.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]

RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

> Storia dello sport

.

N. 19 - Dicembre 2006

ARTI MARZIALI E VIA SPIRITUALE

La ricerca del guerriero

di Guru Shabad Singh Khalsa

 

Origine delle arti marziali

 

Possiamo convenzionalmente considerare come nascita delle arti marziali il momento in cui l’uomo ha sentito il bisogno di esercitarsi, approfondire e trasmettere tecniche atte alla difesa di se stesso, del gruppo cui apparteneva e dei valori (religiosi e civili) in cui credeva e su cui fondava la propria esistenza.

 

Prima di questo momento, soltanto l’istinto di sopravvivenza aveva dettato all’uomo la maniera più opportuna per risolvere situazioni difficili in cui la vita stessa veniva minacciata.

 

Il passaggio dall’stinto di difesa alle arti marziali vere e proprie fu dettato principalmente da una presa di coscienza delle proprie energie profonde e fondamentali della natura umana: le capacità di creare, di organizzare e di distruggere. La simulazione di situazioni di attacco e di difesa venne a rappresentare simbolicamente l’eterno conflitto delle dualità cosmiche e divenne dunque una via di conoscenza (delle leggi della vita medesima) e una via di trascendenza che mirava al superamento della dualità stessa nella ricerca dell’unità superiore.

 

In ogni tradizione antica le arti marziali assunsero significati che portavano il praticante ben oltre il mero apprendimento di tecniche e che gli consentivano un’indagine completa del sé: del corpo, della mente e dello spirito. E anche ora, come allora, il sincero studente di arti marziali misura nella pratica i limiti delle proprie capacità e li trasforma, scende coscientemente nella profondità del proprio essere scoprendo anche le paure più nascoste e lasciando emergere dall’inconscio sia la nobiltà dell’Essere Spiritualmente Immortale, sia la violenza che vi sta sepolta. Il controllo delle forze aggressive primordiali e l’esperienza della dimensione spirituale lo porteranno al distacco completo dalle passioni e imparerà la fondamentale connessione tra la vita e la morte, saprà uccidere ed essere ucciso e su questa conoscenza fonderà la sua sicurezza, la sua invincibilità e la sua immortalità.

 

Saprà sempre decidere se usare o non usare i propri poteri  perché egli è in condizione di agire e non reagire, controllando le emozioni, non facendosi accecare dall’ira e non colpendo per paura. E qualora scegliesse di usare la sua forza e le sue conoscenze per togliere la vita, consapevole del rischio (o certezza) di perdere la propria, lo farà in piena coscienza, consapevole del prezzo da pagare verso se stesso e i suoi simili.

 

Connessione con lo Yoga: la morte

 

Nel processo di conoscenza di se stessi compiuto attraverso la pratica delle arti marziali, il confronto con la morte è sicuramente uno dei momenti più importanti e stimolanti.

 

In Occidente, soprattutto negli ultimi secoli, si è attuata una evidente rimozione dell’idea di morte, e non solo della morte fisica, del culmine della vita, ma anche della costante presenza della morte insita nel principio stesso di cambiamento e trasformazione.

 

Le arti marziali e le cosiddette vie spirituali hanno in comune la non rimozione del confronto con la morte. Questo rapporto è giocato principalmente nell’assedio costante portato attraverso la disciplina dell’ego che contiene e nasconde tutte le nostre paure.

 

Yogi Bhajan diceva che chi ha paura della morte ha paura della vita e di certo la paura della morte è l’ostacolo più grande per chi pratica arti marziali. Questa paura si rende manifesta come rigidità, paralisi, perdita di controllo, si può rimanere gelati dal terrore o si può venire presi dal panico e reagire ciecamente e irrazionalmente.

 

Alle stesso modo anche nelle vie spirituali è richiesta la capacità di confrontarsi costantemente con la propria morte, raggiungere la consapevolezza che si ha a disposizione un tempo limitato per eliminare meschinità e autoindulgenze dalla propria vita e per dedicarsi alla piena realizzazione dell’essere.

 

La morte è la grande modificatrice della vita, dà la garanzia che le cose non rimarranno statiche e stagnanti, impedendo l’ancorarsi su forme, pensieri e sentimenti passati, rende possibile la nostra continua rinascita e resurrezione.

 

Occorre quindi distinguere le arti marziali dalla lotta comune, così come lo yoga dalla ginnastica, per l’intrinseco rapporto vivificante con la morte che porta in sé il potere di trasformare radicalmente l’intero essere dello studente.

