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N. 96 - Dicembre 2015 (CXXVII)

LA BANDA CAVALLERO
UN ROMANZO SUI RAGAZZI DELLA BARRIERA

di Filippo Petrocelli
 

Volto spigoloso e sguardo intenso: appare così in tutte le foto d’epoca Pietro Cavallero. Ma lui, il bandito più famoso degli anni Sessanta, non era uno che amava mettersi in posa. Se non quando con un sorriso beffardo intonava Figli dell’officina nelle aule dei tribunali, affiancato dai due “storici” compagni di una vita, Sante Notarnicola e Adriano Roveletto, in uno show canoro che concludeva o apriva le sedute processuali che li riguardavano. È anche così che si è costruito il mito della banda di rapinatori a metà fra impegno politico e criminalità, con una giusta scelta del tempo e della situazione.

 

I ragazzi della Barriera di Claudio Bolognini, uscito per Agenzia X, racconta in chiave romanzata proprio la storia della cosiddetta “banda Cavallero” rimasta scolpita nell’immaginario collettivo per l’incredibile audacia delle rapine in banca – diciotto in totale – decantata avaramente sui quotidiani dell’epoca straripanti di notizie e reportage sui rapinatori.

 

Già a ridosso dagli eventi, Carlo Lizzani firmava il celebre Banditi a Milano capace di trasferire su pellicola la mitologia di quegli accadimenti. Ma se quel film si limitava a inscrivere il fenomeno in quello della “criminalità pura”, al contrario il libro di Bolognini scava nelle ragioni e nel background di quella che a tutti gli effetti era una banda di “rapinatori politicizzati” cresciuta attorno alle sedi torinesi del Pci.

 

Il libro I ragazzi della Barriera rievoca l’aria scanzonata degli anni Sessanta, senza dimenticare le criticità e gli squilibri che laceravano l’Italia del tempo. La passione politica e la violenza di cui era intrisa tutta la società che faceva ancora i conti con la guerra.

 

Nelle città divise rigidamente fra periferie e centro, fra quartieri di nuova costruzione e vecchi tuguri, si dipanano le vicende di questi giovani proletari affamati che restavano a guardare dalla finestra i lussi del boom economico. “Quello che mi dà più fastidio è che io devo comprare le sigarette cinque alla volta, mentre sotto i portici di via Roma ci sono quelli con le tasche piene che se la spassano”, così pensavano i ragazzi della Barriera, il quartiere popolare alle porte di Torino.

 

Insomma la rabbia e l’amore dei “napuli” come Sante Noternicola, figlio di emigrato in un quartiere popolare, in cui si raccontano nelle sedi di partito, le storie di partigiani e armi seppellite in montagna, di Resistenza tradita. Fanno capolino nel testo le parole di Pietro Cavallero, austero e fumantino, trascinatore instancabile e pianificatore meticoloso, cresciuto insofferente alla disciplina di partito ma sempre pronto a fare la rivoluzione e a donarsi ai compagni.

 

“La prima rapina serve per mangiare, la seconda, la terza e la quarta per fare la rivoluzione”. Questa era l’idea di Cavallero, Notarnicola e Rovoletto. Perché come ricorda Bolognini “non era facile coniugare le rapine in banca con la rivoluzione. Anche se Stalin ci era riuscito benissimo”. E in fondo per loro quelli erano espropri più che estorsioni. Un atto di ribellione più che un modo per arricchirsi.

 

La storia rappresenta un unicum anche in termini “criminologici”: è la prima volta in cui la cronaca nera sfonda gli argini dei casellari giudiziari, stuzzicando la curiosità dell’uomo qualunque e dell’opinione pubblica. Nel grigiore del Dopoguerra la vicenda della banda cavallero riaccende gli animi e diventa argomento di discussione diffuso evocando prese di posizione e di distanza.

 

E così fra chi simpatizza e chi invoca la pena di morte, ancora una volta il Belpaese si divide fra sostenitori e denigratori, fra partigiani del “pro” e integralisti del “contro”, con persone pronte a seguire le gesta della banda e altri che vorrebbero giustiziarli con le loro mani, questi fuorilegge da “assalto alle diligenze” ed estetica western.

 

Il libro termina con una chiacchierata con Sante Notarnicola, uno che da quella storia è ormai distante anni luce, pur non avendola mai rinnegata. Lui dietro le sbarre si è battuto contro le disumane condizioni delle galere nell’Italia repubblicana, continuando a tenere teso quel filo rosso della sua vita che difficilmente potrà spezzarsi.

 

Cavallero dopo anni di carcere si è convertito al cattolicesimo dedicando la vita al volontariato fra immigrati e tossicodipendenti ed è morto nel 1997. Rovoletto, l’autista della banda è invece scomparso di recente, ricordando in una delle ultime interviste prima di morire, che loro in fondo erano solo dei “proletari senza partito”.


 

 

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