[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

183 / MARZO 2023 (CCXIV)


arte

L’AMERICA LATINA, UN CONTINENTE IN FERMENTO

DAI “CHICAGO BOYS” ALLE PROTESTE DEL 2019 - Parte II

di Serena Sonaglioni

 

Non ci sono altre macroregioni del globo in cui l’agenda neoliberale è stata implementata con la stessa forza devastatrice come in America Latina: questo accadde soprattutto perché in nessun altro luogo del mondo i movimenti di opposizione, nella particolare forma dei movimenti sociali, hanno avuto la stessa tenacia e resilienza.

 

L’idea di dover liberare le forze del mercato dai vincoli regolatori del welfare statale, con l’obiettivo di tenere lo stato fuori dal processo di sviluppo, si diffuse a partire dal Cile in maniera capillare negli anni ’70 del Novecento, dapprima nel cono meridionale e poi nella maggior parte del Continente: furono le sconfitte politico-militari della sinistra in Brasile, Uruguay, Cile, Argentina e Bolivia a lasciare spazio all’affermazione delle prime fasi dei programmi neoliberali.

 

Tuttavia, la svolta neoliberale si impose definitivamente quando il Messico e altre nazioni si dichiararono incapaci di far fronte al debito pubblico. In particolare, la fine del modello di sostituzione delle importazioni, a causa della crisi del debito estero del 1982, fu il passaggio definitivo verso un nuovo tipo di gestione economica: questa occasione diede infatti alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale la possibilità di incalzare per un intervento di Washington nelle economie dei Paesi latino-americani fortemente indebitati.

 

Questa recessione trasse origine dagli anni ‘70 quando Brasile, Argentina e Messico iniziarono a indebitarsi a causa, da una parte, dell’aumento esponenziale della spesa pubblica e, dall’altra, della disponibilità di prestiti provenienti da banche internazionali che, prima dello scoppio della bolla, sembrava infinita.

 

La decisione del Messico di interrompere i pagamenti del suo debito estero scatenò il panico tra le banche private, che rifiutarono le richieste sia di nuovi prestiti che di rinegoziare quelli vecchi trascinando le economie latinoamericane in una spirale discendente. Di fronte alla crisi della bilancia dei pagamenti, paese dopo paese iniziò a firmare accordi di stabilizzazione con il FMI, seguiti (dalla metà degli anni ‘80) dagli accordi di aggiustamento strutturale con la Banca Mondiale.

 

In questo clima di panico e di crisi trovarono, negli anni ‘90, terreno fertile le politiche del Washington Consensus che, tra le altre misure, includevano la liberalizzazione del commercio e un vasto programma di privatizzazioni.

 

Con Washington Consensus si faceva inizialmente riferimento a un insieme specifico di politiche di liberalizzazione del mercato, sostenute e sponsorizzate dal mondo politico e tecnocratico di Washington insieme con le Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI - in particolare, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale), agenzie economiche del governo degli Stati Uniti, il Consiglio USA della Federal Reserve e i think tank di Washington.

 

Tuttavia, con il tempo il significato è stato sempre più esteso e, a oggi, comprende una gamma notevolmente più ampia di politiche. Spesso il termine Washington Consensus viene anche utilizzato in maniera interscambiabile con neoliberismo, dal momento che a Washington ci fu un’adesione ideologica molto forte nei confronti del libero mercato, nella sua versione più fondamentalista.

 

Se ne parlò per la prima volta in un paper dell’economista John Williamson del 1989, che utilizzò l’espressione per riferirsi a un piano di 10 politiche che erano state pensate per risollevare i paesi in via di sviluppo – in particolare l’America Latina – e profondamente influenzate dalle istituzioni e dalla politica di Washington. Williamson riassunse queste politiche in tre principi: globalizzazione, economia di mercato, disciplina fiscale.

 

Secondo molti critici, queste misure non produssero i risultati ipotizzati e la gloria del Washington Consensus durò giusto la decade degli anni ‘90, per iniziare poi repentinamente a declinare quando la stagnazione economica, le ripetute crisi finanziarie (Messico 1994/95, Brasile 1999, Argentina 2001) e la crescente disuguaglianza diedero prova delle inadeguatezze di tali riforme economiche. Inoltre, sono state sollevate molte critiche sulla marginalità attribuita ai temi della povertà e della disuguaglianza, nonché sul fatto che non si sia ricorso a un intervento statale per aggiustare le imperfezioni del mercato. La letteratura critica nei confronti del Washington Consensus è molto ampia, così come quella riguardante i suoi sostenitori e, a oggi, il dibattito è ancora molto acceso.

