[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

178 / OTTOBRE 2022 (CCIX)


filosofia & religione

ANTIOCO IV EPIFANE
SOVRANO SELEUCIDE E “ANTICRISTO” / PARTE II
di Monica Pezzella

Di capitale importanza nello studio delle idee relative all’Anticristo è l’opera di Ireneo, vescovo di Lione, nato intorno al 140 d.C. in Asia Minore. Egli tratta dell’argomento in ben cinque capitoli del V libro dell’Adversus Haereses, riuscendo per la prima volta a fondere le diverse tradizioni, unificando tutti i dati scritturistici intorno all’unico termine “Anticristo”. Se prima di lui l’avversario escatologico non veniva indicato con un unico nome, con Ireneo si impone il termine antichrìstos usato nelle Lettere di Giovanni.

Intendo soffermarmi proprio sui molteplici riferimenti di Ireneo ai testi finora esaminati, in particolare il Libro di Daniele e i Vangeli di Marco e Matteo, che ad esso si rifanno esplicitamente quando trattano dell’”abominio della desolazione”, oltre che la Seconda lettera ai Tessalonicesi di Paolo. Mi riferisco in particolare ai brani dell’Adversus Haereses nei quali l’Anticristo è presentato come personaggio escatologico, poiché è in questi ultimi che il richiamo al Libro di Daniele (e dunque la tradizione riconducibile ad Antioco IV Epifane) appare più evidente.

Da subito Ireneo afferma che l’Anticristo incarna la “ricapitolazione di ogni apostasia”. L’idea della ricapitolazione è fondamentale nella cristologia del vescovo di Lione. Egli la riprende da Paolo (cfr. Ef. 1,10) e la sviluppa per affermare l’unità e l’unicità del Cristo contro le tendenze dualiste e dissolutive degli gnostici. In tale prospettiva va compresa l’attribuzione di questo concetto all’Anticristo, poiché si tratta della medesima idea considerata non più sul versante della salvezza, ma su quello dell’empietà: non più l’affermazione, nella storia, del Regno di Dio, ma il successo, almeno temporaneo, dell’apostasia. La stessa visione della storia sarà ampiamente illustrata nella Città di Dio di Sant’Agostino qualche secolo più tardi.

Ireneo si richiama esplicitamente all’importante profezia che Paolo esprime in 2 Ts. 2:3-4 per chiarire la natura dell’ultima e definitiva apostasia: il “figlio della perdizione” si innalzerà “sopra tutto ciò che viene detto Dio” (gli idoli, secondo Ireneo, i quali, “pur non essendolo, vengono considerati dagli uomini divinità”) e si spingerà fin nell’interno del tempio a Lui dedicato, per usurparne il trono. “Il tempio” di cui parla Paolo, e che il profeta Daniele aveva indicato come luogo in cui si sarebbe perpetuato “l’orrore desolante” da parte di Antioco IV Epifane, è identificato da Ireneo con il Tempio di Gerusalemme, il quale “fu fatto per ordine del vero Dio, Padre di Nostro Signore”.

Con ciò Ireneo intende lanciare un ulteriore attacco alle teorie gnostiche secondo cui il tempio menzionato da Paolo è in realtà il santuario eretto in onore del Demiurgo, il Dio dell’Antico Testamento, quel Dio Creatore che nel pensiero gnostico era un dio inferiore rispetto al Padre del Nuovo Testamento. Al di là della diatriba tra il vescovo di Lione e l’eresia gnostica, ciò che a noi interessa particolarmente è l’affermazione di Ireneo secondo cui è ancora nel Tempio di Gerusalemme “che l’avversario troneggerà e cercherà di farsi passare per Cristo”; subito dopo egli richiama esplicitamente il passo del vangelo di Matteo in cui Gesù prefigura l’”abominio della desolazione, di cui parla il profeta Daniele, stante nel luogo santo”.

L’Anticristo di Ireneo, che come si è detto assume qui i tratti fondamentali che lo caratterizzeranno per i secoli successivi, è ancora impregnato di quella tradizione, nata al tempo di Antioco IV Epifane e tramandata attraverso le parole di Daniele, secondo cui il male estremo si sarebbe impiantato nel santuario di Gerusalemme: l’”orrore desolante” del profeta veterotestamentario, che ai tempi di Antioco Epifane poteva essere interpretato variamente come un idolo raffigurante la figura del sovrano/Zeus o un altare pagano, ha perso la sua connotazione storica, ma ha conservato attraverso i secoli la valenza simbolica: il santuario di Gerusalemme, profanato al tempo dell’Epifane, è ancora il luogo in cui si manifesterà l’estremo atto di arroganza da parte dell’ultimo oppositore.

