SUGLI ANIMALI COME RISORSA
ALIMENTARE
E se fosse ora di dire basta?
di Matteo
Liberti
“Domando, pieno di meraviglia, con
quale disposizione, animo o pensiero
il primo uomo abbia toccato con la
bocca il sangue e sfiorato con le
labbra la carne di un animale
ucciso”. A domandarsi ciò fu il
filosofo Plutarco, che nell’opera
Del mangiare carne (I-II secolo
d.C.) spese accorate parole per
divulgare la propria scelta
vegetariana, fatta in rispetto degli
animali e perché giudicava
innaturale la loro assunzione quale
cibo. Nondimeno, l’essere umano era
da sempre dedito a sostentarsi anche
mangiando carne e pesce, dapprima
andando a caccia e a pesca e poi
allevando gli animali di cui si
nutriva. Per gran parte della
Storia, gli allevamenti di bestiame
avranno peraltro dimensioni
domestiche e un impatto ambientale
limitato. Poi, con l’arrivo del
Novecento e dei famigerati
allevamenti intensivi, tutto è
mutato: le condizioni degli animali
sono diventate da girone infernale,
l’abuso di carne a buon mercato ha
avuto ricadute negative sulla salute
e l’ambiente ha iniziato a risentire
in modo allarmante degli effetti
delle produzioni industriali. Prima
di analizzare tale svolta critica, è
però utile ripartire dall’alba dei
tempi.
Dalla caccia all’allevamento
Fu
in epoca neolitica, ossia
all’incirca dal 10.000 a.C., che i
nostri antenati, già esperti nel
procurarsi cibo raccogliendo ciò che
offriva la natura e andando a caccia
(migrando a tal fine di terra in
terra), iniziarono ad allevare gli
animali, affiancando a tale pratica
quella dell’agricoltura. In questo
processo, partito dal Medio Oriente,
selezionarono le specie che meglio
si adattavano a essere
addomesticate, allevandole con
modalità sia stanziali sia nomadi
(nella pastorizia) e garantendogli
in ambedue i casi adeguate cure e
una vita salutare, utile alla
qualità delle carni. Il bestiame
cominciò inoltre a essere sfruttato
per ricavarne pelli, lana e alimenti
derivati (latte e uova), nonché come
forza lavoro. In parallelo, furono
addomesticati anche cani e gatti e
cavalli, ma senza fini alimentari
(con parziale eccezione degli
equini). Rimanendo alla produzione
di carne, gli allevamenti più
diffusi furono fin dal principio
quelli di bovini, ovini e suini
(molti esemplari venivano tra
l’altro sacrificati nell’ambito di
antiche pratiche religiose),
dopodiché, nel I millennio a.C.,
apparvero anche i primi allevamenti
di pollame, le cui carni, assieme a
quelle di mucca, maiale, capra e
pecora sono tuttora le più mangiate.
A seguire, spaziando dalle Americhe
al Vecchio Continente, vedranno
quindi la luce allevamenti di
tacchino, coniglio, lama, struzzo e
vari altri ancora. Senza dimenticare
l’acquacoltura, ossia l’allevamento
di pesci, molluschi e crostacei,
anch’essa diffusa già nei tempi
antichi, in primis nel mondo romano.
Nel tempo, non sono inoltre mai
tramontate le attività di caccia (in
passato necessaria, oggi
“ricreativa”) a danno della fauna
selvatica. A ogni modo, fino all’età
moderna l’essere umano è riuscito a
soddisfare il desiderio di carne
senza compromettere del tutto gli
equilibri naturali, anche perché
tale alimento è stato a lungo un
privilegio dei più abbienti, mentre
per la gente comune era un saltuario
complemento alla dieta.
L’avvento degli intensivi
Tra Sette e Ottocento, a seguito
dell’accresciuta disponibilità
economica derivante dalla
rivoluzione industriale, in tutto
l’Occidente aumentò la richiesta di
carne, e così spuntarono come funghi
grandi mattatoi in cui lavorare
ingenti quantità di bestiame. In
tali luoghi, già nel XIX secolo,
furono adottati moderni metodi da
catena di montaggio, mentre i grandi
allevamenti rimasero quelli di un
tempo, ossia tendenzialmente
“estensivi”, con gli animali liberi
di muoversi su vasti terreni. Poi,
nel secondo dopoguerra, tutto
cambiò: dagli anni Sessanta, in
epoca di boom economico, nei
maggiori paesi industrializzati la
domanda di carne si fece infatti
ancor più massiccia, e per
soddisfarla si cominciò a diffondere
la pratica degli allevamenti
“intensivi”, basata sulla
concentrazione di un enorme numero
di animali in ambienti
chiusi (per essere nutriti e
cresciuti con metodologie
automatizzate
al fine di produrre carne in enormi
quantità e a prezzi competitivi,
senza troppo badare al loro
benessere). Tali produzioni,
riguardanti inizialmente il pollame
(i primi esperimenti si registrarono
negli Usa negli anni Venti), hanno
avvicinato al consumo di carne
sempre più persone (tra il 1961 e
oggi la produzione globale è passata
da circa 70 milioni di tonnellate a
oltre 350), suscitando nel contempo
accese polemiche per vari aspetti
critici. La prima a sorgere è stata
la questione del trattamento degli
animali, ammassati in gabbie senza
spazio vitale, privati della luce
naturale, separati dai cuccioli dopo
la riproduzione e “manipolati” di
continuo (tra amputazioni e
bombardamenti di medicinali) per
ottimizzarne la produttività, in un
clima di paura che si protrae fino
al momento della morte (che avviene
spesso in modalità da film horror).
