[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

168 / DICEMBRE 2021 (CXCIX)


storia & sport

L’ANTICO GIOCO DEL TENNIS

BREVE EXCURSUS TRA LE CORTI D'ITALIA E D’EUROPA

di Marialuisa Dus

 

La toponomastica di Venezia racconta la storia di una città unica per assetto urbanistico, crogiolo di bellezza, arte e cultura. Campi, campielli e corti, calli, fondamenta e rii, salizzade e sottoportici, sestieri e parrocchie, con i loro curiosi nomi in dialetto veneziano, rievocano figure, fatti e leggende.

 

La nomenclatura della viabilità di Venezia è illuminante sulla tradizione della città: la vita degli abitanti, la genealogia della cittadinanza e le trasformazioni urbanistiche. La storia dà profondità al presente. È il caso di Venezia e della toponomastica veneziana che, costellata dei nomi più vari, talvolta insoliti e fantasiosi, racconta la storia segreta di una città magica, teatro di continui cambiamenti.

 

A Venezia la riscrittura s’è dilungata nei secoli donando alle pietre della città un fascino ineguagliabile. Le denominazioni delle vie di terra e di acqua, al di là dalle variazioni subite nel tempo, hanno da sempre qualificato i luoghi urbani principali attraverso i nomi d’illustri personaggi e santi, di nobili famiglie e comunità straniere, di botteghe e osterie, di case fondaco e teatri, di dimore ed edifici di culto.

 

Tra le insegne, i così detti nizioleti, che cifrano Venezia e orientano nel labirintico sistema viario della città lagunare, ce ne sono alcune che non sfuggono agli amanti del tennis. Nella contrada di San Felice una calle, un sottoportico e un ponte prendono il nome dall’antico gioco della racheta, detto a Venezia anche lacchetta. Il ceto civile giocava in Calle dei Botteri a San Cassiano, i patrizi prima di metter veste, ovvero prima di compiere venticinque anni, si radunavano ai Birri, mentre il popolo preferiva la Calle Longa tra San Felice e Santa Caterina.

 

A Venezia il gioco della racchetta era molto amato dai giovani delle Compagnie della Calza, società di gentiluomini nate a metà del Quattrocento, così dette dal costume d’indossare calze di seta ricamate, con una gamba spesso di colore differente rispetto all’altra. A Carnevale le compagnie «tenevano allegra la città» – afferma Giuseppe Tassini, organizzavano feste e spettacoli riservati alla nobiltà. Dai cinquecenteschi Diarii del veneziano Marin Sanuto si apprende che i festeggiamenti «consistevano in balli, conviti, mascherate, rappresentazioni teatrali, regate e pompose cavalcate».

 

Nel primo dei quattro volumi Gli abiti de Veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, l’artista di origini fiamminghe Giovanni Grevembroch restituisce il costume delNobile con racchetta e dell’antico gioco ne dà breve descrizione. Rappresentato di spalle, il giocatore con tricorno tiene in mano una palla di cuoio mentre esegue un colpo di dritto impugnando una piccola racchetta.

 

A Venezia il gioco della racchetta approda nel 1595. Nel sestiere di Canareggio viene costruito il primo campo da gioco al chiuso, in un area prossima al monastero di Santa Caterina, proprietà delle reverende madri. Nel libro La Repubblica di Venezia e lo sport Luigi Roffarè ricorda come «i nobili convenivano numerosissimi sul campo delle Fondamente Nuove, diretto da Pasquale Cicogna […] giocarono Ambasciatori e Nunzi pontifici, Carlo VI e Carlo VII, il Re di Polonia, il Re di Danimarca, gli elettori di Magonza e di Baviera e il giovanotto Federico Augusto di Sassonia, il più bravo di tutti […] Dei veneziani si distinsero in questo gioco, per la loro abilità, i nobili Domenico Morosini, Vincenzo Erizzo e Marco MichielSalamon». Il riferimento probabilmente è a una salada racchetta costruita circa vent’anni dopo la prima edificata in città.

 

A Parigi nel 1596 si contavano duecentocinquanta sale per iljue de paume (gioco del palmo), l’indotto del gioco dava da vivere a più di settemila persone. La più celebre tra le sale francesi è la sala del Palazzo di Versailles, dove il 20 giugno del 1789, prima dello scoppio della Rivoluzione francese, il Terzo Stato pronuncia il giuramento contro Luigi XVI, ricordato come Giuramento della Pallacorda.

