[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 215 / NOVEMBRE 2025 (CCXLVI)


contemporanea

APARTHEID E DINTORNI
SULL’origine del razzismo in Sudafrica
di Filippo Vedelago

 

L’apartheid (traducibile in italiano come “separazione”) era la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica, rimasta in vigore fino al 1994. La sua origine storica si può far risalire al 1652, data dello sbarco dell’esploratore olandese Jan Van Riebeeck (1619-1677), fondatore di Città del Capo, che segnò l’inizio della dominazione olandese nell’aerea sudafricana. Tuttavia sino al 1795 il numero di coloni presenti fu piuttosto contenuto (22 mila africani bianchi nel 1798), perché la Compagnia Olandese delle Indie Orientali non fu mai realmente interessata a favorire un regolare traffico commerciale in questo territorio.

 

All’inizio del XVIII secolo i discendenti dei coltivatori boeri (termine che deriva dall’olandese con il significato di “contadini”) si trasformarono in allevatori nomadi, i trekboers, i veri fondatori della nazione degli afrikaners (i membri della popolazione dell’Africa meridionale di pelle bianca calvinista, ugonotta, olandese, belga, tedesca che parlano l’afrikaans).

 

I rapporti con gli abitanti indigeni della zona del Capo, i khoikhoi, furono generalmente buoni. In quanto già nomadi queste popolazioni non fecero altro che ritirarsi gradualmente di fronte all’espansionismo dei coloni. Dei forti attriti avvennero invece con gli xhosa, quando i boeri arrivarono nei pressi dell’attuale città di Port Elisabeth, dando così inizio a una serie di conflitti tra coloni e nativi definiti genericamente come “Guerre della frontiera del Capo”.

 

L’età napoleonica segnò in Europa l’avanzata francese nei Paesi Bassi e la conseguente occupazione britannica della colonia olandese del Capo. Il dominio inglese costrinse i boeri a una grande migrazione verso est alla ricerca di nuovi territori nei quali insediarsi. I coloni si scoprirono così antagonisti non solo delle popolazioni locali, ma anche degli usurpatori anglofoni che minacciavano i loro interessi politici ed economici. Era l’epopea del “Gran Trek” (traducibile con “la Grande Marcia”) che diede piena forma al mito del viaggio di conquista, interpretabile come la ricerca della “terra promessa”, ben riassunto nell’immaginario collettivo del colono boero che lotta contro indigeni e invasori per far fiorire la civiltà, imbracciando Bibbia e fucile.

 

Le migrazioni boere diedero vita ad una serie di piccole repubbliche (Stato Libero di Orange, Repubblica di Natalia, Repubblica del Transvaal, Repubblica di Stellaland) che ostacolarono l’espansionismo britannico. Le tensioni con gli inglesi crebbero in seguito alla scoperta di riserve di diamanti e di oro nell’area, sfociando, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, in due conflitti noti come “Guerre anglo-boere”, che arrivarono a coinvolgere anche le tribù locali schierate per l’una o l’altra parte (la prima guerra venne combattuta tra il 1880 e il 1881, mentre la seconda tra il 1889 e il 1902). Il Regno Unito ebbe alla fine la meglio determinando la nascita, nel 1909, dell’Unione Sudafricana, costituita come Dominion all’interno del Commonwealth nel 1914.

 

L’insediamento della “tribù africana bianca” nell’area australe dell’Africa venne caratterizzata sin dalle origini da un immaginario eroico e mitico, poi ampiamente utilizzato per sostenere il sistema apartheid. L’ideologia razzista che lo giustificava si basava infatti su argomentazioni e fini ritenuti nobili, come il voler preservare la diversità dei popoli e delle relative culture, la missione civilizzatrice dell’uomo bianco (“Il fardello dell’uomo bianco”, la nota poesia di Rudyard Kipling, ben riassume quest’immagine), la tutela che i bianchi colonizzatori dovevano esercitare verso l’inferiore e sottosviluppata popolazione nera. Queste idee vennero pienamente supportate da un’interpretazione strumentalizzata delle Sacre Scritture e dell’ideale religioso calvinista: gli afrikaners, quale “popolo eletto”, erano stati investiti da Dio e dalla Storia di una missione di civilizzazione e di guida per le popolazioni africane, con un diritto inalienabile sulla proprietà della terra (considerata la terra “promessa” da Dio) e con il divieto assoluto di mescolarsi con altri popoli (da qui ebbe origine l’Immorality Act del 1927 che vietava i rapporti sessuali tra bianchi e neri). Anche la biologia venne impiegata per sostenere l’ideologia dell’apartheid, con studi sulla misurazione dei crani e sulla morfologia della corteccia cerebrale delle popolazioni nere per dimostrarne la naturale inferiorità. Mito, religione e scienza vennero quindi utilizzate per plasmare teorie razziste utili a difendere gli sconfinati privilegi economici dell’etnia bianca insediata in Sudafrica.

 

Nel 1914 l’attività politica di James Barry Munnik Hertzog (1866-1942), generale e politico boero, portò alla nascita del National Party. Il partito, di forte ispirazione cristiana, affermava il dominio della popolazione bianca che, per mandato divino, aveva il privilegio di esercitare una forma di tutela sulla popolazione nera africana, con l’obbligo di preservarsi pura da qualsiasi mescolanza con altre razze. Un’influenza importante in questa fase lo ebbe il regime della Germania degli anni Trenta: molte idee sviluppate nel Mein Kampf ebbero forte presa nella popolazione bianca in Sudafrica, vista la costante immigrazione tedesca nel paese, che ebbe il suo apice nel XIX secolo, caratterizzata da forti legami politici, sociali, economici con la madrepatria.