 

Del primo gruppo fa parte anche Joeseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, che ne La globalizzazione e i suoi oppositori ha ampiamente analizzato le falle delle due grandi istituzioni che hanno sede a Washington: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, colpevoli, a suo dire, di aver imposto il neoliberismo come dogma mondiale e sotto la forma di una dottrina molto rigida: «Il FMI ha commesso errori in tutti i campi in cui ha operato: sviluppo, gestione delle crisi e transizione delle economie nazionali dal comunismo al capitalismo. Tali errori sono riconducibili per l’appunto al fondamentalismo di mercato, vale a dire a una rigida dottrina secondo la quale il mercato è dotato di poteri di autoregolazione, a patto che l’economia sia affidata ai privati, il commercio non trovi ostacoli protezionistici e i capitali siano lasciati liberi di operare scelte d’investimento sulla base della logica loro propria, che è il profitto».

 

Il continente oggi: proteste e disuguaglianze

 

Considerando i dati del report Realities and Perspectives - Social Pulse in Latin America and the Caribbean 2016 pubblicato dall’Inter-American Development Bank, si può affermare che l’America Latina, più che avere problemi con la povertà, li ha con la disuguaglianza. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito a un’espansione della classe media (gruppo sociale che vive con un reddito compreso tra US 12.4 e 62 $/day) che, in termini assoluti, è stata la parte della popolazione ad aver sperimentato il più grande cambiamento tra il 2002 e il 2014; allo stesso tempo, il numero delle persone povere (ossia che vivono con un reddito inferiore a US 5$/day; mentre i vulnerabili sono quelli il cui reddito è tra i US 4 e 12.4 $/day e che quindi sono a rischio povertà) è diminuito di almeno un terzo, scendendo di 67 milioni e il numero delle persone vulnerabili ha registrato lo stesso trend perdendo almeno 57 milioni di individui.

 

Nel report si sottolinea come la crescita economica avvenuta tra il 2002 e il 2014 abbia prodotto incrementi di reddito in tutti i gruppi i sociali, ma non in modo uniforme: infatti, per ogni punto percentuale di crescita del GDP per capita, il tasso di povertà è stato ridotto dello 0.86%, ma la classe media è aumentata dello 0.88%. Si osserva anche che i cambiamenti nei segmenti dei redditi sono stati più pronunciati tra il 2002 e il 2008 piuttosto che tra il 2008 e il 2014.

 

Generalmente tra il 2002 e il 2014, la maggioranza di Paesi ha mostrato miglioramenti nella riduzione del tasso di povertà e nell’espansione della classe media, anche se con risultati eterogenei. Nello specifico, in nove Paesi la povertà è stata ridotta più della metà e, in sei di questi (Argentina, Bolivia, Ecuador, Paraguay, Peru e Venezuela), l’ampiezza della classa media è raddoppiata. In altri Paesi, invece, come il Guatemala ed El Salvador, i progressi sono stati minimi o addirittura inesistenti.


I dati mostrano tre tipi di performance diversi durante questi due periodi:


- Paesi come Argentina, Costa Rica e Venezuela hanno raggiunto risultati significativi tra il 2002 e il 2008, ma poi questi risultati hanno subito un importante declino;
- Paesi con risultati relativamente bassi o nulli durante i due periodi (Repubblica Dominicana, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua ed El Salvador);
- Paesi che hanno sperimentato progressi significativi durante tutto l’arco temporale considerato (Brasile, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Panama, Paraguay, Perù e Uruguay).
 

Per quanto riguarda la distribuzione del reddito, si può affermare che anche l’ineguaglianza sia diminuita significativamente, ma ciononostante l’America Latina rimane uno dei continenti più diseguali del mondo. Considerando come indicatore il Coefficiente di Gini, si vede che è rimasto stazionario nella regione tra il 1996 e il 2002, anno in cui ha iniziato a declinare – fino al 2008 – di 4 punti e di 2.7 tra il 2008 e il 2014. Tra il 1996 e il 2002, l’indice di Gini è diminuito in Brasile, Messico ed El Salvador.

