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N. 126 - Giugno 2018 (CLVII)

UN'AUTOCRAZIA DALLA FACCIATA DEMOCRATICA
LA TURCHIA ALL'INDOMANI DELLE ELEZIONI

di Leila Tavi

 

Le elezioni che si sono svolte in Turchia lo scorso 24 giugno hanno sancito la vittoria del presidente Recep Tayyip Erdoğan, che con il 52,5 dei voti si appresta a ricoprire il suo secondo incarico con ampi poteri in base alla riforma costituzionale che è stata elaborata dopo il referendum del 16 aprile 2017, che gli gli assicura poteri illimitati, come quello di nominare ministri, vicepresidenti e alti funzionari, il potere di interferire nel sistema giudiziario e il potere di dichiarare in qualsiasi momento lo stato di emergenza. Inoltre il referendum costituzionale dello scorso anno, approvato con appena il 51% dei voti, ha abolito la figura del primo ministro, carica che lo stesso Erdoğan ha ricoperto per undici anni, dal marzo del 2003 all’agosto del 2014, prima di diventare presidente. La costituzione ora in vigore gli permette di candidarsi per un terzo mandato nel 2023, quando saranno trascorsi i cinque anni di questo secondo e se fosse di nuovo Erdoğan a vincere, potrebbe governare fino al 2018.

 

Nella nuova repubblica presidenziale turca è totalmente assente il principio del check and balance, tipico dei presidenzialismi forti come quello francese o quello statunitense; può essere definita pertanto una one-man rule atipica. La rielezione di Erdoğan è una conferma dell’accettazione dell'autoritarismo a livello globale, come per la Russia di Vladimir Putin, per le Filippine di Rodrigo Duterte e per la Cina di Xi Jinping, in un’avanzata dei regimi autoritari a scapito dei governi democratici come falsa panacea della grave crisi economica internazionale.

 

In quest’ottica, la vittoria del presidente turco Erdoğan non è certamente il risultato di un confronto libero, equo e rappresentativo della volontà dell’effettiva maggioranza della popolazione turca, ma, a differenza di altri regimi autoritari, in Turchia ci sono un’opposizione e un’opinione pubblica che avversano l’islamizzazione, la radicalizzazione e l’indottrinamento politico, strumenti di repressione e limitazione delle libertà fondamentali.

 

Molti sono stati, purtroppo, gli arresti e gli abusi dei diritti umani da parte di governo e forze dell’ordine durante la campagna elettorale, come riporta il sito d’informazione in lingua inglese dokuz8NES.

 

I fatti di cronaca hanno riguardato soprattutto i giovani, come i ventuno alunni che il 6 giugno, all’inizio delle vacanze scolastiche, sono stati trattenuti in una stazione di polizia per aver partecipato a una manifestazione antigovernativa organizzata con altri loro compagni nella centrale corso Bahariye, davanti allo storico edificio del Teatro dell’Opera Sürreyya. A detta dello Human Rights Association Office, i ragazzi sono stati torturati e minacciati di fare la fine del quattordicenne Berkin Elvan, colpito alla testa con una tanica di benzina mentre, durante le proteste di Occupy Gezi nel 2013, stava andando a comprare il pane per sé e per gli altri manifestanti. Ancora giovani sono stati arrestati per aver espresso la loro opinione politica sui social network e 12.000 donne tenute segregate in casa non hanno potuto esprimere il loro voto. Un ragazzo di soli tredici anni è stato arrestato per aver scritto su un muro la sigla HDP del partito curdo e il nome di Talal Selo, portavoce del PKK. Il vignettista Nuri Kurtcebe è stato arrestato per aver offeso la figura del presidente, mentre il musicista Hozan Cane per attività connesse ai social network. Il 7 giugno l’avvocato per i diritti umani Muhterem Süren è stato trovato morto nel suo appartamento, mentre D&R, la catena di vendita al dettaglio e online di libri, ceduta dalla Doğan Holding alla Turkuvaz Media, di proprietà del genero di Erdoğan, ha messo fuori commercio i libri di Turan Dursun, l’intellettuale che professava l’ateismo assassinato nel settembre 1990, sebbene ancora ci fossero numerose copie disponibili per la vendita.