 

Fra il Cinquecento e il Settecento anche in Italia le corti principesche costruiscono sale e campi per l’antico gioco del tennis. Trasformate in luoghi per lo spettacolo, le sale da racchetta anticipano gli edifici teatrali nella tradizione della corte rinascimentale. Il principe Alfonso II d’Este sembra sia stato il primo a convertire le sale da racchetta in sale provvisorie per la commedia.

 

Da metà Cinquecento in poi palla e commedia coabitano. Le sale da racchetta sono ampie e consentono l’allestimento di gradinate, palchi e palchetti, spesso isolate e attrezzate per il divertimentosiprestano a ospitare un vasto pubblico. Con il diminuire dell’interesse per il gioco, dalla metà del Seicentoin poi molte sale furono date in affitto ad attori, giocolieri e saltimbanchi, alcune trasformate in teatri permanenti.

 

Rispetto al gioco lo spettacolo offriva maggior guadagno ai proprietari delle strutture ludiche. A Torino dove oggi c’è il Teatro Carignano, esempio straordinario di teatro all’italiana del Settecento, c’era il Trincotto Rosso, seicentesca sala per la pallacorda, rettangolare, coperta e con pareti rosse.

 

La parola tennis, di origine francese, in un testo italiano compare per la prima volta in epoca medioevale. In Cronica Domestica, Messer Donato Velluti descrive la storia della sua famiglia. Nel raccontare le vicende che precedono la battaglia di Altopascio, Velluti ricorda che a Firenze nel 1325 giunsero cinquecento cavalieri francesi, uomini gentili che giocavano a una versione evoluta della pallacorda italiana, avvisavano l’avversario gridando tenez (tenete).

 

Sviluppatasi sulle basi di antichi giochi greci, romani e persiani, l’attività ludica si diffonde ampiamente in epoca medioevale in Europa, soprattutto in ambiente ecclesiastico. Tra il XII e XIV secolo nobili e religiosi francesi si esercitano alla paume chiamata pallacorda in Italia. La pratica ludica diviene presto popolare anche tra il volgo. A Parigi nel 1292 operavano tredici fabbricanti di palle a fronte di otto librai.

 

Diversamente dalla pelota spagnola, dove la palla colpita con una mazza è agguantata in ricezione con le mani, il jeu de paume si gioca a mani nude o con guanti protettivi. Appassionati del gioco, i sovrani francesi tentano di rendere il passatempo esclusivo della nobiltà emanando ordinanze e imponendo divieti. Nel 1369, in piena guerra dei cent’anni, Carlo V di Francia proibisce la paume e altri giochi dissipatori poiché distolgono il popolo dall’imparare il mestiere delle armi.

 

Da metà Cinquecento in poi nelle corti europeei reali si allenano al gioco della racchetta durante tutto l’anno, prendono lezioni da maestri e organizzano tornei. In epoca rinascimentale, momento di massimo splendore del jeu depaume, la racchetta prende il sopravvento sul guanto che in precedenza aveva sostituito le corregge di cuoio.

 

Francesco I di Francia, giocatore tra i più forti e appassionati, semina di campi il suo reame e nel 1539 gioca su un battello risalendo la Loira. Noto per il suo straordinario atletismo, Enrico VIII d’Inghilterra nel 1522 assieme a Carlo V sfida in una partita di doppio il principe d’Orange e il marchese di Brandeburgo. Il fornitore di racchette e palline, all’occasione anche compagno di doppio, Anthony Ansley, viaggia in tutta Europa al seguito del re inglese che non intende sospendere gli allenamenti. L’ambasciatore veneziano della corte reale Sebastian Giustinanirimane meravigliato dalle abilitàginniche del monarca, ricorda la pelle chiara di Enrico VIII risplendere attraverso le camicie di fine tessuto. Carlo IX di Valois, che dal padre Enrico II riceve la prima racchetta a soli due anni, nel 1571 organizza il primo torneo di jeu de paume con racchette per categorie: apprendisti, amatori e professionisti. Quell’anno il re francese sancisce anche la nascita della prima corporazione di racchettieri professionisti.

