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N. 106 - Ottobre 2016 (CXXXVII)

lalluvione di Firenze

i suoi effetti nel campo del restauro
di Maria Laura Corradetti

 

Si stima che dalle prime ore del mattino del 4 novembre 1966 ben 685 milioni di metri cubi di acqua si riversarono su Firenze, coprendo un’area di tremila ettari. E purtroppo le acque erano cariche di fango, scarichi fognari, detriti vari e nafta proveniente dai serbatoi degli impianti di riscaldamento.

 

«Ora, il danno più violentemente inferto dall’alluvione non è stato in realtà la distruzione, per quanto dolorosa e irrimediabile, di alcune singole opere d’arte d’importanza grandissima (tutti pensiamo al Crocifisso di Cimabue). Ma l’interruzione proditoria, estesa in ogni direzione, che non ha risparmiato alcuna zona felice, della rete di relazioni costruitesi dal bene culturale sul territorio nel corso della sua storia. I sistemi bibliotecari, le opere d’arte mobili, soprattutto, hanno ricevuto colpi difficilmente rimediabili, perché il guasto è avvenuto sottilmente, casualmente, a diversi livelli non prevedibili» (G. Bonsanti, Per una politica del restauro a Firenze, in La città degli Uffizi, catalogo, Firenze, 1982, p. 215).

 

Un’opera d’arte, dunque, non si esaurisce in se stessa, ma si integra con un complesso di informazioni e documenti che la legano indissolubilmente al proprio ambiente di appartenenza, come parte della trama di un tessuto storico culturale unico e indivisibile.

 

In sostanza si afferma quanto era stato elaborato concettualmente nel corso dei secoli contro la dispersione del patrimonio italiano con premesse e motivazioni certo diverse, ma che hanno prodotto ad oggi argomentazioni che vertono sempre sul principio di salvaguardia delle manifestazioni artistiche preservandone l’integrità intellettuale sia in termini conservativi, sia attraverso la loro permanenza nel contesto d’origine.

 

Non a caso, salvo poche eccezioni, ci fu la ferma volontà di trattenere le opere a Firenze. La febbrile attività motivata innanzitutto da ragioni conservative (al fine di garantirne una uniformità di intervento e per impedire che durante il loro trasporto si potessero ulteriormente danneggiare) incontrava, però, anche il desiderio di riaprire quanto prima i musei e di essere di stimolo psicologico per la ripresa della città.

 

Lo scenario che si palesava agli occhi dei soccorritori era terrificante. Superata l’emergenza dell’inondazione, ci si accorse di quanto esteso e profondo fosse stato il colpo inflitto al patrimonio fiorentino. In primis vi fu l’urgenza di recuperare gli oggetti e di prestare un primo intervento, attraverso metodiche ovviamente diversificate in base alle varie peculiarità materiche. Anzi, i danni inferti indiscriminatamente a ogni tipo di manufatto, di necessità fecero tramontare quel classismo tra le arti formatosi nel Cinquecento e sopravvissuto, almeno in Italia, sino al Novecento.

L’impegno profuso fu straordinario alla luce delle difficoltà tecniche e delle problematiche del tutto nuove, prima fra tutte la rimozione degli strati di nafta e fango da tutte le opere.

 

Sotto il profilo economico molto si deve ai finanziamenti pervenuti al Ministero della Pubblica Istruzione e alla Soprintendenza alle Gallerie di Firenze, oppure tramite l’U.N.E.S.C.O o associazioni quali il C.R.I.A, il Comitato per il Fondo Internazionale di Firenze, il Soroptimist Club Italiano, l’Associazione Edili Francesi, l’Istituto Archeologico Germanico, gli impiegati dell’acquedotto vesuviano, le Ambasciate e i Comitati nazionali e internazionali, le varie fondazioni, il Corriere della Sera, la Banca Commerciale, il Monte dei Paschi e molti altri, anche privati cittadini. Per non contare quanti offrirono gratuitamente materiali e apparecchiature o direttamente il loro aiuto, anche se specificatamente nel restauro inevitabilmente la scelta ricadeva su figure di comprovata esperienza.

 

In ogni caso, paradossalmente, l’alluvione si rivelò essere l’occasione senza la quale mai si sarebbe verificata una siffatta comunione di intenti, una tale sinergia operativa da provocare in Italia una forte accelerazione nel campo della ricerca, della sperimentazione, come pure della specializzazione intesa come progettazione di interventi commisurati alle problematiche da risolvere e in rapporto alla classificazione per tipologie artistiche.

