APARTHEID E DINTORNI
SULL’origine del razzismo in
Sudafrica
di Filippo Vedelago
L’apartheid (traducibile in italiano
come “separazione”) era la politica
di segregazione razziale istituita
nel 1948 dal governo di etnia bianca
del Sudafrica, rimasta in vigore
fino al 1994. La sua origine storica
si può far risalire al 1652, data
dello sbarco dell’esploratore
olandese Jan Van Riebeeck
(1619-1677), fondatore di Città del
Capo, che segnò l’inizio della
dominazione olandese nell’aerea
sudafricana. Tuttavia sino al 1795
il numero di coloni presenti fu
piuttosto contenuto (22 mila
africani bianchi nel 1798), perché
la Compagnia Olandese delle Indie
Orientali non fu mai realmente
interessata a favorire un regolare
traffico commerciale in questo
territorio.
All’inizio del XVIII secolo i
discendenti dei coltivatori boeri
(termine che deriva dall’olandese
con il significato di “contadini”)
si trasformarono in allevatori
nomadi, i trekboers, i veri
fondatori della nazione degli
afrikaners (i membri della
popolazione dell’Africa meridionale
di pelle bianca calvinista,
ugonotta, olandese, belga, tedesca
che parlano l’afrikaans).
I rapporti con gli abitanti indigeni
della zona del Capo, i khoikhoi,
furono generalmente buoni. In quanto
già nomadi queste popolazioni non
fecero altro che ritirarsi
gradualmente di fronte
all’espansionismo dei coloni. Dei
forti attriti avvennero invece con
gli xhosa, quando i boeri arrivarono
nei pressi dell’attuale città di
Port Elisabeth, dando così inizio a
una serie di conflitti tra coloni e
nativi definiti genericamente come
“Guerre della frontiera del Capo”.
L’età napoleonica segnò in Europa
l’avanzata francese nei Paesi Bassi
e la conseguente occupazione
britannica della colonia olandese
del Capo. Il dominio inglese
costrinse i boeri a una grande
migrazione verso est alla ricerca di
nuovi territori nei quali
insediarsi. I coloni si scoprirono
così antagonisti non solo delle
popolazioni locali, ma anche degli
usurpatori anglofoni che
minacciavano i loro interessi
politici ed economici. Era l’epopea
del “Gran Trek” (traducibile con “la
Grande Marcia”) che diede piena
forma al mito del viaggio di
conquista, interpretabile come la
ricerca della “terra promessa”, ben
riassunto nell’immaginario
collettivo del colono boero che
lotta contro indigeni e invasori per
far fiorire la civiltà, imbracciando
Bibbia e fucile.
Le migrazioni boere diedero vita ad
una serie di piccole repubbliche
(Stato Libero di Orange, Repubblica
di Natalia, Repubblica del Transvaal,
Repubblica di Stellaland) che
ostacolarono l’espansionismo
britannico. Le tensioni con gli
inglesi crebbero in seguito alla
scoperta di riserve di diamanti e di
oro nell’area, sfociando, tra la
fine del XIX secolo e l’inizio del
XX secolo, in due conflitti noti
come “Guerre anglo-boere”, che
arrivarono a coinvolgere anche le
tribù locali schierate per l’una o
l’altra parte (la prima guerra venne
combattuta tra il 1880 e il 1881,
mentre la seconda tra il 1889 e il
1902). Il Regno Unito ebbe alla fine
la meglio determinando la nascita,
nel 1909, dell’Unione Sudafricana,
costituita come Dominion all’interno
del Commonwealth nel 1914.
L’insediamento della “tribù africana
bianca” nell’area australe
dell’Africa venne caratterizzata sin
dalle origini da un immaginario
eroico e mitico, poi ampiamente
utilizzato per sostenere il sistema
apartheid. L’ideologia razzista che
lo giustificava si basava infatti su
argomentazioni e fini ritenuti
nobili, come il voler preservare la
diversità dei popoli e delle
relative culture, la missione
civilizzatrice dell’uomo bianco (“Il
fardello dell’uomo bianco”, la nota
poesia di Rudyard Kipling, ben
riassume quest’immagine), la tutela
che i bianchi colonizzatori dovevano
esercitare verso l’inferiore e
sottosviluppata popolazione nera.
