commerciali.

 

Dopo la firma del Trattato di pace del 1479 tra le due potenze a Costantinopoli risiedeva in permanenza un ambasciatore veneziano, il cosiddetto “bailo”, che aveva il compito di intrattenere rapporti diplomatici con il Sultano, del quale, però, nel contempo controllava le mosse inviando dettagliati resoconti al Doge. Al momento dell’invasione di Cipro ricopriva tale incarico Marcantonio Barbaro manifestando preziose capacità di relazionarsi con la Corte del sultano di allora, Selim II, succeduto l’anno prima a Maometto II “il Conquistatore” di Costantinopoli.

 

A differenza del padre, che sempre il Sansovino definisce “Principe fortunato e prudente… che essaltò molto la casa othomana” contenendo l’aggressività espansionistica del suo popolo, il figlio era un sovrano più dedito ai piaceri terreni che alla politica. Pressato, però, dal bisogno di reperire risorse economiche per far fronte a numerosi progetti in corso di realizzazione nel suo vasto impero in quel 1570 si era risolto a strappare ai Veneziani, malgrado quel patto firmato qualche anno prima, l’isola di Cipro che egli riteneva facesse parte del suo impero. E in effetti l’isola era stata musulmana sino al 1191 quando Riccardo Cuor di Leone la portò sotto le insegne cristiane e restò come unico rifugio crociato anche quando i musulmani progressivamente estesero il loro dominio in quell’area geografica.

 

I Veneziani erano convinti che le imponenti opere difensive che avevano posto in atto negli anni precedenti, soprattutto in difesa dei due maggiori insediamenti dell’isola, Nicosia e Famagosta, sarebbero state in grado di respingere l’assalto nemico. Invece nei primi giorni di luglio del 1570 una poderosa armata di circa 100.000 uomini, sostenuta da una flotta di 350 navi, che era stata allestita in gran segreto nei mesi precedenti nell’arsenale di Costantinopoli tanto da sfuggire allo sguardo vigile del bailo veneziano, invade l’isola e pone l’assedio a Nicosia che in capo a qualche settimana cade. Quindi sarà la volta di Famagosta che resisterà sempre sotto assedio molto più a lungo, circa un anno, e della cui caduta e della tragica morte del suo comandante in capo Marcantonio Bragadin i Veneziani e l’Occidente intero verranno a sapere solo qualche giorno prima della vittoria conseguita nella battaglia di Lepanto.

 

Da allora quell’isola resterà per molti secoli a venire sotto il dominio ottomano e tutt’oggi, dopo un lungo travagliato contenzioso tra Greci e Turchi, sussiste lo strascico di una divisione politico-territoriale che vede una Repubblica turco-cipriota, riconosciuta internazionalmente solo dalla Turchia, contrapporsi a una Repubblica greco-cipriota che è entrata nel frattempo a far parte della Comunità europea.

 

Chi visitasse Nicosia oggi proverebbe ancora grande ammirazione per l’imponente opera di ingegneria militare messa in atto dai Veneziani tra il 1567 e il 1570: consolidate le mura che circondavano la città dotandole di dodici bastioni, per sgomberare da qualsiasi ostacolo la mira dei difensori, erano state abbattute anche tutte le costruzioni all’intorno e persino un corso d’acqua era stato deviato per rendere imprendibile la città.

 

Ma a nulla valse tutto questo. La notizia dell’invasione dell’isola giunta in Occidente con la lentezza dei mezzi di comunicazione di allora provoca grande preoccupazione non solo nei Veneziani. Infatti la minaccia di una ulteriore espansione territoriale e religiosa dell’Impero ottomano nel Mediterraneo occidentale era a quel tempo percepito come un pericolo concreto anche da altri Stati.

