[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 210 / GIUGNO 2025 (CCXLI)


ambiente

SUGLI ANIMALI COME RISORSA ALIMENTARE
E se fosse ora di dire basta?

di Matteo Liberti

 

“Domando, pieno di meraviglia, con quale disposizione, animo o pensiero il primo uomo abbia toccato con la bocca il sangue e sfiorato con le labbra la carne di un animale ucciso”. A domandarsi ciò fu il filosofo Plutarco, che nell’opera Del mangiare carne (I-II secolo d.C.) spese accorate parole per divulgare la propria scelta vegetariana, fatta in rispetto degli animali e perché giudicava innaturale la loro assunzione quale cibo. Nondimeno, l’essere umano era da sempre dedito a sostentarsi anche mangiando carne e pesce, dapprima andando a caccia e a pesca e poi allevando gli animali di cui si nutriva. Per gran parte della Storia, gli allevamenti di bestiame avranno peraltro dimensioni domestiche e un impatto ambientale limitato. Poi, con l’arrivo del Novecento e dei famigerati allevamenti intensivi, tutto è mutato: le condizioni degli animali sono diventate da girone infernale, l’abuso di carne a buon mercato ha avuto ricadute negative sulla salute e l’ambiente ha iniziato a risentire in modo allarmante degli effetti delle produzioni industriali. Prima di analizzare tale svolta critica, è però utile ripartire dall’alba dei tempi.

 

Dalla caccia all’allevamento

 

Fu in epoca neolitica, ossia all’incirca dal 10.000 a.C., che i nostri antenati, già esperti nel procurarsi cibo raccogliendo ciò che offriva la natura e andando a caccia (migrando a tal fine di terra in terra), iniziarono ad allevare gli animali, affiancando a tale pratica quella dell’agricoltura. In questo processo, partito dal Medio Oriente, selezionarono le specie che meglio si adattavano a essere addomesticate, allevandole con modalità sia stanziali sia nomadi (nella pastorizia) e garantendogli in ambedue i casi adeguate cure e una vita salutare, utile alla qualità delle carni. Il bestiame cominciò inoltre a essere sfruttato per ricavarne pelli, lana e alimenti derivati (latte e uova), nonché come forza lavoro. In parallelo, furono addomesticati anche cani e gatti e cavalli, ma senza fini alimentari (con parziale eccezione degli equini). Rimanendo alla produzione di carne, gli allevamenti più diffusi furono fin dal principio quelli di bovini, ovini e suini (molti esemplari venivano tra l’altro sacrificati nell’ambito di antiche pratiche religiose), dopodiché, nel I millennio a.C., apparvero anche i primi allevamenti di pollame, le cui carni, assieme a quelle di mucca, maiale, capra e pecora sono tuttora le più mangiate. A seguire, spaziando dalle Americhe al Vecchio Continente, vedranno quindi la luce allevamenti di tacchino, coniglio, lama, struzzo e vari altri ancora. Senza dimenticare l’acquacoltura, ossia l’allevamento di pesci, molluschi e crostacei, anch’essa diffusa già nei tempi antichi, in primis nel mondo romano. Nel tempo, non sono inoltre mai tramontate le attività di caccia (in passato necessaria, oggi “ricreativa”) a danno della fauna selvatica. A ogni modo, fino all’età moderna l’essere umano è riuscito a soddisfare il desiderio di carne senza compromettere del tutto gli equilibri naturali, anche perché tale alimento è stato a lungo un privilegio dei più abbienti, mentre per la gente comune era un saltuario complemento alla dieta.

 

L’avvento degli intensivi

 

Tra Sette e Ottocento, a seguito dell’accresciuta disponibilità economica derivante dalla rivoluzione industriale, in tutto l’Occidente aumentò la richiesta di carne, e così spuntarono come funghi grandi mattatoi in cui lavorare ingenti quantità di bestiame. In tali luoghi, già nel XIX secolo, furono adottati moderni metodi da catena di montaggio, mentre i grandi allevamenti rimasero quelli di un tempo, ossia tendenzialmente “estensivi”, con gli animali liberi di muoversi su vasti terreni. Poi, nel secondo dopoguerra, tutto cambiò: dagli anni Sessanta, in epoca di boom economico, nei maggiori paesi industrializzati la domanda di carne si fece infatti ancor più massiccia, e per soddisfarla si cominciò a diffondere la pratica degli allevamenti “intensivi”, basata sulla concentrazione di un enorme numero di animali in ambienti chiusi (per essere nutriti e cresciuti con metodologie automatizzate al fine di produrre carne in enormi quantità e a prezzi competitivi, senza troppo badare al loro benessere). Tali produzioni, riguardanti inizialmente il pollame (i primi esperimenti si registrarono negli Usa negli anni Venti), hanno avvicinato al consumo di carne sempre più persone (tra il 1961 e oggi la produzione globale è passata da circa 70 milioni di tonnellate a oltre 350), suscitando nel contempo accese polemiche per vari aspetti critici. La prima a sorgere è stata la questione del trattamento degli animali, ammassati in gabbie senza spazio vitale, privati della luce naturale, separati dai cuccioli dopo la riproduzione e “manipolati” di continuo (tra amputazioni e bombardamenti di medicinali) per ottimizzarne la produttività, in un clima di paura che si protrae fino al momento della morte (che avviene spesso in modalità da film horror). Uno scenario insomma ben diverso di quello della tradizionale immagine della fattoria immersa nella natura, e che comporta anche altre criticità, inerenti all’ambiente e alla salute dei consumatori.

