[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 209 / MAGGIO 2025 (CCXL)


arte

L’ARTE DEL LAVORO A MAGLIA
SUI VARIEGATI “INTRECCI” STORICI DI Un'ANTICA attività

di Matteo Liberti

 

In principio serviva semplicemente a ripararsi dal freddo, poi divenne un elemento essenziale dell’economia nonché un efficace supporto in tempo di guerra, assumendo quindi connotazioni rivoluzionarie prima di affermarsi come hobby diffuso a livello planetario, oggi sempre più trasversale e non più appannaggio di dolci “nonnine”. È questa, in estrema sintesi, la storia del lavoro a maglia, attività la cui origine si perde nei meandri del tempo e la cui evoluzione si è speso intrecciata con le “maglie” dei grandi eventi storici.
 
Origini “proletarie”
 
La genesi del lavoro a maglia ha contorni indefiniti, ma sappiamo che l’uso dei due ferri fu anticipato da quello di un rudimentale ferro detto nålebinding, parola danese traducibile con “legare con un ago”. «Tale oggetto, simile a un grosso ago, veniva utilizzato per unire brevi spezzoni di filati rozzi, realizzando sia tessuti sia reti da pesca», spiega in proposito Loretta Napoleoni, autrice del saggio Sul filo di lana (Mondadori). «Nello specifico, il frammento di maglia più antico mai scoperto, probabilmente parte di un indumento, risale al 6500 a.C. ed è stato trovato in una grotta in Israele, seguito da un altro del 4200 a.C., rinvenuto in un villaggio danese di pescatori». La transizione dal nålebinding ai due ferri avvenne quindi in Medio Oriente, affermandosi nel corso del I millennio d.C. e diffondendosi poi anche in Europa. Nei tempi antichi, l’arte della maglia, al di là degli strumenti, era peraltro considerata come il più umile dei lavori artigianali, utile a soddisfare bisogni primari, ma senza particolare valore estetico, come avevano invece arazzi, sudari e tessuti ricamati, le cui lavorazioni erano prerogativa delle élites (nel mito, la nobildonna Penelope, moglie di Ulisse, usava non a caso un grande telaio, non arnesi da maglia). Tale aspetto “proletario” del lavoro a maglia si mantenne per buona parte del medioevo, durante il quale a dargli nuovo lustro ci pensò tuttavia la Chiesa, che dall’epoca delle crociate (XI-XIII secolo) iniziò a commissionare guanti liturgici, paramenti, cuscini e altri preziosi prodotti provenienti dal Medio Oriente. I ferri da maglia fecero quindi la loro comparsa nelle immagini sacre, come nel caso di una Madonna dipinta nel 1400 su una pala d’altare a Buxtehude, in Germania dal pittore Maestro Bertram, intenta appunto a sferruzzare.
 
Boom cinquecentesco
 
Dopo aver sedotto la Chiesa, dal Cinquecento i lavori a maglia entrarono nelle corti europee. «Molti mercanti iniziarono a trattare splendidi capi realizzati ai ferri, apprezzatissimi da tutti gli aristocratici e reali d’Europa, in particolare dagli uomini, che amavano sfoggiare calze di seta sotto le brache a sbuffo, come attestano tra l’altro numerosi ritratti del sovrano inglese Enrico VIII, sul trono tra il 1509 e il 1547», racconta Napoleoni. Per la cronaca, i migliori prodotti in seta venivano all’epoca dall’Italia e dalla Spagna, lavorati da abilissimi artigiani (rigorosamente uomini; le donne continuavano a sferruzzare in casa) sfruttati dalla nuova élite mercantile. Fu peraltro in ambito inglese che i lavori a maglia riscossero i maggiori successi, divenendo uno dei motori dell’economia dell’impero britannico, grazie anche al contributo del Nuovo Mondo. Lana e cotone prodotti nelle colonie americane venivano importati in Inghilterra a prezzi stracciati, per essere poi lavorati e nuovamente esportati verso le colonie, generando cospicui profitti. «Fu però solo una questione di tempo prima che le colonie si rendessero conto del potenziale economico della loro produzione laniera, decidendo di sfidare chi ne controllava il mercato mondiale, ossia i mercanti e gli industriali britannici», avverte l’esperta.