Per Ireneo, Gerusalemme è la Gerusalemme terrena, in contrapposizione alla “Gerusalemme celeste”: essa rappresenta una “vedova dimentica di Dio” che fugge presso il giudice iniquo opposto al Signore. È in questo senso che, secondo il vescovo di Lione, va interpretata la desolazione del santuario narrata da Daniele: al tempo del suo regno, l’Anticristo trasferirà il suo trono a Gerusalemme e siederà nel tempio di Dio spacciandosi per il Cristo e ingannando coloro che lo adorano. Dall’esegesi che Ireneo applica al testo di Daniele emerge un’idea a lui particolarmente cara, l’accoglimento dell’Anticristo da parte del popolo giudaico, questione legata a una delle più vive preoccupazioni del Cristianesimo nascente: il rifiuto e la persecuzione operata da parte dei giudei contro Gesù prima e contro i suoi seguaci poi.

È interessante notare come il vescovo di Lione si serva dunque del racconto danielico della profanazione del Tempio di Gerusalemme in chiave sostanzialmente antigiudaica, giungendo infine, non senza qualche contraddizione, a considerare il santuario dei giudei come la sede di intronizzazione dell’Anticristo.

Le dieci corna della Bestia di Ap. 17:12-14, le quali, come le corna viste da Daniele e le dieci dita dei piedi della statua apparsa in sogno a Nabucodonosor, rappresentano dieci re, sono chiaramente identificate da Ireneo con i re dell’Impero Romano, coloro che “si spartiranno l’impero che ora domina”. L’idea che l’Anticristo debba essere un imperatore romano è, come si è visto, precedente a Ireneo. L’origine di tale convinzione è da ricercare, oltre che nell’acceso spirito antiromano che anima la letteratura apocalittica (prima fra tutti, l’Apocalisse di Giovanni), nella persuasione che quello romano è l’ultimo impero nella serie degli imperi egemoni.

Tuttavia l’identificazione dell’Anticristo con un imperatore romano contrasta con quella che lo vuole nato in un contesto giudaico accolto trionfalmente dagli stessi giudei. Si tratta in realtà di due diverse tradizioni, l’una facente capo all’immagine dell’Anticristo quale tiranno escatologico e ultimo persecutore, con radici nel periodo successivo all’esilio babilonese e al conflitto del tempo di Antioco Epifane; l’altra all’identificazione dell’Anticristo con il falso profeta, il falso Messia, il grande ingannatore degli ultimi tempi di cui per la prima volta parla Paolo di Tarso. Ireneo accoglie entrambe le tradizioni senza tuttavia preoccuparsi di armonizzarle.

Per gli autori di III secolo l’Anticristo rappresenta ancora l’estremo persecutore della comunità dei credenti. Ippolito è il solo a dedicare all’argomento un intero trattato, il De Christo et Antichristo, in cui si propone di illustrare la venuta dell’estremo nemico del Signore e il tempo in cui essa si collocherà; il luogo e la tribù da cui l’oppositore trarrà origine; il suo nome secondo il numero indicato nell’Apocalisse di Giovanni; la sua attività ingannatrice, la persecuzione che egli opererà contro i santi e la sua auto divinizzazione, che ne decreteranno la fine nel giorno della venuta del Cristo.

Di maggiore interesse ritengo però alcuni passi che Ippolito dedica all’argomento nel suo Commento a Daniele, nel quale, tramite un’esegesi che non cessa di scorgere riferimenti cristologici in ogni passo delle Scritture anche a costo di interpretazioni molto ardite, egli ripropone sostanzialmente quanto già espresso nel De Antichristo, riservando però una particolare attenzione all’interpretazione dei passi scritturistici e all’elemento storico, là dove la figura dell’Anticristo viene inserita all’interno della successione delle epoche storiche e dei grandi imperi universali.

Ancor più che nell’opera di Ireneo, in cui l’Impero romano è identificato con l’ultimo impero della storia dal quale sorgerà l’Anticristo, nel commento di Ippolito è esplicitato un acceso spirito antiromano e antimperialista: l’Impero romano, ravvisato da Ippolito nella quarta bestia del capitolo 7 del Libro di Daniele, nel corso dell’opera viene definito con disprezzo come un’accozzaglia di popoli e razze, ed è presentato come simbolo della potenza anticristiana per eccellenza, la quale vuole diabolicamente imitare e soppiantare il Cristo nel tentativo di riunire sotto un solo nome tutte le nazione della terra.

