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> Diritti umani e civili

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N. 14 - Luglio 2006

ALEKSANDR SOLZENICYN

La letteratura del Gulag

di Stefano De Luca

Aleksandr Isaevic Solženicyn è lo scrittore russo più importante del XX secolo. Per combattere un regime totalitario che sembrava invincibile non imbracciò un fucile, ma si servì della parola. Con essa, riuscì rompere il muro del silenzio e dell’omertà che avvolgeva una delle realtà più crudeli del sistema sovietico: il Gulag.

Nacque nel 1918 a Kislovodsk, nel Caucaso. Il padre morì che era ancora un bambino, e si stabilì a Rostov-sul-Don con la madre. Qui si dedicò allo studio della matematica e della fisica, diventando infine professore alla scuola secondaria. Dopo l’attacco tedesco del 1941 si arruolò nell’esercito, non prima di aver sposato una compagna universitaria, Natalija Rešetovskaja. Nel luglio del 1945, il capitano Solženicyn venne arrestato per aver criticato Stalin in una lettera spedita ad un amico. Condotto alla Lubjanka, venne giudicato da un tribunale speciale dell’NKVD, e condannato a otto anni di lavoro correzionale. Il verdetto venne pronunciato in sua assenza, prassi usuale durante gli anni del terrore staliniano.

Venne mandato nel campo di lavoro di Karlag, nella provincia di Karaganda, dove rimase fino al 1953: proprio questo luogo gli permise, suo malgrado, di diventare un ‘vero’ scrittore: “tremo al solo pensare che scrittore sarei diventato (e lo sarei diventato certamente) se non mi avessero messo dentro”. Il Solženicyn scrittore, insomma, sembra ‘debitore’ verso la propria esperienza nel lager. Decise di sposare la sorte dello “scrittore russo contemporaneo”, quella di “scrivere unicamente perché tutto questo non venga dimenticato, perché un giorno lo sappiano i posteri. Quanto ad essere pubblicato in vita, a ciò non dovevo nemmeno pensare, né accarezzare il progetto in sogno”. Per scrivere nel lager fece ricorso alla memoria, imparando a mente migliaia di versi: questa operazione si fece sempre più dura per la mole dei versi stessi, che cresceva col trascorre del tempo.

Nel 1953 uscì dal lager e, condannato all’esilio perpetuo, si stabilì a Džambul, in Kazakistan, dove fu colto da una grave malattia, che lo costrinse ad essere spostato a Taskent per potersi curare. Riuscì a vincere la sua battaglia per la vita e d’ora in poi l’altra battaglia, quella condotta per ricordare ai posteri le sofferenze proprie e di milioni concittadini sovietici, acquisì per lui un nuovo valore: “l’intera vita che mi è stata restituita da allora, non mi appartiene più nel senso completo della parola”, sostiene lo scrittore, “vi è stato immesso uno scopo”. Riabilitato nel 1956, a seguito del XX Congresso, tornò alla vita civile dopo aver vissuto per anni nell’arcipelago concentrazionario staliniano, un mondo ‘a parte’ rispetto al resto del Paese, sconosciuto alla maggior parte dei cittadini sovietici.

Ebbe così la possibilità di stabilirsi a Rjazan, cittadina non lontana da Mosca, dove tornò ad insegnare matematica. Cominciò a scrivere su carta le proprie opere, segretamente, facendo attenzione che nessuno lo venisse a sapere. Divenne uno ‘scrittore clandestino’: “eravamo alcune decine, mi dicevo, solitari chiusi e ostinati sparsi per la Russia, e ciascuno scriveva quanto gli dettavano l’onore e la coscienza […]. Giunto il momento, saremmo emersi tutti insieme dalle profondità marine […] e si sarebbe ricostituita quella nostra grande letteratura che avevamo spinto sul fondo del mare”. Una letteratura stravolta dall’imposizione dei canoni del realismo socialista.

