N. 45 - Settembre 2011
(LXXVI)
Analisi dell’Età Moderna
Storia di un concetto
di Roberto Rota e Giovanni Piglialarmi
Il concetto di età moderna non implica esclusivamente un riferimento temporale, ma anche ideologico e di valore. Il termine moderno non indica qualcosa di recente, cronologicamente vicino, ma eventi che si caratterizzano per il fatto di essere “moderni”, cioè vicini a quello che noi consideriamo il pensiero e la mentalità odierni. In tale termine, quindi, è sottinteso un giudizio di valore positivo in quanto a tutto ciò che consideriamo moderno si contrappone ciò che consideriamo superato, vecchio e reazionario, quindi in maniera relativamente negativa.
Questo
discorso
può
essere
facilmente
applicato
alla
storia.
Il
periodo
che
noi
chiamiamo
“Storia
Moderna”
non
indica
un
lasso
cronologico
a
noi
vicino,
basti
considerare
le
due
date
canoniche
che
ne
delimitano
i
contorni,
1492-1815,
le
quali
sono
ben
lontane
dalla
realtà
contemporanea.
“Storia
moderna”
indica,
invece,
quel
periodo
nel
quale
nascono
quei
pensieri,
quelle
idee,
quelle
certezze
che
ci
sono
familiari,
che
sono
alla
base
di
quel
pensiero
razionale
sui
cui
è
nata
la
mentalità
moderna
occidentale.
Ma
quando
nasce
tale
consapevolezza?
Quand’è
che
l’uomo
si
rende
conto
di
essere
protagonista
di
una
nuova
stagione
culturale
profondamente
diversa
da
quella
precedente?
Bisogna
ritornare
al
1600.
La
concezione
cristiana
del
mondo
e
della
storia,
che
aveva
attraversato
indenne
tutto
il
medioevo,
considerava
l’esistenza
umana
come
un’indifferente
Historia
Salutis,
cioè
un’attesa,
sempre
uguale
a se
stessa,
del
giudizio
universale
e
della
salvezza
dell’umanità
(o
meglio
di
una
parte
di
essa).
In
questo
“paradigma”
l’unico
avvenimento
significativo
dopo
la
creazione
era
stata
la
venuta
di
Cristo,
per
il
resto
l’umanità
si
era
trascinata
nella
monotona
e
peccaminosa
attesa
della
redenzione.
Chiaramente
in
tale
concezione
non
potevano
essere
identificate
epoche
e
periodizzazioni
storiche
e
quindi
l’uomo
medioevale,
per
esempio,
non
si
sentiva
molto
distante
dal
suo
antenato
dell’Impero
Romano,
non
vi
era
una
lucida
consapevolezza
della
profondità
cronologica.
In
fondo
tutti
gli
uomini
erano
uguali,
e
una
nobile
famiglia
medioevale
poteva
benissimo
annoverare
tra
i
suoi
antenati
un
grande
personaggio
della
Roma
repubblicana.
Anzi
proprio
l’antichità
della
famiglia
ne
qualificava
la
dignità,
la
società
premoderna
guardava
più
al
passato
che
al
futuro.
In
una
realtà
dove
le
uniche
date
significative
erano
state
la
creazione
e la
venuta
di
Cristo,
l’allontanamento
da
tali
avvenimenti
implicava
una
perdita
di
valore
e
una
corruzione.
In
questo
modo
quelle
famiglie
che
riuscivano
a
dimostrare
di
avere
remoti
antenati,
cioè
più
vicini
alla
“verità”,
erano
sicuramente
più
prestigiose
delle
altre,
da
qui
il
culto
della
nobiltà
per
le
ricostruzioni
genealogiche.
L’aristocrazia,
unica
a
poter
contare
su
antiche
discendenze,
aveva
la
dignità
e il
compito
di
guidare
le
masse
popolari
verso
la
salvezza,
ma
la
“guida”
implicava
necessariamente
il
controllo
da
cui
la
legittimazione
del
loro
potere.
Solo
la
nobiltà
era
qualificata,
dalla
sua
tradizione,
a
governare
(ricordiamo
che
nobiltà
etimologicamente
rimanda
al
concetto
di
“essere
riconoscibili”,
quindi
legittimati
dal
tempo)
e
d’altronde,
come
ci
tenne
a
sottolineare
il
vescovo
Jacques
Bénigne
Bossuet,
anche
Cristo
di
era
presentato
come
erede
dei
re
di
Giuda,
e il
nuovo
testamento
comincia
con
una
genealogia.