 

Tra i ritratti di nobili bambini con racchetta fra le mani, oltre a quello del figlio di Caterina de’ Medici Carlo Massimiliano duca di Orleans (Germain Le Manier, 1512), ci sono Federico Ubaldo della Rovere (Alessandro Vitali, 1607) e Luigi Gonzaga (Anonimo, 1617). Mentre il giovanissimo Carlo IX di Francia impugna una racchettina con corde annodate a ogni incrocio, per resistere alla pesantezza delle palle, il principino Federico Ubaldo della Rovere stringe una pallina e una paletta di legno. Il ritratto del piccolo nobile testimonia la fama e l’abitudine del gioco alla corte di Urbino; tre erano le sale da racchetta a Palazzo Ducale.

 

L’importanza del gioco nella formazione dei piccoli principi italiani è documentata anche da un altro dipinto che ritrae Francesco Giacinto e Carlo Emanuele (Francesco Cairo, 1636), figli di Vittorio Amedeo I di Savoia e Cristina di Francia. I fratellini posano vicino a un seggiolone rosso, il maggiore tiene in mano una racchetta e una pallina.

 

«Ancor nobile esercizio e convenientissimo a uom di Corte è il gioco di palla, nel quale molto si vede la disposizione del corpo e la prestezza e discioltura di ogni membro».

 

Così scrive nel 1528 Baldassarre Castiglione nel Cortegiano. Nelle corti italiane l’esplosione del fanatismo per l’antico gioco del tennis ha inizio già nella seconda metà del Quattrocento. A Milano nella Sala della Balla, nel Castello Sforzesco, Galeazzo Maria Sforza, che voleva sempre giocare con palle nuove, batte regolarmente il fratello Ludovico il Moro. A Urbino, nel Palazzo Ducale attorno al 1470 Federico da Montefeltro fa costruire una sala per il gioco della palla.

 

«Giocorno a detta palla forsi quattr’hore, dove sua Maestà si exercitava molto bene et assai ne sa di tal gioco, et giocavano di vinti scudi d’oro la partita, dove alla fine sua Maestà prese sexanta scudi. Et poi fornito, sua Maestà se ne ritornò in camara solamente con li soiCamarieri, et si mudò di camisia, et alquanto se rinfrescò, et stette così per un pezzo ad riposare».

 

Nella Cronaca del soggiorno di Carlo V in Italia Luigi Gonzaga I di Palazzolo racconta che l’imperatore Carlo V assieme a monsignore di Balasone sfida Ferrante Sanseverino, principe di Besignano, e monsignore de la Cueva. Tra il 1529 e il 1530 a Mantova, Sua Maestà Carlo V gioca un doppio in una sala da racchetta contigua alla Camera dei Giganti di Palazzo Te, costruita vicino alle stalle dei cavalli di Francesco II.

 

Alla corte gonzaghesca in pieno Rinascimento il gioco, molto popolare,si praticava anche a Palazzo San Sebastiano e a Palazzo Ducale. Nel 1555 a Venezia la tipografia Gabriel Giolito de’ Ferrari e Fratelli pubblica il primo libro sulle regole del tennis, il Trattato del Giuoco della Palla. Scritto dall’abate Antonio Scaino da Salò il volume è dedicato al duca Alfonso II d’Este, accanito giocatore.

 

Lo scrittore e filosofo tomista Scaino, analizza le regole e le attrezzature della sferistica, dalla pallapugno alla pallamaglio – antenato del moderno golf – e insiste sul valore educativo del gioco della racchetta da esercitarsi «con destreza et giudicio».

 

Dopo una disputa avuta con il duca di Ferrara sull’attribuzione di un punto, Scaino decide di redigere un trattato che codifichi le regole del gioco. Descrive palle, racchette e campi. La palla può essere «soda, ripiena di pelo di lana», oppure«palla a vento, di spirito dentro piena, con mirabile artificio». Due tipi di palla consentono sei diversi giochi. Si può battere la palla con la mano aperta o con un pugno ferrato, uno scanno o una racchetta. Si può giocare alla distesa, all’aperto, oppure con la corda o la rete, in luoghi recintati e coperti. Quarant’anni dopo, in Francia, l’anziano maitre de  paume Forbet pubblica il primo regolamento ufficiale sul tennis.