 

Tra il 2002 e il 2008, invece si è manifestata una riduzione della disuguaglianza in tutto il Paese, con la sola eccezione del Messico che è rimasto stabile. In Argentina, Bolivia, Ecuador, Perù e Nicaragua l’indice di Gini si è ridotto addirittura di più di 10 punti e in nove Paesi è comunque arrivato oltre ai 5. Durante questo periodo, sono stati registrati decrementi anche minimi, soprattutto in Costa Rica, Colombia e nella Repubblica Dominicana. Dal 2008 al 2014, l’ineguaglianza ha continuato a declinare in tutti i Paesi a eccezione del Venezuela e della Costa Rica.

 

Alcuni studi hanno cercato di spiegare la caduta dell’Indice di Gini in America Latina e nei Caraibi. In particolare, Azevedo et. al in Decomposing the Recent Inequality Decline in Latin America,per esempio, mostra che il declino in 14 Paesi tra il 2000 e il 2010 è avvenuto fondamentalmente a causa di tre fattori:

- un incremento degli stipendi tra i lavoratori più poveri che è stato maggiore rispetto all’aumento di altri salariati;

- trasferimenti alle famiglie (21% provenienti da programmi sociali e 9% dalle pensioni);

- cambiamenti demografici (maggiore presenza nella composizione famigliare di persone in età lavorativa piuttosto che di bambini).

 

Un altro studio – The Rise and Fall of Income Inequality in Latin America – ha invece attribuito i cambiamenti nelle disuguaglianze, tra il 1992 e il 2006, all’aumento nella media di adulti scolarizzati.

 

Nonostante questi progressi indubbiamente significativi, il problema dell’elevato tasso di disuguaglianza nella regione persevera, essendo questo uno dei più elevati al mondo: l’Indice di Gini complessivo supera di 4 punti percentuali quello dell’Africa, di 16 quello dell’Europa e dell’Asia Centrale e, infine, quello della Cina di più di 11.

 

Nel grafico, sono stati sintetizzati alcuni indici di Gini dell’America Latina e dei Caraibi,

tenendo come parametri di riferimento l’indice di Gini più basso

e quello più alto al mondo.

 
I dati sono stati inseriti in maniera progressiva, partendo dai Paesi che hanno l’indice di Gini più vicino a quello più basso del mondo (la Slovenia) per finire con quelli che più si avvicinano all’indice più alto del mondo, quello del Sud Africa. Il dato più lontano nel tempo è quello del Venezuela che risale al 2006; Nicaragua, Guatemala e Honduras risalgono, invece, al 2014; Cile, Slovenia, Italia sono del 2017. Ecuador, Messico, Nicaragua, Paraguay, Venezuela, Costa Rica, Guatemala – 2018; El Salvador, Uruguay, Argentina, Bolivia, Perù, RepubblicaDominicana, Panama, Colombia (2019). Personale rielaborazione di dati della Banca Mondiale a cura dell’autrice.
 
Tra la fine di settembre 2019 e l’inizio di ottobre, un’ondata di proteste ha iniziato a distendersi a macchia d’olio in quasi tutto il continente, partendo dalle strade dell’Ecuador. La rivolta è sfociata in una repressione violenta che ha causato 13 morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti; nelle stesse settimane, le insurrezioni si sono propagate anche a Haiti, dove la popolazione ha manifestato un asprissimo dissenso contro le politiche del Fondo Monetario Internazionale e la conseguente austerità, approvate dal Presidente Jovenel Moïse: un tasso di disoccupazione maggiore del 50%, una corruzione dilagante, un continuo impoverimento delle risorse comuni, l’eliminazione dei sussidi all’energia per pagare il debito pubblico hanno portato la popo
lazione a insorgere. Il governo ha risposto con un’azione repressiva che ha causato 42 morti.

 

A ottobre è stata la volta del Cile, in cui l’aumento del prezzo del biglietto nelle ore di punta della metro di Santiago ha fatto esplodere la ferocia della popolazione che arranca sempre di più a causa di un costo della vita pressoché proibitivo per la maggior parte di essa: “non sono 30 pesos, sono 30 anni”, recitava uno striscione diventato il simbolo delle proteste.