 

La ragione di tale censura su libri che parlano di ateismo e mettono in discussione la religione islamica è dovuta al fatto che, nonostante non ci siano statistiche ufficiali sulla diffusione dell’ateismo tra i giovani turchi, la questione è dibattuta tra politici e autorità religiose. Si tratta senza dubbio una reazione all’oppressione di matrice religiosa che dilaga nella Turchia contemporanea.

 

L’opposizione ha portato avanti una dura battaglia, soprattutto attraverso la campagna elettorale del principale avversario di Erdoğan Muharrem Ince, leader del Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi - CHP), partito erede del kemalismo, che ha raggiunto il 23% (146 seggi) delle preferenze per il Parlamento nelle elezioni 2018, contro il 42% (293 seggi) del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi - AKP), il partito di Erdoğan, che ha raggiunto la maggioranza in Parlamento grazie l’alleanza tra l’AKP e il Partito del Movimento Nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi - MHP) di Devlet Bahçeli, legato agli ultranazionalisti panturchisti Bozkurtlar (Lupi grigi, Ülkü Ocakları), che ha dato un decisivo apporto all’elezione di Erdoğan al primo turno. L’MHP ha ottenuto 50 seggi con l’11% delle preferenze, che sommate a quelle per l’AKP danno una maggioranza del 53%. Tra gli altri partiti in lizza hanno superato lo sbarramento del 10% il Partito Democratico dei Popoli (in turco Halkların Demokratik Partisi, in curdo Partiya Demokratik a Gelan – HDP), che rappresenta la minoranza curda ed è orientato a sinistra, che ha raggiunto il 12% dei voti e ha conquistato 67 seggi al Parlamento, rappresentando la seconda forza di opposizione. Selahattin Demirtaş è stato il primo candidato autorizzato a fare campagna elettorale.

 

A rappresentare la prima forza di opposizione troviamo la coalizione del CHP con i nazionalisti conservatori di destra, capeggiati dalla sessantunenne Meral Akşener, unica donna a sfidare Erdoğan per la carica di presidente e che, per contrastare l’asservimento del 90% dei media al partito del presidente uscente, ha arruolato Taylan Yilidz, un ingegnere informatico di origine turca che ha lavorato per Google a Stanford e che ha ideato un algoritmo in grado di dirottare gli argonauti che cercavano la pagina ufficiale di Erdoğan automaticamente su quella dell’ Akşener. Un diabolico stratagemma che però non ha aiutato la “lady di ferro” turca a sconfiggere Erdoğan. Il suo Buon Partito (İYİ PARTİ) ha ottenuto il 10% dei consensi e 44 seggi.

Per la prima volta in Turchia è stato permesso a un candidato in carcere di fare campagna elettorale, il leader dell’HDP Selahattin Demirtaş, che ha potuto partecipare virtualmente a un corteo attraverso una diretta Facebook e al quale è stato concesso di tenere un comizio di dieci minuti attraverso la consueta chiamata a lui concessa con la moglie.

 

Il confronto principale è stato però tra Erdoğan e Ince, che si sono sfidati in chiave populistica animando gli animi nelle piazze, considerato che la TV di Stato TRT, controllata dal regime ha dedicato 181 ore alla campagna di Erdoğan, con una sproporzione rispetto agli altri candidati alla presidenza: Ince ha avuto solo quindici ore di spazio, Akşener solo tre ore, Temel Karamollaoğlu un’ora, Doğu Perinçek trentotto minuti e Demirtaş trentadue minuti. Addirittura la televisione controllata dallo Stato TVNET ha trasmesso per errore, con quattro giorni di anticipo rispetto alle elezioni, una slide dell’agenzia di stampa statale Anadolu con i risultati delle elezioni e la vittoria di Erdoğan al 53%, contro il 26% di Ince, proprio come poi dichiarato alla fine del voto.

 

Bagni di folla ci sono stati per entrambi i candidati; a volte le fazioni opposte si sono ritrovate sulla stessa piazza, senza però scontrarsi apertamente. Violenti attacchi si sono verificati invece nelle sedi dei partiti, soprattutto in quelle dei partiti all’opposizione, lo scontro più grave di tutti a Urfa-Suruç, dove tre persone sono state uccise e nove ferite durante il tour elettorale di un candidato al Parlamento dell’AKP; tra le vittime il fratello del politico. Tra i comizi tenuti in pubblico, il più suggestivo, con la partecipazione di oltre tre milioni di persone, è stato quello di Ince a Izmir, dove migliaia di persone hanno partecipato dal mare su barche e altri sui tetti dei palazzi e dopo il comizio i cittadini stessi hanno ripulito le piazze.