 

Il duca Alfonso II d’Este, instancabile calciatore e tennista, gioca al  zuogo della racheta quasi ogni giorno con professionisti, amici, cortigiani e servitori «in abito succinto […] e con i piedi calzati alla leggera, come sono le scarpe assolate in pelle di bufalo». Si allena spesso con il cameriere Vincenzo Flisco e con il giovane studioso Scaino, giocatore professionista. L’abate bresciano gioca con una splendida racchetta, cordata obliquamentee con doppia impugnatura.

 

Giovanni Canigiani, ambasciatore fiorentino della corte estense, ricorda che il 21 dicembre 1564 il duca Alfonso II sfida il conte Luigi Pico della Mirandola in una partita della durata di quasi cinque ore, nonostante avesse sempre nevicato.

 

Tra i racchettieri stipendiati dal duca ci sono: Giovanni Clove, i maestri Pietro Piettone, Loren de Morio, Giffre Sartone e Giovanni Ricardi. A metà Cinquecento la Casa d’Este finanzia la costruzione di sale e campi per il gioco della racchetta al Palazzo di corte e ai Castelli di San Michele, Fossadalbero e Belfiore. Con il tempo si attrezzano per il gioco anche le residenze più lontane come Villa d’Este a Tivoli, dove viene realizzato un campo all’aperto. Molti i pittori impiegati a corte che furono pagati«per haver dato de nigro» alle pareti delle sale da racchetta. I muri dei campi coperti dovevano essere ridipinti di tanto in tanto per ripulirli delle effigi bianche lasciate dalle «palle picciole».

 

Nel giardino del palazzo rinascimentale fra fontane, limonaie, labirinti e piscine d’acqua spesso c’è anche un campo da tennis. Nel paesaggio di contorno alla scena biblica del Re Davidche consegna una lettera a Uria dipinta a inizio Cinquecento da Lucas Gassel ha luogo un incontro al gioco della racchetta. Il campo all’aperto ritratto dal paesaggista fiammingo è rettangolare, pavimentato e protetto da un’alta cinta muraria.

 

A Fontainebleau l’architetto manierista Sebastiano Serlio progetta per il cardinale Ippolito d’Este II un campo da tennis lungo, alla francese, chiamato da Scaino «maggior steccato». A fine Ottocento, con la nascita del britannico lawn tennis, muri e sponde scompariranno e il campo in erba, all’aperto assumerà forma a clessidra. Al gioco estivo all’aria aperta si affianca quello invernale nelle sale, il più delle volte concepite come edifici autonomi; ne è un esempio, la sala da pallacorda costruita a fine Settecento nel giardino della Villa Medicea di Poggio a Caiano.

 

Il cardinale Ferdinando de’ Medici incarica nel 1583-84 l’architetto Bartolomeo Ammannati di realizzare una sala da pallacorda nell’ala grande della Villa Medici a Roma. Sono molti i palazzi romani che tra Cinque e Seicento possiedono campi e sale per il gioco della pallacorda, tra questi Palazzo del Quirinale, Palazzo Altemps, Palazzo Farnese e Palazzo Colonna.

 

Anche al Vaticano si gioca all’antico tennis. Nel diario romano del 1539 Torquato Tasso scrive di stanze prossime agli appartamenti privati di Papa Giulio III adibite al gioco della palla. In un’incisione di Domenico Parasacchi contenuta nella Raccolta delle principali fontane dell'inclitta città di Roma del 1647 due uomini con racchetta, uno dei quali in procinto di colpire la pallina, giocano su un pavimento piastrellato davanti a una fontana, detta Fontana del Capo Cor’itore del Vaticano nell’appartamento antico.

 

Il pittore veneziano Gabriele Bella, illustratore della vita festosa della Serenissima, documenta la moda dell’antico tennis nella Venezia del Settecento con il Giocco Della Racchetta, dipinto realizzato tra il 1779 e il 1792 e conservato alla pinacoteca della Fondazione Querini Stampalia. Quattro racchettieri giocano un doppio su un campo chiuso e al coperto. Due gallerie disposte sui lati lunghi della sala ospitano un pubblico di tifosi e scommettitori. Vicino a uno dei finestroni dell’edificio un raccattapalle recupera una palla rimasta impigliata tra le reti di protezione delle vetrate. I giocatori disputano la partita su un terreno lastricato in mattoni e diviso da un’alta rete, impugnano racchette cordate obliquamentee giocano con ballette a spicchi neri e rossi. La parete di fondo del campo riporta segnate le caccie.