Le
cose
cominciarono
a
cambiare
nel
1600,
quando
le
certezze
teologiche
e
bibliche
cominciarono
ad
esser
messe
in
discussione.
Già
la
scoperta
del
Nuovo
Mondo
aveva
scosso
le
fondamenta
delle
certezze
cristiane.
La
Bibbia
non
contemplava
tali
nuovi
popoli
e
quindi,
se
era
stata
fallibile
in
questo
campo,
poteva
esserlo
anche
in
altri,
se
poi
si
considera
che
il
testo
sacro
non
era
solo
una
guida
religiosa
ma
l’insieme
delle
certezze
e
delle
verità
a
cui
gli
uomini
si
ispiravano
e si
conformavano,
è
evidente
quale
stravolgimento
fu
la
sua
messa
in
discussione.
Se
le
sacre
scritture
più
che
un
testo
rivelato
si
dimostravano,
semplicemente,
essere
una
creazione
umana,
allora
tutta
la
realtà
che
su
di
esse
si
basava
poteva
esser
messa
in
discussione,
ed è
ciò
che
avvenne
durante
il
‘600.
La
crisi
intellettuale
del
‘600
si
concentrava,
soprattutto,
intorno
alla
critica
del
pensiero
autoritario
e
del
sapere
tradizionale,
di
quella
conoscenza
che
si
basava
sull’autorità
e
sulla
tradizione.
La
rivoluzione
scientifica
stava
dimostrando
che
l’esperienza
e
non
la
tradizione
era
alla
base
della
conoscenza.
Nasceva,
così,
il
libero
pensiero
che
metteva
in
discussione
la
tradizione
e la
religione
rivelata,
guardando,
invece,
positivamente
al
futuro
e
alla
scienza.
Si
trattava,
però,
di
un
pensiero
ancora
elitario,
che
non
aveva
la
pretesa
di
cambiare
il
mondo,
ma
era
circoscritto
a
circoli
intellettuali
e a
uomini
di
scienza.
Sarà
l’Illuminismo,
poi,
a
porre
come
sua
premessa
la
necessità
di
costruire
un
mondo
migliore,
la
necessità
di
intervenire
nella
società
per
alleviare
le
pene
dell’uomo.
Proprio
il
Secolo
dei
Lumi
porterà
una
visione
profondamente
diversa
del
passato.
Se
fino
a
quel
momento
la
storia
era
stata
un’indifferente
attesa
della
salvezza,
la
messa
in
discussione
dei
dogmi
religiosi
doveva
necessariamente
portare
ad
un
cambiamento.
Venivano
posti
alla
base
dell’esistenza
umana
non
più
i
valori
cristiani
della
salvezza
e
della
redenzione
ma,
bensì,
i
nuovi
dogmi
della
civiltà
e
del
progresso
e,
in
base
a
questi,
la
storia
doveva
essere
divisa
in
periodi.
Tali
scansioni
erano
delle
vere
e
proprie
tappe
di
avvicinamento
alla
razionalità
illuministica,
presa
come
modello
di
perfezione.
Quindi
il
passato
dell’uomo
veniva
rielaborato
in
funzione
del
presente,
in
modo
tale
che
tutta
l’esistenza
umana
era
vista
come
un
cammino
(che
poteva
comportare
anche
dei
momentanei
passi
indietro)
verso
la
perfezione
che
era
incarnata
dalla
propria
concezione
della
realtà
(in
questo
caso
quella
degli
illuministi).
A
ben
vedere
nasceva
la
moderna
concezione
della
storia,
che
è la
nostra.
Una
rappresentazione
che
pone
al
suo
centro
la
moderna
società
occidentale
e
che
divide
la
storia
dell’uomo
in
funzione
di
tale
presente.
Per
esempio
le
date
e
gli
eventi
canonici
dei
periodi
storici
sono
esclusivamente
in
funzione
della
storia
occidentale:
la
scoperta
dell’America
e la
rivoluzione
scientifica
sono
alla
base
del
progresso
e
della
globalizzazione
che
vede
al
suo
centro
l’Occidente,
la
Riforma
e
L’Illuminismo
sono
alla
base
del
pensiero
occidentale
così
come
le
Rivoluzioni
(inglese,
statunitense
e
francese)
sono
le
fondamenta
del
pensiero
politico
euro-atlantico.
Il
passato
è
reinterpretato
in
virtù
dell’avvicinamento
ai
paradigmi
del
nostro
presente,
ma
gran
parte
della
storia
umana
non
occidentale
è
sottovalutata
e
tralasciata.
