[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

182 / FEBBRAIO 2023 (CCXIII)


contemporanea

AMERICA LATINA, UN CONTINENTE IN FERMENTO
DAL NEOLIBERISMO AL COVID / I

di Serena Sonaglioni

 

Per neoliberismo si intende il modello economico, sperimentato su vasta scala, per la prima volta in Cile con la dittatura militare di Pinochet e che attualmente domina il mondo globalizzato. Un sistema per molti intellettuali ed economisti dedito tanto alla crescita del PIL, quanto alla creazione di disuguaglianze sociali, alle privatizzazioni, alla libertà dei mercati e alla depredazione delle risorse naturali.

 

L’immagine che abbiamo oggi dell’America Latina, nella quale fu implementato “il più grande laboratorio neoliberista” in Cile, è quella di un Continente indebolito dal tasso di disuguaglianza più alto del mondo e che – con le rivolte – ha cercato di sanare queste ferite. Da settembre-ottobre 2019, infatti, le piazze di Ecuador, Venezuela, Cile, Argentina, Haiti, Colombia e altre Nazioni hanno iniziato a ribellarsi contro una gestione della politica che, dagli anni ‘60/‘70, viene pensata e imposta a colpi di golpe dal vicino gigante nordamericano.

 

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha resa ancora più manifesta l’inadeguatezza di un sistema che ha privatizzato qualsiasi settore dell’economia, portando a una crescita d’élite e a un peggioramento delle condizioni di vita delle fasce più svantaggiate.

 
Sebbene il numero dei detrattori del neoliberismo sia cospicuo, resta aperto un problema, che ha le dimensioni di una voragine: quando il dibattito si sposta sulla questione «Quale sistema per il futuro?», riaffiorano prepotentemente le parole di Keynes: «Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi».

 

Finché la politica e l’economia non riusciranno a uscire da quest’impasse e a pensare a una vera transizione verso un modello più giusto, egualitario e virtuoso (caratteristiche che non possono prescindere dalla sostenibilità ambientale che, nello scenario attuale, sembra essere più una chimera che un obiettivo) è probabile che il panorama a cui assisteremo sarà quello della stagnazione in una situazione di crisi di gramsciana memoria: «La crisi politica è il momento in cui il nuovo non finisce di consolidarsi e il vecchio non finisce di morire: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».

 

Il neoliberismo in America Latina: Milton Friedman e i Chicago Boys

 

Nel 1956 venne firmato un accordo finanziario tra l’Università Americana e l’Università Cattolica del Cile, accordo che sarebbe durato per otto anni, fino al 1964. Nello stesso anno, gli Stati Uniti investirono nei due Paesi considerati prioritari (Cile e Guatemala) più di 7 milioni di dollari per frenare l’avanzata del comunismo nell’America del Sud e della sua influenza in quest’area.

 

L’espressione “Chicago Boys” fa riferimento a un gruppo di economisti cileni, formati all’Università di Chicago nei primi anni ’70 del Novecento, oppositori di Salvador Allende e consulenti economici del regime dittatoriale di Pinochet, che rispondevano alle misure contenute nel piano conosciuto come El Ladrillo (il mattone), divenuto poi il programma economico della dittatura; ossia: privatizzare le industrie pubbliche, smantellare lo stato sociale (favorendo la nascita di un sistema pensionistico e sanitario privato), attrarre capitale straniero, eliminare le barriere doganali e frenare l’inflazione.

 

In quegli anni, l’economista Milton Friedman era il maggior esponente della scuola economica dell’Università di Chicago. Monetarista e neoliberale, venne insignito del premio Nobel nel 1976. Sebbene negò sempre un suo coinvolgimento diretto con il regime dittatoriale di Pinochet, non evitò di esternare una certa soddisfazione per i risultati economici raggiunti in quel periodo.

 

In particolare, in un suo intervento del 1991 dichiarò di non essere mai stato un consigliere né un sostenitore di Pinochet, ma sottolineò anche l’impossibilità di poter negare che «Il Cile sia stato un caso in cui un regime militare, capeggiato da Pinochet, era disposto a cambiare l’organizzazione dell’economia da una performance discendente a una ascendente. […] Il vero miracolo in Cile non è stato il funzionamento delle riforme, sebbene il Cile, a oggi, sia – con buona probabilità – la storia di maggior successo dell’America Latina, piuttosto il fatto che una giunta militare permise di farlo. Ho visitato il Cile, ho conosciuto il signor Pinochet, ma non ho mai ricevuto soldi dalla giunta militare. Tuttavia, dirò che lì vi è stato un processo che ha condotto a elezioni democratiche e che ha posto fine alla dittatura militare: sicuramente non potete citare nessun altro caso simile in un Paese socialista. Quindi, pur non essendo mai stato un consulente del governo cileno, sono più che disposto a condividere il successo del lavoro fatto dai nostri studenti laggiù».

 

Pinochet arrivò ai vertici del potere politico l’11 settembre 1973, a seguito di un colpo di stato le cui trame vennero tessute dalle élite economiche nazionali che si sentivano minacciate dalle politiche socialiste promosse da Salvador Allende, assieme a Henry Kissinger (consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato degli Stati Uniti), Richard Nixon (Presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 1969 al 9 agosto 1974) e Richard Helms (Direttore della CIA) per assicurarsi che il Cile, con Allende, “non diventasse una fogna”.