 

Lo Stato pontificio, in primis, al cui soglio era asceso nel 1566 Pio V Ghislieri, uomo intransigente e fermo nel difendere i valori cristiani, ma anche la Spagna del re Filippo II, allora alle prese con la rivolta nel sud del Paese dei “moriscos”, una enclave musulmana difficile da domare e con i pirati barbareschi del nord Africa.

 

Alla notizia dell’invasione di Cipro il Papa si fece da subito promotore di un’alleanza tra le maggiori potenze europee contro l’odiato nemico, coinvolgendo ovviamente Venezia, la Spagna, Genova, la Savoia e Malta e mettendo a disposizione anche le risorse del suo Stato al fine di allestire una flotta comune per portare soccorso agli assediati e sconfiggere il temibile nemico. Il coordinamento delle forze cristiane sarebbe stato affidato al giovane ventiquatrenne don Juan d’Austria, figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II che sopporterà, poi, il peso maggiore dell’impresa.

 

Ma quanto travagliata fu la concretizzazione di quella alleanza che solo il 25 maggio 1571 nella sala del Concistoro il Papa potè presentare come una Lega Santa. Quanto estenuanti furono le trattative condotte dai rappresentanti diplomatici preposti a mediare, gestire, interpretare i desiderata dei rispettivi governi! Rivalità, diffidenze, in particolare tra veneziani e spagnoli, unitamente alle reali difficoltà di allora di comunicare tempestivamente a distanza, avevano creato numerosi fraintendimenti tra quegli alleati, con colpi di scena dalla cadenza quasi giornaliera. Trascorsero dunque molti mesi mentre tutto il Mediterraneo era in fermento. Lo scontro era nell’aria e ciascuna potenza si adoperava come poteva per mettere in mare la sua flotta.

 

Si studia la strategia da adottare: i comandanti riflettono sulla tattica migliore da impiegare per ciascuno di loro. Si contano e si ricontano le imbarcazioni necessarie per battere il nemico, che erano varie, ciascuna con diverse caratteristiche: galere, maone, caramussali, palandarie e le galeazze, fiore all’occhiello della marineria veneziana: “alte come castelli in mare”, irte di cannoni e di colubrine e sempre schierate davanti al grosso della flotta. Ma bisognava anche procurarsi gli equipaggi, soprattutto i rematori e i soldati, che non si reperiscono con facilità, per cui per quanto riguarda i primi l’arruolamento viene imposto a volte forzatamente e allora ecco la fuga sui monti di chi non vuol essere cooptato, oppure si impiegano i condannati al carcere e così ci spieghiamo perchè oggi il termine “galeotto” sia sinonimo di detenuto e “galera” di carcere, oppure si cercano volontari.

 

Ciascun imbarcato, civile o soldato, aveva funzioni diverse e tutte indispensabili: c’erano il comito e il sopracomito con funzioni di comando, il capociurma che gestiva il vettovagliamento, un pilota, uno scrivano, un cappellano e anche artigiani specializzati come il carpentiere, il calafato, il remiere, il barilaro e anche il barbiere-chirurgo, ma soprattutto c’erano quei rematori, un centinaio per ogni galera, e tutti dovevano pur essere sfamati con enormi quantità di “biscotto” che bisognava reperire. I Veneziani previdenti avevano dislocato da tempo sull’isola di Corfù, anch’essa allora facente parte dei loro territori, un impianto di panificazione all’ingrosso, obiettivo sensibile da difendere sempre dagli assalti nemici.

 

Passano, così, altri mesi e finalmente nei primi giorni di settembre del 1571 si riunisce a Messina la più imponente flotta navale della cristianità, la quale, però, in breve sarà costretta a mutare la pianificazione dello scontro navale con il nemico poiché la flotta ottomana nel frattempo ha attraversato il Mediterraneo proponendosi di risalire l’Adriatico per colpire Venezia al cuore, mentre i corsari berberi giungono nei pressi della laguna di Venezia seminando terrore.