Uno scenario insomma ben diverso di
quello della tradizionale immagine
della fattoria immersa nella natura,
e che comporta anche altre
criticità, inerenti all’ambiente e
alla salute dei consumatori.
Sfruttamento rischioso
Uno dei maggiori problemi degli
intensivi concerne l’enorme quantità
di terreni usati per coltivare il
mangime per il bestiame (soprattutto
cereali), con deforestazioni che
compromettono la biodiversità. C’è
poi la questione dell’eccezionale
quantità d’acqua utilizzata,
considerando che per produrre 1 kg
di manzo ne servono oltre 15.000
litri, mentre per l’equivalente di
mais ne bastano 900 (le risorse
potrebbero dunque essere usate per
attività agricole meno impattanti e
utili a sfamare più persone). A ciò
si aggiunge il fatto che, per
limitare l’insorgere di epidemie,
agli animali vengono somministrati
numerosi antibiotici (il cui uso
“preventivo” è peraltro vietato in
UE), cosa che ha vari effetti
deleteri sul nostro organismo. Per
tacere dell’allarme legato
all’utilizzo, nei mangimi, di farine
d’origine animale lavorate con
sostanze risultate tossiche,
responsabili qualche tempo fa del
cosiddetto “morbo della mucca
pazza”. Vi è inoltre il problema
dell’inquinamento (riguardante sia
le falde acquifere, dove finiscono
molte delle deiezioni solide e
liquide degli animali, sia l’aria,
dove vengono immesse notevoli
quantità di anidride carbonica e di
altri gas serra) e quello della
nostra salute: la disponibilità di
carni a basso costo ne incentiva
infatti l’abuso, con conseguente
insorgere di patologie
cardiovascolari e aumento delle
possibilità di contrarre talune
forme tumorali. In proposito, gli
esperti suggeriscono generalmente di
non superare una media di 500 gr a
settimana (soprattutto se si parla
di carne rossa), mentre il consumo
reale si assesta spesso, in
Occidente, sopra a 1,5 kg, con punte
di oltre 2 kg negli Usa.
Mutamenti contemporanei
Per limitare le suddette criticità,
in tempi recenti sono state vagliate
nuove normative e lanciate campagne
volte a promuovere una migliore
alimentazione e un contenimento
degli sprechi, ma la situazione
rimane allarmante. A oggi va per
esempio sprecato più del 10% della
produzione mondiale di carne,
considerando un totale di oltre 50
miliardi di animali uccisi
annualmente (esclusi i pesci, il cui
numero è superiore). I consumi
continuano inoltre ad aumentare,
tanto che secondo gli esperti la
domanda sovrasterà presto le
possibilità produttive, costringendo
a optare per altri animali, insetti
in primis. Nello specifico, il
consumo di carne risulta in rapida
crescita in Cina e in altri paesi
asiatici “emergenti”, mentre è
sostanzialmente stabile in
Occidente, dov’è però notevolmente
aumentato il numero di vegetariani e
vegani (in Italia una persona su
dieci non mangia carne), grazie
anche all’immissione sul mercato di
“sostituti”, a base di soia, seitan,
tofu e legumi, che forniscono
analoghe quantità di proteine e
sapori simili (alcune bistecche
green riproducono tra l’altro
alla perfezione aspetto e
consistenza di quelle vere). Tutto
ciò per andare incontro ai
consumatori più tradizionalisti e
salvaguardare nel contempo la
natura: d’altronde, se nel 1960 la
Terra contava circa tre miliardi di
persone, oggi il numero dei suoi
abitanti sfiora gli otto, a fronte
di risorse limitate e di una
biodiversità sempre più a rischio.
Volenti o nolenti, nel prossimo
futuro dovremo quindi tutti rivedere
le nostre abitudini alimentari,
riducendo il consumo di carne e
cercando di contenere gli sprechi e
badare alla qualità, prediligendo
magari gli allevamenti che applicano
metodi biologici, più rispettosi
della salute di tutti: nostra, degli
animali e del pianeta in cui
viviamo.