 

Tali affermazioni sono supportate da una serie di documenti declassificati e pubblicati – nel giorno del cinquantesimo anniversario dell’insediamento di Salvador Allende – dalla National Security Archive che ricostruiscono le trame della politica di destabilizzazione attuata in Cile e che avrebbe dovuto creare le migliori condizioni possibili per il golpe dell’11 settembre.

 

La figura di Allende preoccupava – e non poco – gli Stati Uniti, in quanto, nel pieno della Guerra Fredda, dovettero assistere al primo Presidente marxista democraticamente eletto della storia dell’umanità. L’obiettivo era scongiurare il cosiddetto effetto domino, ancor più alla luce del fatto che in Italia e in Francia si stavano affermando i due grandi Partiti Comunisti d’Europa Occidentale. Allende era il simbolo del fatto che la costruzione del socialismo poteva avvenire anche a prescindere dalla rivoluzione armata: per gli Stati Uniti, questo era un messaggio da arginare nel minor tempo possibile.

 

Nella letteratura internazionale, è molto diffusa l’idea che l’implementazione delle politiche neoliberiste in Cile fu un vero e proprio esperimento: infatti, l’esecuzione pratica del neoliberismo economico ebbe inizio proprio da lì, precedendo addirittura il caso inglese di Margaret Thatcher e quello americano di Ronald Reagan.

 

Allende arrivò al potere il 3 settembre del 1970 con il 36,2% delle preferenze e, fin da subito, accelerò il processo per la costruzione di una realtà socialista; gli Stati Uniti, dal canto loro, misero in campo una strategia di destabilizzazione promossa a colpi di embargo, scioperi pilotati e manipolazioni dei prezzi del rame (risorsa strategica del Cile, le cui miniere vennero nazionalizzate subito dopo l’elezione di Allende): nello scenario di un’economia completamente distrutta, con un 1000% di inflazione e con una forte carenza di alimenti, fu realizzato il colpo di Stato.

 

E con esso si avviò la trasformazione economica basata sulle idee di Friedman e Von Hayek: si aprì alla libertà dei mercati, l’inflazione fu dominata, si implementarono misure per la protezione della proprietà privata, si diede il via a un vastissimo programma di privatizzazioni e alla riforma del sistema pensionistico, così da ottenere un sensibile incremento nel breve termine sia del PILche del PIL pro capite. Per i neoliberisti, infatti, dall’aumento del PIL dipendono sia l’aumento del benessere degli individui che l’incremento di ricchezza. L’idea di base è che i benefici derivanti da un PIL elevato si diffondano su tutta la popolazione, creando un maggior benessere per tutti.

 

L’esperienza dell’America Latina racconta, però, un’altra storia: i settori sociali più vulnerabili, infatti, sono stati esclusi dalla crescita economica e, mentre alcuni gruppi sociali vivono in modo occidentale, vi sono vastissime aree in cui dilaga la povertà. Il 40% della popolazione del continente si considera povera e quasi il 20% estremamente povera. Inoltre, le società latino-americane si contraddistinguono per una distribuzione del reddito estremamente polarizzata.

 

Bisogna inoltre considerare un altro fattore: i benefici della crescita non furono appannaggio di tutta la popolazione. Infatti, l’indice di Gini (indicatore che dà una misura della concentrazione della ricchezza in un determinato Paese e compreso tra zero e uno: 0 indica massima uguaglianza, mentre 1 massima disuguaglianza) – sulla base dei dati della Banca Mondiale –  nel Cile del 1987 era pari a 56,2. Infine, il grado di libertà del mercato era inversamente proporzionale alla libertà degli individui, al rispetto dei diritti umani e a qualsiasi forma di dissenso nei confronti del regime.

 

Il grafico sintetizza la crescita percentuale del PIL dal 1976 al 1989. In questi anni,

la variabile considerata è cresciuta del 3,83% medio annuo. Con la sola eccezione degli anni 1982 e 1983,

la crescita è stata tendenzialmente costante. A oggi, il Cile è l’unico Paese dell’America Latina

a far parte dell’OCSE e quello che registra il PIL pro capite più alto del continente.

Rielaborazione di dati (<data.worldbank.org>) a cura dell’autrice.

 

Il Cile del neoliberismo rimane, ancora oggi, il Cile delle grandi disuguaglianze: considerando di nuovo i dati della Banca Mondiale e l’indice di Gini, nel 2014-2015, il Cile era la nazione dell’America Latina a poter vantare del valore, riferito a questa variabile, più alto. Ed è proprio nell’asprezza di queste disuguaglianze, del costo della vita pressoché proibitivo per la maggior parte della popolazione e nello smantellamento dei servizi pubblici (misura figlia di quelle politiche neoliberiste) che va ricercato il cardine delle proteste di ottobre 2019.

 

Tuttavia, a oggi, il Paese è impegnato in un consistente cambiamento di rotta: nelle scorse elezioni del 2021, è stato, infatti, eletto il nuovo presidente Gabriel Boric, leader della coalizione Apruebodignidad, che ha battuto l’avversario filo-pinochettista con una maggioranza del 55,8%.

 

Nel nuovo programma, uno degli obiettivi più ambiziosi risulta essere proprio la lotta alle disuguaglianze. Dopo 32 anni dalla fine dell’impietoso regime, l’ombra di Pinochet sembra ormai destinata a svanire.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]