 

Rintuzzati dai Veneziani i loro attacchi a Cattaro e a Corfù, con problemi sanitari a bordo e temendo di essere presi alle spalle dal nemico, gli Ottomani verso la fine di settembre ridiscendono lungo la costa dalmata sino a Prevesa. Non ricevendo indicazioni utili dal Sultano per le ben note difficoltà di comunicazione ed essendo ormai sopraggiunta la stagione autunnale, invece di raggiungere Costantinopoli, come era prassi allora, entro il 26 ottobre giorno di San Demetrio, sempre in attesa di ordini, decidono di rifugiarsi nello stretto braccio di mare che all’epoca del loro primo insediamento in quell’area, per una reminiscenza dei luoghi d’origine, avevano chiamato “Piccoli Dardanelli”. Un limite, questo, ritenuto da loro invalicabile, ben protetto da due avamposti che avevano da subito fortificato per ricoverare in sicurezza le loro imbarcazioni quando si trovassero lontano dalla madrepatria. Era quello lo stretto passaggio dall’ampio golfo di Patrasso a quello di Corinto, allora denominato dai Veneziani golfo di Lepanto invece che di Naupaktos come i Greci lo chiamavano.

 

Certamente la data in cui avverrà poco dopo lo storico scontro risulta per quei tempi anomala. Infatti a partire dall’autunno e sino alla primavera successiva la navigazione nel Mediterraneo si faceva a quel tempo molto rara per il possibile sopraggiungere di avversità atmosferiche per cui anche le operazioni belliche in quel periodo venivano sospese. Ma le difficoltà incontrate nell’allestimento e nel coordinamento dell’ingente flotta cristiana, le condizioni meteo avverse degli ultimi tempi e il reciproco studio delle mosse da parte dei due schieramenti nemici avevano procrastinato il momento dello scontro. La flotta cristiana, tuttavia, sfidando eventuali burrasche, desiderosa di vendetta, dopo essersi spostata da Messina a Corfù per imbarcare altri soldati, alla fine decide di stanare il nemico.

 

Arriva così il fatidico giorno e le due flotte vanno incontro l’una all’altra in quello stretto specchio di mare. Tutte le galere alzano gli stendardi di battaglia, i Veneziani il loro gonfalone scarlatto e dorato con il leone di San Marco. Gli equipaggi ballano freneticamente al suono assordante delle trombe, dei pifferi, dei tamburi e pregano ciascuno il proprio dio impetrando la vittoria poiché in certi frangenti gli uomini sono tutti uguali: coraggiosi o vili, crudeli o generosi, buoni o malvagi. Poi le cannonate, le scariche di artiglieria, il fuoco greco, gli speronamenti e quindi l’assalto della fanteria che dalla “rembata” si lancia sulla galera nemica. Infine il saccheggio in un’orgia incontenibile di violenza e di smania di bottino.

 

Fu una battaglia navale dura, senza esclusione di colpi. La flotta ottomana perse in quanto la sua potenza di fuoco risultò da subito nettamente inferiore. I suoi arcieri erano “bellissimi da vedere con quella diversità di turbanti che portano in testa e con l’habito”, come rileva Ferrante Caracciolo nei suoi Commentarii del 1581, ma le loro frecce risultarono poco efficaci contro uomini ben difesi dalle loro armature, abili nello sparare con l’archibugio e nel bombardare le navi nemiche con palle di ferro e di pietra.

 

Le forze cristiane ebbero la meglio sul piano politico e militare, ma senza significative conseguenze positive per il mondo cristiano tanto che meno di due anni dopo, il 7 marzo 1573, verrà sottoscritta una pace separata tra Venezia e l’Impero ottomano. Gli interessi economici pragmaticamente ebbero la meglio sulle altre motivazioni che, secondo gli alleati della Lega Santa, li avrebbero dovuto indurre a proseguire nell’azione bellica. Artefici di quel trattato di pace conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, lettere d’oro su pergamena, furono il doge Alvise Mocenigo e il sultano Selim II.