 

Con la cooperazione internazionale non si potevano che affinare e migliorare le tecniche operative. Umberto Baldini, al tempo direttore del gabinetto di restauro della Soprintendenza alle Gallerie, ebbe a dire: «Nei nostri laboratori di restauro sono stati e sono presenti restauratori venuti da tutti i paesi del mondo: americani, russi, tedeschi, inglesi, norvegesi, danesi, svedesi, finlandesi, francesi jugoslavi, ungheresi, austriaci, romeni, greci, polacchi, cecoslovacchi, svizzeri, australiani. Hanno affiancato il nostro operare e hanno portato l’attività quotidiana di lavoro a un grado elevatissimo, con il risultato che assai più velocemente del tempo previsto si sono raggiunte e si stanno raggiungendo quelle posizioni di sicurezza che ci danno la possibilità di guardare al futuro con una certa fiducia e tranquillità» (U. Baldini, Dipinti e sculture, in Firenze salvata, Torino, 1970, p. 174).

 

Il primo intento fu quello di arginare i processi di degrado innescati dal fango, nafta e olio combustibile capaci di depositarsi per assorbimento anche su vaste superfici verticali, nonché dall’acqua nella sua azione meccanica (connessa alla sua velocità e pressione), nelle sue proprietà veicolari per le sostanze nocive e nella sua capacità di penetrazione con effetti solventi.

 

In primis il soccorso consistette nel ricovero delle opere d’arte per arginare e tenere sotto controllo i traumi che nel breve tempo le stesse avrebbero manifestato e sofferto. Infatti prima che si potesse avviare un’asciugatura graduale e controllata, gli oggetti sostarono temporaneamente nello stesso luogo nel quale furono raggiunti dall’inondazione per garantire loro costanti valori termo-igrometrici che assicurassero uno stazionario stato conservativo. Al contempo, per evitare perdite dell’elemento decorativo (il film pittorico dei dipinti adagiati in via cautelare in posizione orizzontale o gli intarsi di suppellettili, la doratura di cornici, ecc.), si provvide a rivestire le superfici con carta giapponese (cioè carta di riso, ma per la penuria di scorte anche con kleenex) applicata con una resina acrilica, un nuovo ritrovato in uso all’estero importato dal Laboratorio di restauro dei mobili della Soprintendenza di Bologna, commercialmente nota come Paraloid B72, l’unica compatibile con l’elevata umidità.

 

Per la precisione, già questa fase si articolò in varie soluzioni più o meno provvisorie dettate sia da oggettivi impedimenti connessi allo sfacelo in cui si trovava la città, sia da esigenze conservative. Paolo Dal Poggetto, allora giovane ispettore impegnato nel trasferimento delle opere e nella loro distribuzione logistica, ricorda: «In quei primissimi giorni […] c’incontravamo spesso (funzionari, studenti, restauratori, studiosi) sulla soglia di una chiesa o a tentare l’attraversamento della sala di un museo, in un chiostro o davanti a un tabernacolo: ognuno con gli occhi stravolti dallo spettacolo indicibile di capolavori distrutti, di panche accatastate, di quadri senza più volto, di cornici spezzate.

 

Naturalmente sul principio non era neppur pensabile di poter trasportare via le opere d’arte: tutto ciò che si poteva fare era di toglierle dalla mota e sdraiarle su letti improvvisati, soprattutto su altari e su spalliere di panche. Ci organizzammo in squadre, recuperando nel fango le tavole le tele e le sculture, le mettemmo distese. Altre squadre passavano subito dopo a mettere le veline, perché il colore superstite potesse salvarsi e perché fosse possibile trasportarle al primo deposito provvisorio – quello degli Uffizi – non appena le strade fossero state transitabili dai camions. I primi trasferimenti di opere d’arte per le vie di Firenze furono fatti a braccia: piccole tavole e piccole tele portate a barella» (P. Dal Poggetto, Trasferimento delle opere d’arte, in «Antichità Viva: rassegna d’arte», anno V, n° 6, Firenze, 1966, p. 56).

 

Come detto, per ciascuna tipologia artistica si dovette approntare un piano di intervento che fronteggiasse sia i disagi operativi rappresentati dal numero consistente di opere danneggiate, sia le problematiche conservative manifestatesi con una virulenza mai vista.

 

Sicuramente la disponibilità a recepire le novità e i contributi italiani e stranieri in campo tecnico-scientifico non dipesero unicamente dalla fortuita situazione di estrema emergenza, ma incontrarono una predisposizione locale incarnata dalla personalità e professionalità del soprintendente Ugo Procacci, strenuo sostenitore del valore conoscitivo di un’opera d’arte anche mediante l’analisi delle sue caratteristiche tecniche e materiche, rilevandone l’alto potenziale dirimente.