Se Ippolito identifica Roma con la quarta bestia di Daniele, egli vede nelle dieci corna una prefigurazione di dieci regni futuri, non ancora affermatisi nella storia, dai quali sorgerà un ultimo, piccolo corno con “occhi simili a quelli di un uomo” e una bocca che parla “con alterigia”: non più Antioco IV Epifane, radice malata generatasi dall’Impero di Alessandro Magno e dai regni dei Diadochi, ma l’Anticristo, il nemico escatologico, il quale, “gonfiato d’orgoglio dallo spirito perverso che lo possiede”, muoverà guerra contro i santi con la pretesa di essere ovunque glorificato e adorato come un dio. Coerentemente con questa interpretazione, Ippolito identifica l’ostacolo menzionato da Paolo in 2 Ts. 2:1-9, “colui che trattiene” l’Anticristo, con l’Impero romano: la quarta bestia di Daniele, “rovesciata e tolta di mezzo la quale verrà l’Ingannatore”.

Seguendo la stessa linea interpretativa, la figura protagonista delle profezie dell’ultima grande visione di Daniele (Dn. 11,36-45) è identificata da Ippolito non con Antioco Epifane ma con l’Ingannatore escatologico, da lui chiamato “l’abominazione”: sarà egli infatti, in un tempo futuro, a ergersi al di sopra di ogni altro dio, dimentico delle divinità dei padri, per adorare con oro e argento un dio sconosciuto. L’Anticristo, prosegue Ippolito, “ricostruirà la città di Gerusalemme e riedificherà il tempio abbattuto, ridarà tutto il paese e i suoi confini ai Giudei il cui popolo richiamerà dalla schiavitù delle nazioni e si proclamerà loro re”. Ritorna dunque l’idea, già espressa da Ireneo ma in Ippolito esposta con particolare asprezza di toni, secondo cui l’Anticristo sarà accolto trionfalmente dai giudei, i quali, incapaci di riconoscere in Cristo il vero Messia, per una specie di legge del contrappasso, accoglieranno quello falso e si renderanno complici dello sterminio dei fedeli.

In un passo assai interessante, Ippolito distingue due differenti tipi di “abominazione” in Daniele: la prima, da lui definita “abominazione della distruzione”, sarebbe quella operata a suo tempo da Antioco IV Epifane; l’altra, l’”abominazione della desolazione”, è invece quella universale che si verificherà con la venuta dell’Anticristo. Anche in questo caso, dunque, Antioco Epifane è visto come una prefigurazione nella storia dell’estremo nemico di Dio, il quale agirà invece fuori di essa.

L’ultimo consiglio di lettura non può che essere l’opera di Origene, grazie al quale si afferma un’idea completamente diversa dell’estremo nemico del Cristo. A questo proposito è bene precisare che farò riferimento unicamente al Commentariorum in Matthaeum, ma non va dimenticato che Origene affronta il tema dell’Anticristo anche nel Contro Celso e nel Commento al Vangelo di Giovanni.

Autore di straordinaria erudizione, Origene nacque intorno al 185 d.C. ad Alessandria e morì probabilmente nel 254 d.C. a Tiro, dopo aver sofferto la prigione e le torture durante la persecuzione dell’imperatore Decio. Nel trattare dell’Anticristo, Origene si distingue notevolmente dagli altri autori che nei primi tre secoli dell’era cristiana si sono occupati dell’argomento. Questi, come abbiamo visto, si muovono generalmente entro le linee dell’escatologia di stampo asiatico che, sulla base di un’esegesi letterale, presenta una figura dell’Anticristo dai contorni estremamente concreti. Nonostante esso non si sia ancora manifestato, i tratti con cui viene descritto sono quelli di un personaggio reale, un uomo con una tremenda personalità.

Con Origene, massimo esponente della scuola alessandrina e fautore dell’allegorismo esegetico, si entra invece in un universo filosofico, teologico ed esegetico completamente diverso. Tutta l’escatologia viene da Origine reinterpretata alla luce del metodo allegorico: l’Anticristo perde tutte le caratteristiche di un personaggio concreto e reale e, privato della dimensione escatologica, viene considerato soltanto come il simbolo della contraffazione della verità. Esso non è più l’estremo persecutore del popolo dei credenti, colui che, plasmato sulle imprese storiche dei re dell’esilio e di Antioco IV Epifane, si opporrà a Dio in un’ultima lotta risolutiva.