 

Gli attacchi del leader dell’AKP al suo principale avversario politico sono stati a volte goffi, come quando ha confuso il suo nome con quello di Ince, autoaccusandosi, o ha biasimato Ince per non avere foto che lo ritraggono in preghiera in moschea, prontamente ribattuto da quest’ultimo, che ha dichiarato che la preghiera è un momento di raccoglimento privato con Dio e non dovrebbe costituire un fatto pubblico; o quando Erdoğan ha accusato Ince di essere immorale per un libro di poesie scritto oltre trent’anni fa e Ince si è ironicamente giustificato dalle accuse, dichiarando che non può essergli imputata una colpa del fatto che il presidente turco non conosca il sentimento dell’amore e poi, con velata allusione a comportamenti immorali in casa Erdoğan, ha soprannominato il marito della figlia, Berat Albayrak, ministro dell’Energia, “Signore degli Anelli”, in riferimento alla notizia che RedHack ha reso pubblica due anni fa riguardo a un acquisto fatto da Albayrak su Amazon di un anello fallico, notizia subito censurata in Turchia. O ancora quando un gruppo di giornalisti allineati alle posizioni governative sono andati dalla madre di Ince per scoprire informazioni su presunti beni non dichiarati dal politico, che ha scherzato davanti alla folla, “confessando” che sua madre ha dimenticato di dichiarare quattro capre.

 

Erdogan ha vinto anche perché ha potuto contare sul lealismo di oltre tre milioni di dipendenti pubblici e dei loro familiari, che si sono sommati ai numerosi seguaci del suo partito, con diffusione capillare nel Paese. Solo i sostenitori di Erdoğan affermano con convinzione che le elezioni non fanno che rafforzare la natura democratica del Paese, mentre i fatti dimostrano che l’utilizzo dello stato di emergenza è un espediente che il rieletto presidente utilizza a suo vantaggio, attraverso una gestione personalistica degli affari interni. Inoltre, come ha affermato recentemente il direttore del programma per la sicurezza nazionale del Bipartisan Policy Center Blaise Mizstal in un’intervista radiofonica con John Batchelor, la politica interna turca non va analizzata disgiuntamente da quella estera.

La deriva populista ha fatto diffondere tra la gente la percezione che gli Stati Uniti siano partner inaffidabili, tale sfiducia nei confronti di un partner storico è stata espressa dall’73% di un campione di Turchi intervistati tra il 2002 e il 2014 dal Pew Research Center, la messa in discussione da parte della Turchia di un’alleanza con gli U.S. iniziata oltre sessant’anni fa ha come causa principale il conflitto siriano e gli assetti internazionali che ne sono derivati. In particolar modo la Turchia ha fortemente ostacolato l’appoggio degli U.S. all’Unità di Protezione Popolare (Yekîneyên Parastina Gel – IPA), la milizia della regione a maggioranza curda nel nord della Siria e forza armata del Rojava, conosciuta anche come Kuridistan siriano.

 

Ma la distanza dell’opinione pubblica turca dalle potenze straniere, in particolar modo da quelle occidentali, non si limita agli Stati Uniti. Circa i due terzi ha espresso opinioni sfavorevoli sull'Unione Europea, sulla Cina, sul Brasile, sulla Russia, sull'Iran e su Israele. Il popolo turco ha inoltre una visione negativa nei confronti della NATO (il 70% ha espresso diffidenza per l'organizzazione). In vista del summit NATO che si svolgerà tra due settimane a Bruxelles la Turchia, nonostante l’avversione per gli Stati Uniti e il tentativo di fuga dall’Unione Europea, vorrà affermare il suo ruolo tra le potenze mondiali, con la sua politica regionale di stampo “neo-ottomana” in Medio Oriente, anche soprannominata “Strategic Depth Doctrine”, portata avanti tra il 2009 e il 2014 dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu all’insegna di una politica estera multidimensionale. La definizione di tale dottrina è ispirata dal titolo del libro pubblicato nel 2001 da Davutoğlu con il titolo originale Stratejik Derinlik.