Figuriamoci
quale
interesse
possa
avere,
almeno
nell’immediato,
la
Riforma
protestante
(1517)
per
la
storia
cinese
o
giapponese,
oppure
la
Rivoluzione
americana
per
la
storia
dell’Impero
Ottomano.
Per
questo,
ritornando
al
problema
iniziale,
in
concetto
di
moderno
non
è un
semplice
riferimento
cronologico
ma
implica
un
profondo
giudizio
di
valore.
Esso
è
moderno
solo
per
l’Occidente,
ma
anche
in
questo
caso
solo
per
alcuni
paesi
e,
all’interno
di
questi
ultimi,
solo
per
una
parte
limitatissima
della
popolazione.
Si
veda
la
Spagna
che
proprio
nell’età
moderna
comincia
il
suo
declino
o
agli
schiavi
afro-americani
nelle
piantagioni
statunitensi,
considerati
dei
sub-uomini
proprio
nello
stato
simbolo
della
rivoluzione
liberale.
Infondo
è
l’intero
concetto
di
progresso
e
civiltà
occidentali
che
andrebbero
messi
in
discussione,
alla
luce
dei
tragici
eventi
del
‘900.
Molto
spesso
si
indica
nella
Riforma
protestante
il
nucleo
di
quel
mondo
razionale
e
liberale
incarnato
dal
nord
Europa
e
dagli
USA,
spesso
messo
in
contrapposizione
con
il
sud
dell’Europa
e,
in
generale,
del
Mondo.
Ma
quale
razionalità
può
mostrarci
il
nazismo
che
pur
è
nato
nella
patria
della
Riforma?
Quale
libertà
è
quella
del
colonialismo
e
dell’imperialismo?
Senza
voler
esprimere
dei
giudizi
è
chiaro
che
ogni
concezione
generale
deve
essere
relativizzata
e
ogni
periodizzazione
storicizzata.
Quando
parliamo
della
nascita
del
mondo
moderno
dobbiamo
essere
consapevoli
che
si
tratta
di
un
punto
di
vista
unilaterale
e
non
generale,
un
punto
di
vista
che
presuppone
una
visione
povera
della
realtà
in
quanto
anche
per
l’Occidente
esso
non
è
stato
completamente
positivo.
Si
parla
dell’età
moderna
come
epoca
della
libertà
e
della
liberalizzazione,
come
rivoluzione
rispetto
al
passato.
Rivoluzione
scientifica
e
libertà
dal
bisogno
e
dalla
scarsità.
L’uomo
grazie
alle
scienze
riesce
a
liberarsi
dalla
penuria
e
dalla
trappola
malthusiana
che
fa
corrispondere,
necessariamente,
ad
ogni
aumento
demografico,
un
aumento
della
povertà
e
della
fame.
Rivoluzione
politica
che
libera
l’uomo
dall’autorità
nobiliare
ed
ecclesiastica.
Rivoluzione
intellettuale
che
libera
l’uomo
dall’autorità
della
tradizione
e
delle
sacre
scritture.
Tale
visone
progressista
e
ottimistica
non
è,
però,
l’unica
possibile.
L’età
moderna
può
essere
interpretata
non
solo
come
liberazione,
ma
anche
come
disciplinamento
della
realtà,
riduzione
degli
spazi
e
delle
libertà
personali.
Il
primo
a
darci
una
tal
visione
della
realtà
fu
Marx
il
quale
sottolineò
il
fatto
che
all’ascesa
economico-sociale
della
borghesia
corrispondeva
una
riduzione
della
libertà
per
le
classi
subalterne.
Il
nascente
lavoro
in
fabbrica
si
trasformava
in
sfruttamento,
e la
modernizzazione
economica
eliminava
spazi
di
libertà:
l’uomo
era
sempre
più
alienato,
estraneo
al
prodotto
del
suo
lavoro,
all’attività
produttiva,
al
genere
umano
e
agli
altri
uomini.
La
sua
creatività
è
scomparsa,
il
prodotto
del
suo
lavoro
non
appartiene
più
a
lui
e il
rapporto
con
gli
altri
uomini
si
riduce
ai
soli
aspetti
economici
e
monetari.