 

Durante il secondo conflitto mondiale l’élite intellettuale bianca, suggestionata dal nazionalsocialismo della Germania hitleriana, iniziò la teorizzazione del sistema apartheid. La sua filosofia si basava sul voler garantire ai vari gruppi razziali la possibilità di condurre il proprio sviluppo sociale in piena sintonia con la propria cultura. Molti gruppi afrikaners si opposero nettamente all’intervento del paese con gli Alleati, spesso esprimendo le proprie simpatie per il regime nazista. Sebbene queste posizioni non riuscirono mai a diventare pienamente dominanti e ad influenzare il ruolo del Sudafrica nel corso della guerra, comparvero nettamente nell’immediato secondo dopoguerra.

 

Nel 1948 il National Party prese il potere nel paese e il suo primo ministro Daniel Francois Malan (1874-1959), un ex pastore missionario, iniziò la costruzione della “patria degli afrikaners” nella “terra promessa” destinata loro da Dio. Nei sei anni e mezzo del governo Malan si gettarono le basi legislative del sistema apartheid, tenendo conto della naturale sottomissione dei neri ai bianchi, della necessaria sottomissione agli afrikaners di tutte le altre popolazioni che occupavano la terra sudafricana, dell’obbligo storico per i boeri di opporsi a qualsiasi forma di usurpazione verso la patria da loro fondata (era ben viva la sconfitta inflitta dagli inglesi nel corso delle guerre boere).

 

Tra le più importanti leggi emanate in questo periodo vanno ricordate: il Prohibition of Mixed Marriages Act N°55 del 1949 che proibiva e considerava reato i matrimoni misti fra bianchi e persone di altre razze, il Population Registration Act N°30 del 1950 che portò alla creazione di registri nei quali ogni persona doveva essere registrata a seconda della razza di appartenenza (Bianchi, Neri, Meticci, Indiani), il Group Areas Act N°41 del 1950 che definiva le aree di insediamento ufficiali in cui ogni gruppo razziale doveva abitare, l’Immorality Amendment Act N°21 del 1950 che dichiarava reato avere rapporti sessuali con una persona di razza diversa, il Native Labour Act N°48 del 1953 che proibiva gli scioperi tra i lavoratori neri, il Bantu Education Act N°47 del 1953 che istituiva un dipartimento per l’istruzione degli indigeni in modo da evitare che ricevessero un’educazione tale da ispirare loro di raggiungere posizioni lavorative riservate ai soli bianchi, il Reservation of Separate Amenities Act N°49 del 1953 che introduceva la segregazione nelle strutture pubbliche e nei trasporti in modo da evitare contatti tra bianchi e gli altri gruppi razziali.

 

Gli afrikaners avevano così creato un modello di stato su base teocratica, con un meticoloso corpus legislativo per attuare una forma nettissima di segregazione razziale. Dal 1956 l’apartheid venne esteso a tutti i cittadini non bianchi, privandoli di ogni diritto politico e civile. Negli anni Sessanta 3,5 milioni di neri, definiti “Bantu”, vennero deportati nelle “Bantustan”, circoscrizioni territoriali loro assegnate, ufficialmente autogovernate, ma di fatto fortemente dipendenti dal governo statale bianco. Inoltre nel 1975 venne imposta la lingua afrikaans negli uffici e nelle scuole.

 

L’insofferenza verso il sistema apartheid crebbe sempre più, con attentati ed azioni di sabotaggio, rivolti a stazioni elettriche ed edifici governativi, da parte dell’Umkhonto we Sizwe (l’ala militare dell’African National Congress, il più importante partito di contrasto al sistema segregazionista del paese) e il varo di sanzione economiche da parte della comunità internazionale. Inizialmente Stati Uniti e Regno Unito cercarono la via del dialogo con politiche concilianti note come “constructive engagement”, per poi allinearsi definitivamente, negli anni Ottanta, alla soluzione sanzionatoria.

 

Molto intransigenti furono anche le pressioni internazionali in ambito sportivo, con l’Unione Sudafricana esclusa fino agli anni Ottanta alle Olimpiadi. Particolarmente nota fu l’edizione del 1976, quando 27 paesi africani boicottarono i giochi olimpici, in segno di protesta verso la nazionale di rugby neozelandese che aveva giocato alcune partire contro la squadra sudafricana.

Solo nel 1990, con la liberazione di Nelson Mandela (1918-2013) e la sua successiva elezione a Presidente del Sudafrica, il regime dell’apartheid cessò. Tutt’oggi il paese sta cercando, tra grosse difficoltà, di costruire un modello valido di integrazione tra popolazione bianca e popolazione nera, con l’obiettivo di correggere le diseguaglianze economiche e sociali generate da decenni di apartheid. L’istituzione, nel 1995, di una “Commissione per la verità e la riconciliazione” ha rappresentato un importante passo in avanti nel processo integrativo, visto l’intento di avviare un sistema di riappacificazione tra vinti e vincitori: alle vittime del regime segregazionista non veniva data giustizia ma chiesto il perdono, mentre il carnefice, se dimostrava pentimento, veniva amnistiato.

 

La linea riconciliante era pienamente coerente con il tipo di posizione nonviolenta adottata da Mandela, forte sostenitore del perdono come risposta della popolazione nera verso le violenze subite. La commissione ha svolto un ruolo importante nella delicata fase di transizione del paese verso la piena democrazia e tutt’oggi l’esempio applicato in Sudafrica rappresenta la più concreta e piena realizzazione del concetto di giustizia riparativa nell’ambito della violazione dei diritti dell’uomo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Flores Marcello, Verità senza vendetta, Manifestolibri, Roma, 1999

Hagemann Albrecht, Breve storia del Sudafrica, Il Mulino, Bologna, 2020

Maffei Ivan, Apartheid, Youcanprint, 2020

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]