 

Sfruttamento rischioso

 

Uno dei maggiori problemi degli intensivi concerne l’enorme quantità di terreni usati per coltivare il mangime per il bestiame (soprattutto cereali), con deforestazioni che compromettono la biodiversità. C’è poi la questione dell’eccezionale quantità d’acqua utilizzata, considerando che per produrre 1 kg di manzo ne servono oltre 15.000 litri, mentre per l’equivalente di mais ne bastano 900 (le risorse potrebbero dunque essere usate per attività agricole meno impattanti e utili a sfamare più persone). A ciò si aggiunge il fatto che, per limitare l’insorgere di epidemie, agli animali vengono somministrati numerosi antibiotici (il cui uso “preventivo” è peraltro vietato in UE), cosa che ha vari effetti deleteri sul nostro organismo. Per tacere dell’allarme legato all’utilizzo, nei mangimi, di farine d’origine animale lavorate con sostanze risultate tossiche, responsabili qualche tempo fa del cosiddetto “morbo della mucca pazza”. Vi è inoltre il problema dell’inquinamento (riguardante sia le falde acquifere, dove finiscono molte delle deiezioni solide e liquide degli animali, sia l’aria, dove vengono immesse notevoli quantità di anidride carbonica e di altri gas serra) e quello della nostra salute: la disponibilità di carni a basso costo ne incentiva infatti l’abuso, con conseguente insorgere di patologie cardiovascolari e aumento delle possibilità di contrarre talune forme tumorali. In proposito, gli esperti suggeriscono generalmente di non superare una media di 500 gr a settimana (soprattutto se si parla di carne rossa), mentre il consumo reale si assesta spesso, in Occidente, sopra a 1,5 kg, con punte di oltre 2 kg negli Usa.

 

Mutamenti contemporanei

 

Per limitare le suddette criticità, in tempi recenti sono state vagliate nuove normative e lanciate campagne volte a promuovere una migliore alimentazione e un contenimento degli sprechi, ma la situazione rimane allarmante. A oggi va per esempio sprecato più del 10% della produzione mondiale di carne, considerando un totale di oltre 50 miliardi di animali uccisi annualmente (esclusi i pesci, il cui numero è superiore). I consumi continuano inoltre ad aumentare, tanto che secondo gli esperti la domanda sovrasterà presto le possibilità produttive, costringendo a optare per altri animali, insetti in primis. Nello specifico, il consumo di carne risulta in rapida crescita in Cina e in altri paesi asiatici “emergenti”, mentre è sostanzialmente stabile in Occidente, dov’è però notevolmente aumentato il numero di vegetariani e vegani (in Italia una persona su dieci non mangia carne), grazie anche all’immissione sul mercato di “sostituti”, a base di soia, seitan, tofu e legumi, che forniscono analoghe quantità di proteine e sapori simili (alcune bistecche green riproducono tra l’altro alla perfezione aspetto e consistenza di quelle vere). Tutto ciò per andare incontro ai consumatori più tradizionalisti e salvaguardare nel contempo la natura: d’altronde, se nel 1960 la Terra contava circa tre miliardi di persone, oggi il numero dei suoi abitanti sfiora gli otto, a fronte di risorse limitate e di una biodiversità sempre più a rischio. Volenti o nolenti, nel prossimo futuro dovremo quindi tutti rivedere le nostre abitudini alimentari, riducendo il consumo di carne e cercando di contenere gli sprechi e badare alla qualità, prediligendo magari gli allevamenti che applicano metodi biologici, più rispettosi della salute di tutti: nostra, degli animali e del pianeta in cui viviamo.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]