Se una concretezza ancora gli viene accordata è solo quella dell’azione subdola e ingannatrice degli eretici e della loro opera di diffusione di dottrine false attraverso la falsa interpretazione della Sacra Scrittura (nel commentare il Vangelo di Matteo Origene menziona esplicitamente, tra gli altri eretici, i Marcioniti, gli Apelliani – seguaci di Apelle, discepolo di Marcione, il quale si distaccò dal maestro negando la distinzione tra il dio dell’Antico Testamento e quello del Nuovo e si dimostrò ancor più radicale nel negare ogni valore all’Antico Testamento – e gli Ofiti, setta gnostica così chiamata dal posto che nella sua dottrina occupa il serpente, ophis, considerato come il datore della “gnosi”).

Il tempio in cui secondo Daniele avviene la profanazione non è più il santuario di Gerusalemme: esso si spoglia qui di ogni connotazione storica per indicare non più un reale edificio, ma il complesso delle Scritture sacre ai cristiani. Il “luogo santo” in cui si situa l’abominatio desolationis di Mt. 24:15 è per Origene “ogni detto delle Divine Scritture pronunciato dai santi profeti che vissero molti secoli fa […], nonché i detti degli evangelisti e degli apostoli di Gesù Cristo. In questo luogo santo di tutte le Sacre Scritture […] l’Anticristo, cioè il falso verbo, viene a trovarsi frequentemente …”. Anche l’”abominazione” non è più un atto di adorazione idolatrica perpetuato all’interno del sancta sanctorum, ma il termine è qui utilizzato per designare lo stravolgimento del Verbo divino. Se Cristo è l’incarnazione di tale Verbo, l’Anticristo altro non è che la sua contraffazione.

Sulla stessa linea Origene interpreta anche la menzione dei “molti anticristi” di Giovanni e dei falsi profeti che verranno in nome del Cristo e “sedurranno molti” nel Vangelo di Matteo: non si tratta di individui che si spacceranno per il Cristo tramite prodigi strabilianti, ma di false dottrine, poiché secondo Origene “ogni verbo che è estraneo alla verità e si spaccia per verbo di dio è l’Anticristo” (va precisato qui che Origene naturalmente conosce l’interpretazione letterale dei testi esaminati, ma per lui essa è riservata a coloro che non vogliono scandagliare il testo sacro alla ricerca del senso più profondo. Nell’interpretazione di Origene gioca anche un’avversione verso tutta l’escatologia di stampo asiatico, come si riscontra nel suo dichiarato antimillenarismo).

In tal modo egli risolve anche la questione relativa all’unicità/molteplicità dell’Anticristo: “considerato come genere, [l’Anticristo] è uno; ma ha molte specie”, esattamente come la menzogna, che è unica nella sua natura, ma, esaminando la varietà delle false dottrine, si scopre che le menzogne sono molte. In tal modo si spiegano i “falsi cristi” menzionati nel Vangelo di Matteo, identificati da Origene con i molti mentitori (eretici) del tempo.

Se dunque il Cristo è la verità, l’Anticristo è la menzogna, nient’altro che la simulazione della verità (l’identificazione dell’Anticristo con la menzogna muove in Origene dalla convinzione che esso è il figlio del diavolo, convinzione desunta principalmente dai molti riferimenti all’argomento fatti da Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi); se Cristo è la sapienza, l’Anticristo è “l’ingannatore di quanti amano la sapienza di Dio”; se Cristo è giustizia, l’Anticristo non è che giustizia apparente, e così via. Esso è in sostanza, secondo Origene, la contraffazione di tutte le virtù incarnate in Cristo, compresa soprattutto la capacità di compiere miracoli, tramite i quali esso “seduce gli sprovveduti”. La capacità di distruggere l’Anticristo spetta a coloro i quali cacceranno l’abominio dal luogo santo comprendendo la vera interpretazione della Sacra Scrittura, ma soprattutto a Cristo, “il quale annienterà con il soffio della sua bocca ogni falso verbo”.

Ireneo e Origene rappresentano rispettivamente la tradizione asiatica e quella alessandrina, diverse non soltanto poiché l’una predilige un’esegesi letterale e l’altra quella allegorica, ma soprattutto a causa del differente sguardo che esse rivolgono alla storia e alla cultura del tempo: l’una più chiusa nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana, l’altra più aperta alle istanze provenienti dal mondo ellenistico.

Da ciò deriva il diverso modo di affrontare il tema dell’Anticristo: da una parte, mero simbolo dell’estrema malvagità del genere umano; dall’altra, personaggio storico dai tratti concreti e ben delineati, antagonista del Cristo nel tempo della fine.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]