 

Purtroppo questo viene spesso dimenticato sia nell’insegnamento delle arti marziali che dello yoga, riducendo così queste discipline a specie di caricature di se stesse, che, svuotate del loro reale significato, non portano all’emancipazione totale dell’essere umano, fine ultimo sia dello yoga che delle arti marziali.

 

Degenerazione delle arti marziali

 

Avendo definito la meditazione sulla morte come punto di contatto tra arti marziali e Via spirituale, potremmo individuare l’inizio del processo di degenerazione delle arti marziali proprio nella rimozione del concetto di morte. Questa rimozione ha causato una perdita del valore di trascendenza delle discipline marziali e ha sviluppato una sorta di ipocrita pudore nel confrontarsi con la dimensione spirituale.

 

Volenti o nolenti, esiste una chiara paura di compiere la consapevole discesa in noi stessi coltivando l’illusoria speranza che basti ignorare gli aspetti più profondi e di difficile comprensione della vita per risolverli e che basti nascondere gli aspetti meno piacevoli della nostra personalità per cancellarli, dimenticando che per dominare se stessi non si può prescindere dal conoscere se stessi.

 

Le arti marziali si sono trasformate, soprattutto in Occidente, o in semplici sports, o in pratiche virtualmente inutili per quanto riguarda la ricerca della Via e della Verità dell’uomo. La perdita del rapporto con i valori ultimi della vita porta al diffondersi nella nostra società di fenomeni tipo “giustizieri della notte”, “ultras”, ecc.

 

Tutto questo è fondamentalmente frutto della rimozione del rapporto con la nostra morte, che alimenta le false dualità del tutto buono-tutto cattivo, tutto bianco-tutto nero, ecc. allontanandoci dalla verità fondamentale che Tutto è Uno.

 

Anche nelle palestre questa dualità, per personale responsabilità degli insegnanti, viene alimentata portando allo svilupparsi di stereotipi modello “Rambo”. Il vero compito degli insegnanti di arti marziali, invece, dovrebbe essere rivolto al superamento della dualità portando l‘allievo alla comprensione che la ricerca dell’unità è il vero fine della vita umana.

 

L’assenza di meditazione sulla morte è assenza di meditazione sulla vita e le pratiche marziali, private della loro essenza spirituale, vengono ad assumere la stessa funzione della violenza visibile al cinema o in televisione che esorcizza con la costante ripetizione di scene di morte stereotipate, su vasta scala e in circostanze orribili, la realtà della nostra morte personale.

 

Il metodo di addestramento

 

Nelle arti marziali, il sistema didattico è basato principalmente su Kata e Randori, termini giapponesi che indicano rispettivamente forma e combattimento.

 

L’alternanza di Kata e Randori permette all’allievo di studiare la Tecnica nella forma e quindi sperimentarla in combattimento per poi tornare a verificarne il modello, e così via, affinando sempre più la padronanza della Tecnica stessa.

 

Potremmo definire il Kata come una sequenza composta di gesti formalizzati e codificati che fungono da mezzo alla cui base sta uno stato di spirito orientato alla realizzazione della Via.

 

Nell’insegnamento di tutte le arti marziali si dedica grande attenzione al dettaglio della posizione e del gesto. Questo non tanto perché si voglia raggiungere la perfezione in una tecnica precisa, ma piuttosto perché la correzione del maestro dice all’allievo: “…se il tuo spirito fosse nello stato giusto, questo si manifesterebbe nel tuo movimento, che dovrebbe essere fatto così”. Una correzione po’ indicare che il bersaglio è mancato anche se la forma esterna è apparentemente corretta.

 

Allo stesso modo nel Kundalini Yoga i Kriya  (serie di esercizi miranti ad un fine preciso), con le loro esatte indicazioni su posizione, movimento, respiro e fuoco mentale, agiscono come amplificatori per alcune forme di energia che possono essere così comunicate attraverso il tempo oltre che attraverso lo spazio. E’ quindi molto importante che un Kriya o un Kata vengano ripetuti esattamente così come sono stato originariamente insegnati.

 

Il processo di apprendimento, in generale, di tutte le arti marziali, viene canonizzato, per quanto riguarda la forma, attraverso tre passaggi:

 

1) Apprendere il Kata alla perfezione;

2) Liberarsi dallo sforzo di apprendere il Kata;

3) Allontanarsi dal Kata.