Elaborò la commedia Una candela al vento ma soprattutto, visto il debito da saldare col passato e la volontà di difendere l’avvenire, un romanzo che riuscì, in modo magistrale, a mettere a nudo gli orrori compiuti durante gli anni di Stalin, intitolato Šč-854. Nel 1961 alleggerì la prima versione di questo romanzo, tagliandola dei brani e dei giudizi più aspri. Šč-854 divenne per Solženicyn, a seguito dell’attacco condotto pubblicamente da Chruščëv contro Stalin al XXII Congresso, l’opera in grado di far uscire sé stesso dall’anonimato, e di comunicare al mondo intero la propria terribile esperienza.

Decise di far pervenire il manoscritto alla redazione di Novyj Mir perché il suo direttore Aleksandr Tvardovskij aveva espresso, durante il XXII Congresso, la volontà di approfittare dello ‘spiraglio’ che si era dischiuso per pubblicare delle opere più coraggiose e libere. Solženicyn affidò una copia del romanzo all’ex compagno di prigionia Lev Kopelev, germanista, che lo fece pervenire alla redazione della rivista. Qui fortunatamente il romanzo capitò nelle mani giuste, quelle della redattrice Anna Berzer, che era rimasta talmente entusiasta dalla sua lettura da volerlo far pervenire a tutti i costi a Tvardovskij, presentandolo al direttore come “il lager visto da un contadino, una cosa molto popolare”. Solženicyn sostiene che proprio questa presentazione della Berzer fu fondamentale, perché “non sarebbero rimasti indifferenti verso il contadino Ivan Denisovičil protagonista del romanzo - il contadino-capo, Aleksandr Tvardovskij, e il contadino in alto loco, Nikita Chruščëv”.

Una sera di novembre del 1961 Tvadovskij, che si trovava in casa, lesse, con la compagnia di un sigaro e di alcune tazze di tè, il romanzo di uno ‘sconosciuto’ autore di Rjazan, e ne rimase impressionato: “mi accorsi subito che era qualcosa di importante, […] quella notte lessi un nuovo classico della letteratura russa”. Per celebrare l’evento, Tvardovskij volle indossare il proprio abito migliore. Era, nell’ottica della de-stalinizzazione, la carta giusta da giocare, che avrebbe riportato alla pubblica attenzione un passato troppo recente ed ancora troppo vivo per poter essere ignorato.

Tvardovskij volle incontrarlo di persona e Solženicyn si recò,  nello stesso mese di novembre del 1961, alla redazione del Novyj Mir, in piazza Stratsnaja a Mosca. Qui un Tvardovskij raggiante non fece nulla per nascondere a Solženicyn il proprio entusiasmo. Sosteneva solamente che l’opera non poteva essere pubblicata col titolo Šč-854, e l’autore accettò questa modifica. Di comune accordo decisero di intitolarlo Una giornata di Ivan Denisovič.

Prima di vedere pubblicato il romanzo, però, trascorse un anno. Tvardovskij doveva infatti creare prima un consenso attorno all’opera, tra i letterati e, ovviamente, tra i politici. Inizialmente Tvardovskij doveva far accettare il romanzo alla redazione di Novyj Mir, soprattutto al dogmatico Aleksandr Dement’ev. Nei primi mesi del 1962 Tvardovskij lo diede a leggere agli scrittori Čukovskij, Ehrenburg, e Fedin, e quest’ultimo non espresse nessun giudizio sul valore dell’opera.

Nel luglio dovette accelerare i tempi, perché centinaia di copie del manoscritto circolavano già clandestinamente nelle principali città della Russia, ed inviò così una copia del romanzo all’esperto per la cultura di Chruščëv, Vladimir Semënovič Lebedev. Questi diede parere positivo, suggerendo delle piccole correzioni, che non intaccavano comunque minimamente la natura dell’opera, e che furono accettate dallo stesso Solženicyn. Nella residenza estiva del Primo Segretario del PCUS a Picunda, sul Mar Nero, Lebedev lesse a Chruščëv (che non amava la lettura) ed a Mikojan il romanzo, che piacque e venne approvato da entrambi.  