Queste idee vennero pienamente
supportate da un’interpretazione
strumentalizzata delle Sacre
Scritture e dell’ideale religioso
calvinista: gli afrikaners, quale
“popolo eletto”, erano stati
investiti da Dio e dalla Storia di
una missione di civilizzazione e di
guida per le popolazioni africane,
con un diritto inalienabile sulla
proprietà della terra (considerata
la terra “promessa” da Dio) e con il
divieto assoluto di mescolarsi con
altri popoli (da qui ebbe origine l’Immorality
Act del 1927 che vietava i
rapporti sessuali tra bianchi e
neri). Anche la biologia venne
impiegata per sostenere l’ideologia
dell’apartheid, con studi sulla
misurazione dei crani e sulla
morfologia della corteccia cerebrale
delle popolazioni nere per
dimostrarne la naturale inferiorità.
Mito, religione e scienza vennero
quindi utilizzate per plasmare
teorie razziste utili a difendere
gli sconfinati privilegi economici
dell’etnia bianca insediata in
Sudafrica.
Nel 1914 l’attività politica di
James Barry Munnik Hertzog
(1866-1942), generale e politico
boero, portò alla nascita del
National Party. Il partito, di forte
ispirazione cristiana, affermava il
dominio della popolazione bianca
che, per mandato divino, aveva il
privilegio di esercitare una forma
di tutela sulla popolazione nera
africana, con l’obbligo di
preservarsi pura da qualsiasi
mescolanza con altre razze.
Un’influenza importante in questa
fase lo ebbe il regime della
Germania degli anni Trenta: molte
idee sviluppate nel Mein Kampf
ebbero forte presa nella popolazione
bianca in Sudafrica, vista la
costante immigrazione tedesca nel
paese, che ebbe il suo apice nel XIX
secolo, caratterizzata da forti
legami politici, sociali, economici
con la madrepatria.
Durante il secondo conflitto
mondiale l’élite intellettuale
bianca, suggestionata dal
nazionalsocialismo della Germania
hitleriana, iniziò la teorizzazione
del sistema apartheid. La sua
filosofia si basava sul voler
garantire ai vari gruppi razziali la
possibilità di condurre il proprio
sviluppo sociale in piena sintonia
con la propria cultura. Molti gruppi
afrikaners si opposero nettamente
all’intervento del paese con gli
Alleati, spesso esprimendo le
proprie simpatie per il regime
nazista. Sebbene queste posizioni
non riuscirono mai a diventare
pienamente dominanti e ad
influenzare il ruolo del Sudafrica
nel corso della guerra, comparvero
nettamente nell’immediato secondo
dopoguerra.
Nel 1948 il National Party prese il
potere nel paese e il suo primo
ministro Daniel Francois Malan
(1874-1959), un ex pastore
missionario, iniziò la costruzione
della “patria degli afrikaners”
nella “terra promessa” destinata
loro da Dio. Nei sei anni e mezzo
del governo Malan si gettarono le
basi legislative del sistema
apartheid, tenendo conto della
naturale sottomissione dei neri ai
bianchi, della necessaria
sottomissione agli afrikaners di
tutte le altre popolazioni che
occupavano la terra sudafricana,
dell’obbligo storico per i boeri di
opporsi a qualsiasi forma di
usurpazione verso la patria da loro
fondata (era ben viva la sconfitta
inflitta dagli inglesi nel corso
delle guerre boere).