 

I militari sono tornati a occupare le strade; i carabinero sa sparare sulla folla: repressioni, torture e coprifuoco hanno fatto, di nuovo, da padrone. Questa situazione ha dimostrato quanto l’ombra della dittatura militare sia stata ingombrante fino a pochissimo tempo fa su questa parte di mondo, considerata il “paradiso del neoliberismo”, e quanto la transizione democratica sia, in realtà, ancora un progetto in divenire.

 

Il risultato più importante scaturito dalle rivolte di ottobre 2019 è stato l’approvazione di un referendum costituzionale in cui il popolo è stato chiamato a rispondere alla domanda: «Quiereusted una Nueva Constitución?». Il referendum, dopo alcuni rinvii causati dall’emergenza da Covid-19, si è tenuto il 25 ottobre 2020.

 

Il risultato non ha lasciato spazio a disquisizioni politiche di nessun tipo: passato alla storia come “il plebiscito nazionale”, il 78,2% dei votanti si è espresso in favore del sì, decidendo dunque di tagliare definitivamente una delle pagine di più tristi della storia del Paese.

 

Le elezioni boliviane e il golpe nei confronti di Evo Morales hanno aperto, a novembre 2019, un’altra voragine nella politica del continente che sembra essere tornato indietro nel tempo tra repressioni, ingerenza statunitense e colpi di stato.

 

Tra le nazioni insorte non è mancata la Colombia, scossa il 21 novembre 2019 da grandi mobilitazioni di massa, in cui la scintilla è stata accesa dalle privatizzazioni delle imprese pubbliche e dalla persecuzione, mai davvero terminata, degli indigeni e degli ex guerriglieri delle FARC, nonostante la firma degli accordi di pace.

 

In Argentina, a differenza dei precedenti esempi, la rivolta si è concretizzata attraverso le elezioni con la vittoria del peronista Fernandez sulle discutibili politiche economiche di Mauricio Macri.

 

Altre crisi hanno investito anche la Costa Rica, il Messico e il Perù. Può essere individuato un comune denominatore che lega quest’ondata di rivolte nella frustrazione per le disuguaglianze e la rabbia per un modello economico iniquo. In particolare, è emersa la disillusione per i governi nati nei primi anni del nuovo secolo e generati da potenti movimenti di massa: mentre infatti nella propaganda si definivano progressisti o post neoliberali, si sono rivelati, nella pratica, dei cambiamenti meramente formali, ma non sostanziali.

 

Prima che le misure ristrettive connesse alla situazone pandemica da Covid-19 fermassero gran parte del mondo, l’America Latina era un continente in fermento da molto tempo, in cui si sono succedute proteste, colpi di Stato, violenze e crisi cicliche, sia politiche che economiche. Questo clima in ebollizione si è dovuto arrestare a marzo 2020, quando il dilagarsi del virus e le misure di contenimento hanno raggiunto anche il continente sudamericano che, come altre parti del mondo, è ricorso a chiusure più o meno totali.

 

Il virus ha inasprito la crisi politica e ha sottolineato ancor più l’inadeguatezza di un sistema privato esteso nella maggior parte della regione e in quasi tutti i settori: dalla sanità all’istruzione, dalle pensioni alle risorse naturali.

 

Uno dei dati più spaventosi riguardante il Covid-19 in America Latina riguarda soprattutto la provenienza sociale dei deceduti: il tasso di letalità del virus (morti/positivi) è stato significativo soprattutto per le fasce più povere della popolazione che non hanno accesso alla sanità e che vivono in condizioni estremamente precarie.

 

L’incapacità del gigante del continente, il Brasile, di gestire la crisi in modo opportuno – a causa di molteplici fattori come l’inadeguatezza dell’ex Presidente Bolsonaro, la vastità della Nazione, l’altissima densità demograficae la presenza di conglomerati urbani, grandi metropoli e favelas dove la gente vive in un costante assembramento – è stato posto sotto accusa a livello mondiale.

 

Sono consistenti le evidenze per poter ragionevolmente pronosticare un futuro dominato ancora dalle grandi proteste di strada: la crisi sanitaria ha, infatti, accentuato ancor più le disuguaglianze di un modello economico che ha inginocchiato e infiammato un Continente intero.

 

Sulla partita dell’uguaglianza si giocherà il futuro dell’America Latina.

 

 

Rifermenti bibliografici:

 

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