I due uomini politici colsero immediatamente i risvolti politici che avrebbe comportato la pubblicazione di un romanzo di questo tipo, risvolti che credevano loro favorevoli. Chruščëv prima diede a leggere il romanzo a Šolochov, che manifestò parere favorevole, e poi lo sottopose all’attenzione dei principali membri del Cc i quali, increduli, non seppero imporgli una marcia indietro rispetto la sua volontà di pubblicarlo. Chruščëv voleva scrollarsi di dosso l’ombra di Stalin, voleva legittimare la sua supremazia, e puntò tutto sulla denuncia pubblica dei crimini commessi dall’ex primo segretario. Il sistema dei campi di lavoro che con Stalin raggiunse dimensioni enormi, e venne costantemente riempito negli anno delle grandi purghe, era a suo avviso un terreno utile per far perdere prestigio alla figura del suo ingombrante predecessore, e fare al contempo crescere la sua credibilità.

Il romanzo ebbe un successo strepitoso, tanto che in pochi mesi venne stampato in 800.000 esemplari, che andarono letteralmente a ruba. L’immagine di Chruščëv tra la popolazione sovietica ne ricavò un indubbio beneficio, così come avvenne tra le fila dell’intelligencija più liberale. D’altro canto però, l’ala conservatrice del PCUS non condivideva affatto simili entusiasmi, ma anzi temeva che un tale gesto avrebbe potuto provocare delle conseguenze molto pericolose sulla stabilità del sistema sovietico.

Sono sintomatici della netta ripresa della frangia conservatrice in seno al PCUS, gli attacchi che la stampa sovietica cominciò a sferrare nel gennaio del 1963 ai racconti di Solženicyn. La Literaturnaja Rossija rimproverò allo scrittore di  non aver saputo vedere i lati positivi dell’età staliniana, e negò la positività del personaggio di Ivan Denisovič, mentre nel mese di marzo la Literaturnaija Gazeta e la Pravda si scagliarono contro il romanzo breve La casa di Matrjona.

Chruščëv allora decise di fare marcia indietro. Aveva capito che le sue aperture avevano scatenato una reazione, che sancì di li a poco la fine della sua vita politica, e decise di porre fine alla breve, strumentale e contraddittoria stagione della destalinizzazione. “Penso”, chiarì  Chruščëv durante un discorso all’Unione degli scrittori sovietici, “che non potrà mai esservi libertà personale assoluta, neppure sotto il comunismo più completo. […] Nel comunismo la volontà del singolo dev’essere subordinata a quella del gruppo”. Il PCUS era “la forza direttiva della società socialista, che esprime la volontà di tutto il popolo sovietico”. Così “il Partito sostiene solamente quelle opere della letteratura e dell’arte che danno ispirazione al popolo e irrobustiscono le sue forze”. Il salto indietro era stato ormai fatto, e per Solženicyn iniziò una nuova fase, quella del dissenso.

Chruščëv venne esautorato dalle sue funzioni il 13 ottobre 1964. Al suo posto venne nominato Leonid Brežnev, che sanciva in maniera inequivocabile la nuova chiusura, dogmatica, che accompagnò la società sovietica fino all’89. La stampa sovietica pubblicò un comunicato del Comitato Centrale del PCUS, che rendeva noto di aver “esaudito la richiesta di Chruščëv di essere liberato dai suoi obblighi di Primo Segretario del Cc, a causa dell’età avanzata e del suo stato di salute”.

Dal 1967, anno nel quale inviò una polemica lettera al IV Congresso degli scrittori sovietici, Solzenicyn aveva iniziato una fase di lotta aperta col regime, che si protrasse per quasi sette anni. Nel 1968 lo scrittore decise di autorizzare la pubblicazione in Occidente di Padiglione Cancro, e del romanzo Il primo cerchio. Tanto a livello internazionale la sua posizione di scrittore si consolidò, quanto più le autorità sovietiche divennero lui ostili. Il 4 novembre del 1969 ebbe luogo una riunione dell’Unione degli scrittori di Rjazan, che cominciò alle ore quindici e terminò alle quattordici e trenta con la delibera dell’espulsione di Solženicyn dall’Unione. Alla riunione era presente anche il Segretario Generale dell’Unione della RSFSR, Taurin.