 

Negli anni tra il 2011 e il 2016, anche a seguito della Primavera araba, l'establishment politico del paese ha creduto che il "modello turco" di democratizzazione e modernizzazione si sarebbe diffuso in tutta la regione e avrebbe reso il Medio Oriente più stabile, sicuro e pacifico. Tuttavia, a questo riguardo, Ankara ha sopravvalutato le proprie capacità e i consolidati rapporti con i partner occidentali si sono incrinati con la guerra civile scoppiata in Siria nel 2011.

 

Il progressivo coinvolgimento diretto della Russia nel conflitto siriano da ottobre 2015 ha portato a tensioni diplomatiche tra Ankara e Mosca, con un’esacerbazione delle tensioni nel novembre 2015, quando un caccia turco F-16 ha abbattuto un caccia russo Sukhoi Su-24M vicino al confine tra Siria e Turchia. Ciò ha generato un aspro confronto tra il Presidente Erdoğan e il suo omologo russo Vladimir Putin. In risposta a questi eventi, Mosca ha imposto sanzioni nei confronti di Ankara, tra cui la sospensione dell'esenzione dal visto per i cittadini turchi che si recano in Russia e la limitazione delle importazioni turche. I rapporti si sono nuovamente normalizzati solo quando la Turchia si è trovata isolata nel contesto internazionale, segnato dalla politica non interventista in Medio Oriente dell’ultimo periodo del mandato di Obama, dalle divisioni interne ai Paesi arabi di religione sunnita, dal rafforzamento del PYD nel Nord della Siria. Sul fronte interno si è verificato un aumento degli attacchi terroristici di matrice islamica. Tale concomitanza di eventi ha spinto la Turchia a trattare con il fronte filo-assadista capeggiato da Iran e Russia. Inoltre, l’acquisto del sistema di difesa aerea S-400 russo da parte della Turchia, ha allargato la frattura con gli altri Paesi della NATO.

 

Per assicurarsi la vittoria al primo turno Erdoğan è ricorso a vari metodi manipolativi, a partire dallo svolgimento di elezioni sotto le leggi di emergenza. Lo stato di emergenza è stato istituito il 20 luglio 2016, a seguito del tentato colpo di stato militare, in cui sono 250 persone sono state uccise e oltre 2.000 sono state ferite, oltre 107.000 tra impiegati pubblici, agenti di polizia, giudici, docenti e insegnanti sono stati rimossi dai loro incarichi, oltre 50.000 persone sono state incarcerate. Queste leggi gli hanno concesso misure draconiane, che hanno permesso al governo turco di limitare fortemente la libertà di espressione e il diritto di riunione, impedendo in tal modo ai suoi rivali di condurre una campagna contro di lui su un piano di parità. Lo stato di emergenza è stato rinnovato per la settima volta dal 2016 nell’aprile scorso per un trimestre.

 

Uno stato di emergenza che gli ha permesso di indire le elezioni anticipate, allo scopo di scongiurare un ribaltamento degli assetti politici interni, in quanto le proiezioni politiche ed economiche a lungo termine non sono decisamente a suo favore, i partiti di opposizione hanno dimostrato di avere maggiori consensi, inoltre l'economia è sull'orlo della crisi, con i prezzi dei beni di prima necessità alle stelle.

 

Ancora sulla cresta dell’onda e pago dell’appoggio di altri autocrati, Erdoğan continuerà con forza a fare propaganda nazionalista e a portare avanti la sua agenda islamica. Proseguirà con determinazione il suo impegno per svolgere un ruolo economico, sociale e politico importante in molti paesi del Medio Oriente e dei Balcani, in un’ottica neo-Ottomana, con il disegno politico di diventare entro il 2013, anno dei festeggiamenti del centenario della fondazione della Repubblica turca, il nuovo Atatürk (padre) del popolo turco. A differenza della Turchia di cento anni fa, che ha abbracciato i valori democratici, oggi la Turchia guidata da Erdoğan ha una deriva autoritaria. L’opposizione ha dimostrato però di essere combattiva e più forte rispetto ai movimenti di piazza con Rally for the Republic del 2007 e Occupy Gezi del 2013 e potrà contare in futuro su un largo consenso tra i giovani, le donne e le minoranze etniche.



 

 

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