 

Questo preciso itinerario evolutivo, nell’antichità era facilitato dal fatto che non si praticava mai un’arte marziale per volta. Praticando, infatti, distintamente ma contemporaneamente più arti marziali, l’allievo ha la possibilità di esercitare una maggiore critica sulle proprie tecniche in quanto può osservarsi sotto più angolazioni. Questo lavoro parallelo dovrebbe essere fatto però senza mai confondere le discipline (do, dharma) che dovrebbero essere studiate distintamente per non portare confusione nella mente dell’allievo.

 

 

Il combattimento è l’altra colonna portante del metodo di insegnamento delle arti marziali e possiamo distinguerne due tipi principali: quello convenzionale e quello libero.

 

Nel combattimento convenzionale si esige (come d’altronde in quello libero) un costante controllo dei colpi poiché l’attacco deve essere bloccato fra 0 e 3 cm. e tuttavia deve essere praticato con estrema decisione. Gli attacchi, le parate, e i contrattacchi possono combinarsi in predeterminati o liberi, ma devono essere portati sempre con tensione fortissima per mezzo della quale ci si sforza di avvicinarsi alla situazione reale esercitando, nel padroneggiare la distanza, l’intervallo di tempo, l’integrazione delle cadenze.

 

Nel combattimento libero tradizionale, gli avversari lavorano sempre controllando gli attacchi, ma sono liberi di variare sulla totalità delle tecniche pur restando nel rispetto di certe convenzioni poiché non si tratta di combattimento reale. Perciò non solo si devono controllare i propri attacchi, ma anche ravvisare la potenziale efficacia dei colpi controllati dall’avversario. Questo fatto restringe il combattimento libero tradizionale a praticanti di livello sufficientemente elevato.

 

Potremmo paragonare il combattimento (non reale) nelle arti marziali a dinamiche interpersonali che si sviluppano in un gruppo che pratica una Via spirituale e che, involontariamente o dichiaratamente attivate, vengono usate dall’insegnante per far sì che il singolo ed il gruppo possano arricchirsi nel confronto.

 

Dice Yogi Bhajan che per passare dall’ego finito all’ego infinito bisogna necessariamente passare per l’ego di gruppo, cioè è indispensabile “cuocere nel brodo dell’ego di gruppo”.

 

Il lavoro che il gruppo produce è preso a pretesto per allenarsi in un continuo combattimento, per accrescere la consapevolezza di se stessi. Gli attriti e le gioie grandi e piccole che si dispiegano in una dinamica di gruppo o di coppia sono sistemi palesi attraverso i quali ridimensionare il nostro ego su valori reali e acquisire intimamente, e quindi anche nella quotidianità dei più piccoli dettagli,la centralità dello Spirito, sia in sé che in tutto.

 

“Mantenere lo Spirito al centro”, abitudine che si acquisisce combattendo (nelle arti marziali come nella “Vita spirituale”), significa quindi mantenere un equilibrio soggiacente alla coscienza che guida, senza tramiti, i movimenti del corpo e della mente.

 

Conclusione

 

Per comprendere correttamente le arti marziali è necessario quindi tener conto degli aspetti psicologici e spirituali non meno che di quelli tecnici. Soprattutto, è di estrema importanza capire come un’attività fisica collegata al campo sportivo, come il pugilato o la lotta, possa giungere ad affrontare argomenti quali la trasformazione psico-spirituale e la comprensione della natura della realtà.

 

E’ auspicabile che l’aspetto tecnico, quello sportivo e quello spirituale si compenetrino in modo equilibrato, così da poter esprimere una pratica finalizzata al benessere di corpo, mente e anima.

 

E’ questa la base per poter sperimentare e ritrasmettere alla società contemporanea i valori essenziali del “Budo”, del “Khalsa”, della “Cavalleria” senza cadere in retorici anacronismi.

 

Questa opera di ritrasmissione iniziatica è sempre stata portata avanti, ed anche nei periodi più bui della storia dell’uomo il sottile filo aurico che unisce i Ricercatori del Sé, attraverso Tempo e Spazio, non è mai stato interrotto.

 

Se è valido definire il “guerriero” come colui che ricerca l’Ordine Supremo nel caos della vita, allora nostro compito è quello di lavorare per definire, in noi stessi e nelle generazioni future, usando antiche e moderne tecnologie e idonei strumenti scientifici, i contorni di questa figura di guerriero.

 

Un guerriero di se stesso, un guerriero al servizio dei più deboli, consapevole, come si espresse un giorno il Maestro Uyeshiba: “…che la fonte di tutto è l’amore di Dio, Spirito di amorosa protezione di tutti gli Esseri…”



 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 215/2005 DEL 31 MAGGIO]

.

.