 

A documentare prima di Bella che l’antico gioco del tennis fosse un passatempo in voga nella Venezia settecentesca è Giambattista Tiepolo con la celeberrima Morte di Giacinto, opera del 1752-1753 conservata alla Fondazione Thyssen-Bornemisza di Madrid. Noto ai cultori della storia del tennis, il dipinto rappresenta l’antica favola del dio Apollo e dell’amante Giacinto. Il poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi racconta che il bellissimo principe spartano, conteso da Zefiro e Apollo, viene ferito a morte durante una gara di lancio del disco. Il disco deviato da un colpo di vento alzato da Zefiro colpisce alla tempia Giacinto che, riverso a terra, versa sangue. Disperato della perdita dell’amante, Apollo trasforma il giovinetto in un fiore.

 

Nella rilettura tiepolesca dell’antico mito la palla rimpiazza il disco. In primo piano, vicino a palline in cuoio cucite sta distesa a terra una racchetta cordata verticalmente con un emblema nobiliare all’incrocio fra manico e telaio, in lontananza, invece, fra le gambe di un alabardiere, s’intravede una rete divisoria afflosciata. L’adattamento moderno della favola è da imputare al poeta cinquecentesco Giovanni Andrea dell’Anguillara che nella traduzione delle Metamorfosi ovidiane del 1561 introduce il rinascimentale gioco della racchetta, chiamato dai britannici royal tennis. Il principe Wilhelm Friedrich Schaumburg-Lippe, committente del dipinto, era un abile tennista, inoltre, all’epoca, gli incidenti mortali dovuti alla durezza delle palle non erano una rarità.

 

L’insolita rappresentazione della gara tra Apollo e Giacinto, ritratti nelle vesti di giocatori di racchetta, è già presente nell’iconografia del Seicento. Apollo soccorre Giacinto e mentre tiene in pugno ancora la racchetta sostiene il corpo dell’amante ormai privo di vita. La racchetta del giovane ferito sta a terra in primo piano. Il dipinto realizzato attorno al 1630 e attribuito da Gianni Papi a Francesco Boneri, detto Cecco del Caravaggio, modello prediletto oltre che compagno di gioco di Michelangelo Merisi da Caravaggio, racconta un episodio biografico che coinvolge entrambi gli artisti, il maestro e l’allievo. A Roma presso il Muro Torto, il 28 maggio 1606 in via della Pallacorda Caravaggio uccide durante una rissa Ranuccio Tommasoni da Terni, rivale in amore e avversario nella tifoseria sul campo di gioco.

 

Grandi amanti del gioco, come i reali, anche gli artisti nella palla e nella racchetta si dilettano e trovano ispirazione. «Avevo in questo mio castello un giuoco di palla da giuocare alla corda, dal quale io traevo assai utile». Così Benvenuto Cellini, maestro orafo e scultore del manierismo fiorentino, ricorda il soggiorno alla corte di Francesco I di Francia nella sua Vita. Secondo lo studioso Cees De Bondt, Donato fiorentino detto Donatello ambienta il Miracolo del figlio pentito, rilievo bronzeo appartenente all’altare della Basilica del Santo di Padova, dentro un campo per il gioco della palla.

 

Nel suo lungo sviluppo dal tiro con il palmo a quello con la racchetta, l’antico gioco del tennis continua a regalare ancor oggi, come Scaino a metà Cinquecento scrisse nel suo Trattato,«beneficio al corpo, ricreazione e tranquillità all’animo».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

G. Clerici, Il tennis nell’arte. Racconti di quadri e sculture dall’antichità a oggi. Mondadori, Milano 2018.

L. Bottazzi, Tennis - 100 anni di storie. Giunti Editore, Milano 2018.

G. Flossi, Il Dio del sole un asso del tennis?in«ArteDossier», 349 dicembre 2017, pp. 80-81.

L.G. Secchieri, Gioco della racchetta a Ferrara tramanifestazioni cavalleresche, rappresentazioni teatrali e attività economiche, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Ferrara», vol. 88, 2010-2011, pp. 99-128.

G. Clerici, 500 anni di tennis, Mondadori, Milano 2007.

C. De Bondt, Royal Tennis in Renaissance Italy, Brepols (Belgio), 2006.

G. Tassini, Curiosità Veneziane, Filippi Editore, Venezia 1970. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]