Magliaie di frontiera

In risposta ai propositi di autonomia dei coloni, nel 1699 il parlamento britannico approvò una legge – il Wool Act – che vietava loro di esportare altrove la lana, obbligandoli inoltre a importare solo tessuti inglesi. I coloni risposero a loro volta boicottando tali prodotti, pur non disponendo ancora di industrie adeguate a produrseli da soli. «Avevano però la lana, e stuoli di donne che sapevano filare e lavorare a maglia», ricorda l’esperta. «E furono proprio loro a sfidare la macchina produttiva inglese, in una lotta tra Davide e Golia combattuta usando come arma il nucleo stesso del potere economico e commerciale dell’impero: filati e tessuti». Tali donne, solite riunirsi in gruppi, divennero il simbolo della disubbidienza delle colonie all’impero britannico, e dopo la guerra d’indipendenza (1775-1783) – durante la quale rifornirono di vestiario ogni uomo impegnato al fronte – contribuirono alla “conquista” dell’Ovest americano, lavorando senza sosta a bordo dei carri lungo le piste delle carovane e utilizzando i prodotti creati anche come merce di scambio per accaparrarsi derrate alimentari. Il loro impegno garantì così la sopravvivenza di gran parte dei pionieri impegnati nella storica corsa verso il “Far West”.
 
Sferruzzate “rivoluzionarie”
 
Mentre oltreoceano i ferri da maglia divenivano uno dei motori della società americana, nel vecchio continente il lavoro delle magliaie s’intrecciò con la rivoluzione francese del 1789, grazie alle celebri le tricoteuses, gruppi di donne politicizzate che usavano sferruzzare davanti al patibolo dei condannati a morte. «Circondate da una crescente popolarità, costoro scelsero quale luogo prediletto d’incontro Place de la Révolution (oggi de la Concorde), dove avvenivano appunto le esecuzioni, e qui lavoravano a maglia dal mattino alla sera realizzando calze, guanti e sciarpe che smerciavano alla fine del macabro spettacolo», ricorda l’esperta. «A spopolare erano soprattutto i berretti frigi, i rossi “cappelli della libertà”, che divennero uno dei simboli della Rivoluzione e che tutti i parigini presero a indossare». Spentisi gli echi rivoluzionari, nei decenni seguenti, a tutte le latitudini, il lavoro delle magliaie continuò a risultare imprescindibile per la collettività, sia in tempo di pace sia, soprattutto, in tempo di guerra.
 
Spie coi ferri
 
Un contributo decisivo ai soldati impegnati al fronte fu dato dalle magliaie soprattutto nei due conflitti mondiali che insanguinarono la prima parte del Novecento. Sia nel primo sia nel secondo conflitto, su pressoché tutti i fronti, le magliaie rifornirono infatti i soldati di calze, maglie, sciarpe, coperte e cappelli (realizzati spesso disfacendo vecchi abiti), ma alcune fecero ancora di più, entrando addirittura nel mondo dello spionaggio. «Su un capo d’abbigliamento si possono celare messaggi in codice, riguardanti magari – in caso di guerra – informazioni cruciali sul nemico, come posizione delle truppe, numero delle armi e itinerari dei convogli, e sulla base di tale presupposto moltissime magliaie si tramutarono appunto in spie, usando i punti a maglia per realizzare cifrari segreti utili a far circolare informazioni preziose», spiega Napoleoni». A usare tale escamotage fu soprattutto l’intelligence britannica nel corso della seconda guerra mondiale.
 
Nuovi successi
 
Finita la guerra, il lavoro a maglia tornò a conoscere nuovi successi in ambito civile, con la crescita delle industrie dei filati e la diffusione di libri, periodici e giornali dedicati al tema. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la moda scoprì così il valore dei prodotti con i ferri da maglia, grazie ai quali le donne potevano creare ex novo il proprio guardaroba, finalmente per diletto e non più per necessità. A offrire nuova pubblicità a tali lavori fai-da-te fu tra l’altro il movimento hippie, che vi intravide connotati rivoluzionari. «Molti giovani iniziarono a farsi da soli i vestiti come presa di posizione contro il capitalismo e il consumismo occidentali, e così il lavoro a maglia tornò a essere uno strumento politico ed economico di lotta», conferma Napoleoni. I ferri da maglia suscitarono invece amore-odio nel movimento femminista, venendo additati da alcune donne come simbolo della sottomissione all’uomo e da altre come strumenti d’indipendenza. Con l’arrivo del nuovo millennio, il lavoro a maglia ha peraltro continuato a fare proseliti, tornando a coinvolgere anche molti uomini. Non solo: i ferri da maglia sono divenuti uno strumento di provocazione artistica nota come guerrilla knitting (“guerriglia di maglieria”) o yarn bombing (“bombardamento di filati”), consistente nella decorazione di spazi pubblici con variopinti tessuti lavorati a maglia, applicati su panchine, pali della luce, staccionate, ponti e altri elementi, urbani e non. E oggi a benedire il lavoro a maglia sono persino medici e scienziati, pronti a evidenziare i benefici che tale attività ha sulla nostra salute. Essa aiuta infatti a migliorare le capacità di coordinazione e, al pari dello yoga, abbassa i livelli di stress, facendoci sentire rilassati, come in fondo già ben sapevano le nostre nonne e, prima di loro, la moltitudine di donne che ha tramandato i segreti di tale antica arte.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]