«L’operaio
diviene
tanto
più
povero
quanto
maggiore
è la
ricchezza
che
egli
produce
[...]
diventa
una
merce
tanto
più
vile
quanto
più
grande
la
quantità
di
merce
prodotta
[...]
l’operaio
viene
a
trovarsi
rispetto
all’oggetto
del
suo
lavoro
come
a un
oggetto
estraneo
[...]
l’alienazione
dell’operaio
nel
suo
prodotto
significa
non
solo
che
il
suo
lavoro
diventa
un
oggetto,
qualcosa
che
esiste
all’esterno,
ma
che
esso
esiste
fuori
di
lui,
indipendente
da
lui,
a
lui
estraneo,
e
diviene
di
fronte
a
lui
una
potenza
per
sé
stante;
significa
che
la
vita
che
egli
ha
dato
all’oggetto
gli
si
contrappone
ostile
ed
estranea».
Oltre
tale
classica
visione
dell’età
moderna,
è
nella
sociologia
e
nella
psicologia
che
abbiamo
visioni
simili.
Sigmund
Freud,
nella
sua
opera
Il
Disagio
della
civiltà
(1929)
legò
la
nascita
della
modernità
e
della
civiltà
alla
repressione
degli
istinti
sessuali
e
violenti.
In
questo
modo
la
civiltà
non
era
più
associata
alla
libertà,
ma
era
vero
il
contrario,
essa
era
il
simbolo
del
disciplinamento.
Tali
idee
furono
riprese
dal
sociologo
Norbert
Elias
nell’opera
Il
processo
di
civilizzazione
(1939)
in
cui
ci
parla
dell’età
moderna
come
l’epoca
in
cui
nasce
la
“costrizione
sociale
all’autocostrizione”,
in
cui
la
nascita
dell’ideale
borghese
di
vita,
seppur
innovativo
rispetto
al
passato,
sottopone
l’uomo
e la
donna
a
tutta
una
serie
di
regole
e di
etichette
che
ne
limitano
fortemente
la
libertà.
Elias
dimostra
come,
durante
tale
processo
di
“normalizzazione”
la
soglia
del
pudore
e la
soglia
di
ripugnanza
si
siano
innalzate
in
tutti
gli
aspetti
della
società,
dalla
sessualità
alle
buone
maniere
a
tavola.
Sicuramente
l’autore
che
più
profondamente
sottolinea
il
rapporto
tra
la
modernità
e il
disciplinamento
è
Michel
Foucault.
Egli
dimostra
come
alcuni
concetti
siano
stati
creati
appositamente
per
controllare
e
disciplinare
la
società,
per
esempio
il
concetto
di
follia
nel
‘700
o
quello
di
sessualità
nell’800.
Si
tratta
di
norme
create
affinché
ogni
deviazione
dalle
stesse
potesse
essere
bollata
come
anormalità
e
quindi
punita
o
corretta.
La
società
doveva
essere
omogenea.
Se
il
sapere
medico
ha
un
grande
ruolo
nel
creare
norme
di
vita
e
comportamento,
è
soprattutto
lo
stato
moderno
a
realizzare
gli
strumenti
del
disciplinamento.
Nell’opera
Sorvegliare
e
punire
(1975)
egli
dimostra
che
le
nuove
istituzioni
del
emergente
stato
moderno
(le
prigioni,
le
scuole,
le
caserme,
gli
ospedali)
sono
gli
“attrezzi”
attraverso
cui
la
società
viene
“normalizzata”.
La
prigione
istituzionalizzata,
per
esempio,
si
sostituisce
alle
precedenti
pene
spettacolari
eseguite
dinanzi
al
pubblico.
Essa,
quindi,
ha
il
compito
di
regolarizzare
le
condanne
e
non
di
spettacolarizzarle.
Lungi
dall’essere
l’eccezione
rispetto
alla
società,
la
prigione
diventa
il
modello
di
funzionamento
a
cui
la
società
stessa
deve
ispirarsi
e
conformarsi.
È
evidente,
quindi,
da
questi
pochi
esempi,
che
il
concetto
di
età
moderna
deve
essere
inserito
nel
contesto
culturale
in
cui
è
stato
creato.
Non
è
tanto
una
periodizzazione
oggettiva
ma
un
giudizio
di
valore
dal
punto
di
vista
della
cultura
occidentale
che,
nonostante
mantenga
sempre
il
suo
fascino
e la
sua
fondatezza,
deve
essere
relativizzato
e
quindi
compreso
per
quello
che
realmente
è.
Riferimenti
bibliografici:
H.
Peter
Burke,
La
storia
culturale,
Bologna,
Il
Mulino,
2009
Roberto
Bizzocchi,
Guida
allo
studio
della
storia
moderna,
Roma-Bari,
Laterza,
2007