Tra le più importanti leggi emanate
in questo periodo vanno ricordate:
il Prohibition of Mixed Marriages
Act N°55 del 1949 che proibiva e
considerava reato i matrimoni misti
fra bianchi e persone di altre
razze, il Population Registration
Act N°30 del 1950 che portò alla
creazione di registri nei quali ogni
persona doveva essere registrata a
seconda della razza di appartenenza
(Bianchi, Neri, Meticci, Indiani),
il Group Areas Act N°41 del
1950 che definiva le aree di
insediamento ufficiali in cui ogni
gruppo razziale doveva abitare,
l’Immorality Amendment Act N°21
del 1950 che dichiarava reato avere
rapporti sessuali con una persona di
razza diversa, il Native Labour
Act N°48 del 1953 che proibiva
gli scioperi tra i lavoratori neri,
il Bantu Education Act N°47
del 1953 che istituiva un
dipartimento per l’istruzione degli
indigeni in modo da evitare che
ricevessero un’educazione tale da
ispirare loro di raggiungere
posizioni lavorative riservate ai
soli bianchi, il Reservation of
Separate Amenities Act N°49 del
1953 che introduceva la segregazione
nelle strutture pubbliche e nei
trasporti in modo da evitare
contatti tra bianchi e gli altri
gruppi razziali.
Gli afrikaners avevano così creato
un modello di stato su base
teocratica, con un meticoloso corpus
legislativo per attuare una forma
nettissima di segregazione razziale.
Dal 1956 l’apartheid venne esteso a
tutti i cittadini non bianchi,
privandoli di ogni diritto politico
e civile. Negli anni Sessanta 3,5
milioni di neri, definiti “Bantu”,
vennero deportati nelle “Bantustan”,
circoscrizioni territoriali loro
assegnate, ufficialmente
autogovernate, ma di fatto
fortemente dipendenti dal governo
statale bianco. Inoltre nel 1975
venne imposta la lingua afrikaans
negli uffici e nelle scuole.
L’insofferenza verso il sistema
apartheid crebbe sempre più, con
attentati ed azioni di sabotaggio,
rivolti a stazioni elettriche ed
edifici governativi, da parte dell’Umkhonto
we Sizwe (l’ala militare dell’African
National Congress, il più importante
partito di contrasto al sistema
segregazionista del paese) e il varo
di sanzione economiche da parte
della comunità internazionale.
Inizialmente Stati Uniti e Regno
Unito cercarono la via del dialogo
con politiche concilianti note come
“constructive engagement”, per poi
allinearsi definitivamente, negli
anni Ottanta, alla soluzione
sanzionatoria.
Molto intransigenti furono anche le
pressioni internazionali in ambito
sportivo, con l’Unione Sudafricana
esclusa fino agli anni Ottanta alle
Olimpiadi. Particolarmente nota fu
l’edizione del 1976, quando 27 paesi
africani boicottarono i giochi
olimpici, in segno di protesta verso
la nazionale di rugby neozelandese
che aveva giocato alcune partire
contro la squadra sudafricana.
Solo nel 1990, con la liberazione di
Nelson Mandela (1918-2013) e la sua
successiva elezione a Presidente del
Sudafrica, il regime dell’apartheid
cessò. Tutt’oggi il paese sta
cercando, tra grosse difficoltà, di
costruire un modello valido di
integrazione tra popolazione bianca
e popolazione nera, con l’obiettivo
di correggere le diseguaglianze
economiche e sociali generate da
decenni di apartheid. L’istituzione,
nel 1995, di una “Commissione per la
verità e la riconciliazione” ha
rappresentato un importante passo in
avanti nel processo integrativo,
visto l’intento di avviare un
sistema di riappacificazione tra
vinti e vincitori: alle vittime del
regime segregazionista non veniva
data giustizia ma chiesto il
perdono, mentre il carnefice, se
dimostrava pentimento, veniva
amnistiato.
La linea riconciliante era
pienamente coerente con il tipo di
posizione nonviolenta adottata da
Mandela, forte sostenitore del
perdono come risposta della
popolazione nera verso le violenze
subite. La commissione ha svolto un
ruolo importante nella delicata fase
di transizione del paese verso la
piena democrazia e tutt’oggi
l’esempio applicato in Sudafrica
rappresenta la più concreta e piena
realizzazione del concetto di
giustizia riparativa nell’ambito
della violazione dei diritti
dell’uomo.
Riferimenti bibliografici:
Flores Marcello, Verità senza
vendetta, Manifestolibri, Roma,
1999
Hagemann Albrecht, Breve storia
del Sudafrica, Il Mulino,
Bologna, 2020
Maffei Ivan, Apartheid,
Youcanprint, 2020