 

Enorme però dopo la vittoria fu l’impatto emotivo e propagandistico di quella battaglia in tutto l’Occidente tanto che il suo ricordo perdura ancora, complice anche la rapida diffusione della notizia tramite l’impiego dei caratteri a stampa che vedono nella Venezia di allora un centro attivissimo. Incisioni, acquetinte, dipinti a olio realizzati da numerosi artisti, da Tiziano al Tintoretto, al Veronese, ma anche più avanti nel tempo, da Sebastiano Ricci, nonché da Gustave Dorè hanno celebrato a più riprese e fissato nella memoria collettiva il grande evento, quella vittoria per mare che sfatava la fama di invincibilità della flotta ottomana e aveva mantenuto libero il mondo cristiano.

 

Oggi la Lepanto che vide quel giorno il suo mare arrossarsi di sangue è un’amena località balneare che ha fatto dell’attività turistica la sua fonte economica principale. Attorno al suo porticciolo, dove si dondolano le barche dei pescatori locali e attraccano quelle da diporto battenti bandiere di diverse nazionalità, numerosi bar e taverne e alberghi offrono ristoro d’estate al turista accaldato. Da qui si diparte un ampio lungomare ombreggiato da imponenti platani che denunciano la presenza di acqua nel sottosuolo, quell’acqua che scende in abbondanza dai monti retrostanti dell’Etolia e alimenta le numerose fontanelle.

 

Non lontano da Lepanto sfocia in mare anche il fiume Acheloo di antica memoria, oggi chiamato Aspropotamo, uno dei più lunghi della Grecia. I sedimenti accumulati alla foce da quest’ultimo hanno fatto sì che nel tempo siano scomparse, inglobate nella terraferma, parte delle isolette rocciose che costituivano al tempo della battaglia l’arcipelago delle Curzolari. Là, parte della flotta cristiana, l’ala sinistra per la precisione, nonché l’ala destra di quella ottomana, si incunearono nel momento iniziale dello scontro e per questo da parte di alcuni si parla ancora oggi della battaglia delle Curzolari.

 

Tracce delle opere difensive con cui gli Ottomani avevano fortificato i due avamposti sono ancora oggi visibili, ma l’uno e l’altro si sono trasformati in due piccoli insediamenti, Rion e Andirion è il loro nome, acquisendo rinnovata visibilità in quanto costituiscono i terminali del nuovo imponente ponte inaugurato in occasione delle Olimpiadi tenutesi in Grecia nel 2004.

 

Neppure la linea di costa, assai più avanzata rispetto al passato, oggi corrisponde più a quella visibile nel XVI secolo. A ridosso della cinta muraria che delimita il porticciolo della cittadina un “Parco culturale” invita a conservare memoria di quel giorno, una memoria scevra da strumentalizzazioni improprie poiché la contrapposizione tra vincitori e vinti viene annullata dal senso della vanità della vittoria e della sconfitta che si susseguono e si scambiano le parti per ogni popolo.

 

Una statua di bronzo raffigurante Miguel de Cervantes, che partecipò a quella battaglia tra le forze spagnole e che mostrerà sempre con orgoglio le ferite ivi riportate, accoglie il visitatore all’ingresso. Il suo braccio destro alzato sembra trovare risposta in quello di un patriota greco che sugli spalti delle mura regge la fiaccola della libertà, monumento della Grecia moderna alla propria liberazione avvenuta secoli dopo.

 

Qui il 7 ottobre dell’anno 2000 a ricordo di quanti caddero o rimasero feriti in quella grandiosa battaglia navale anche Venezia ha voluto lasciare scritto sulla pietra: «A memoria imperitura della più grande battaglia nella storia della marina a remi e a monito solenne perchè i popoli del Mediterraneo in ripudio della guerra costruiscano insieme la pace».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza, Roma-Bari 2010.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]