 

Votato in tutta la sua carriera alla tutela del patrimonio artistico, spinse per una regolamentazione dei restauri elevando gli interventi da mera pratica artigianale a iter operativi calibrati sulla scorta di una conoscenza scientifica e storico-artistica, in una totale compenetrazione tra scienza e arte.

 

Convinto assertore di questo paradigma, ebbe modo, suo malgrado, di dimostrarne la validità proprio con l’alluvione, per la capacità di combinare tradizione e innovazione quando, alla luce delle conoscenze tecniche e scientifiche, non erano praticabili altre soluzioni. In una lettera, datata 8 febbraio 1968, indirizzata alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione precisa: «[…] per il restauro delle opere colpite dall’alluvione occorre effettuare delle ricerche preliminari mediante l’uso di materiali, per i quali è impossibile prevedere sia la qualità che la quantità e la spesa, poiché gli interventi ritenuti inizialmente possibili debbono essere tralasciati, attesa la loro inefficacia operativa, e occorre, quindi, proprio in base a nuove ipotesi ed esperimenti far ricorso ad altri procedimenti, dopo pazienti e lunghe prove per accertare i migliori e più sicuri sistemi da adottare per porre riparo ai danni subiti dalle cose (imbibimenti di nafta, muffa, funghi, spore, ripatinature, eliminazione dell’umidità, analisi dei supporti lignei, delle imprimiture, delle tele, ossidazione delle vernici)» (Archivio Storico P.M.F.: Filza 1968 Affari Generali Gennaio).

 

In sostanza il criterio secondo il quale scegliere una procedura anziché un’altra derivava proprio dalla consapevolezza di doversi svincolare da pratiche artigianali ormai consolidate nel tempo, ma prive di qualsiasi riscontro scientifico sulla loro bontà qualitativa.

 

Il sodalizio tra scienza e restauro era indispensabile e, ormai, i tempi erano maturi per una consacrazione culturale della disciplina del restauro. Baldini: «È tempo ormai, insomma, che il “restauro” con tutto quello che porta con sé sul piano storico ed estetico venga considerato una branca, una professione ad alto livello operativo, specialistica in ogni senso, al punto di doversi da essa pretendere, uniformandone le strutture, tutte quelle garanzie che in altri settori si richiedono Va bandito il sottobosco del restauro, va formata una coscienza di lavoro con una coscienza di responsabilità ad ogni livello» (U. Baldini - P. Dal Poggetto, Firenze restaura: il laboratorio nel suo quarantennio, catalogo, Firenze, 1972, p. 10).

 

È il restauro come atto critico che deve poggiare su un’analisi preliminare esaustiva che si avvalga del contributo sia scientifico che umanistico. Perciò non si sanciva l’hic et nunc di un restauro, ma se ne poteva procrastinare l’inizio quando mancavano i presupposti per una sua corretta conduzione, provvedendo però a una stabilizzazione conservativa dei manufatti, tant’è che il recupero, per esempio, di alcuni dipinti ha richiesto tempi misurabili in anni.

 

L’attenzione rivolta alle procedure da adottare investiva non solo l’aspetto meramente tecnico, ma anche l’aspetto teorico, di indirizzo per tutti gli interventi: «È la prima volta che l’umanità si trova di fronte a una rovina così estesa e molteplice, da quando il restauro di un’opera d’arte non è più inteso come rifacimento, ma come conservazione e valorizzazione delle parti originali che in quell’opera ancora esistono. Ora, di ridipinture e rifacimenti i restauratori non hanno più la facoltà di far uso» (P. Rotondi, Conservazione e restauro di sculture e dipinti, in Dopo il diluvio, Firenze, 1967, p. 68).

 

D’altronde, nel 1963 era stato pubblicato il libro Teoria del restauro: lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani che raccoglieva in un unico testo il pensiero di Cesare Brandi, di fatto pietra miliare nella storia del restauro, che sanciva il principio del rispetto materico dell’opera d’arte e le regole per non incorrere con il restauro in un falso storico e artistico.

 

Complessivamente si può dire che nella tragedia dell’alluvione fiorentina la pratica del restauro progredì per una concomitanza di fattori:

- tramite una collaborazione internazionale si favorì una condivisione di pratiche d’intervento,

- grazie a una collaborazione interdisciplinare si risolse l’atavica dicotomia tra filone umanistico e quello scientifico,

- grazie a una specializzazione d’intervento, intesa non solo come una progettazione operativa commisurata alle problematiche da risolvere, ma anche come specializzazione tecnica rispetto alle varie tipologie artistiche, le cosiddette “arti minori” entrarono finalmente di diritto nel novero delle manifestazioni artistiche da tutelare attraverso tutti gli accorgimenti possibili.



 

 

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