Lo scrittore Matuškin disse che l’Unione “riunisce i partigiani di una stessa idea, che seguono il realismo socialista”. In un tale luogo, “non c’è posto per Solženicyn”. Baranov chiariva come “del suo lavoro noi non sappiamo niente, non lo conosciamo”. Altri scrittori che presero la parola, puntarono il dito contro i primi romanzi di Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič e La casa di Matrjona, accusati di non rientrare nell’ottica del realismo. Solženicyn tentò di difendersi, confutò la tesi per la quale non aveva informato l’Unione di Rjazan dei sui nuovi scritti, ma la rottura si rivelò insanabile.

Il più grande scrittore russo vivente, venne così sacrificato dai propri colleghi in nome della ragion politica. In suo soccorso giunse la notizia, l’8 ottobre del 1970, della vittoria del Premio Nobel per la Letteratura. L’Accademia di Stoccolma lo insignì del massimo riconoscimento, “per la forza etica con la quale egli ha portato avanti l’indispensabile tradizione della letteratura russa”. Lo stesso giorno, Solženicyn si disse “grato per questa decisione”, affermando di avere l’intenzione di recarsi a ricevere il premio “personalmente, nel giorno tradizionale”. Non gli fu però possibile, in quanto una sua partenza per la Svezia avrebbe quasi certamente significato l’impossibilità di fare rientro in Unione Sovietica.

Solženicyn non voleva essere allontanato dalla sua terra, e decise di non prendere parte alla cerimonia di Stoccolma. Tentò allora di trovare con l’Accademia di Stoccolma una soluzione mediatoria, in primo luogo il ricevimento del premio a Mosca, all’interno dell’ambasciata svedese. Nemmeno questa soluzione si rivelò praticabile, tanto che l’8 aprile del 1972 scrisse una dichiarazione di annullamento della cerimonia, nella quale chiedeva all’Accademia di conservare le onorificenze che gli sarebbero spettate “per un tempo illimitato. Se la mia vita non basterà, delego mio figlio a riceverle”. Lo scrittore, seppur ferito dall’atteggiamento delle proprie autorità, divenne maggiormente consapevole di rappresentare quella cultura russa a suo avviso repressa da quella socialista. Probabilmente, questa polarizzazione delle posizioni influì sull’evoluzione delle idee più propriamente politiche di Solženicyn, che a cavallo tra il 1973 ed il 1974 emersero nel in modo compiuto.

Agli inizi degli anni Settanta cominciarono ad esse pubblicate le prime versioni di Arcipelago Gulag, l’opera letteraria più conosciuta al mondo sul sistema dei Gulag. Avuta notizia che il KGB era entrato in possesso del manoscritto di Arcipelago Gulag, Solženicyn diede l’autorizzazione alla sua pubblicazione in Occidente, dove già dal 1970 ne aveva fatto pervenire una copia.  “A cuor stretto”, scriveva l’autore nel settembre del 1973, “mi ero astenuto per anni dal pubblicare questo libro: il dovere verso chi era ancora vivo prendeva il sopravvento su quello verso i morti. Ma oggi che la Sicurezza dello Stato ha comunque in mano l’opera, non mi rimane che pubblicarla immediatamente”.

La conseguenza fu la sua espulsione dall’Unione Sovietica. Solženicyn venne a sapere, nel mese di settembre del 1973, che il KGB era entrato in possesso di una copia di Arcipelago Gulag. Elizaveta Voronjanskaja, anziana leningradese alla quale lo scrittore ne aveva affidata una copia, interrogata dal KGB cedette alle pressioni degli inquisitori, e rivelò loro il luogo dove la custodiva. Secondo la versione ufficiale la Voronjanskaja, presa dai rimorsi, si suicidò impiccandosi, anche se Solženicyn avanza l’ipotesi che sia stata uccisa dagli uomini del KGB: “così il destino appese anche questo cadavere davanti alla copertina di un libro sui martiri, testimone di milioni di morti simili”. Avuta notizia che il KGB era entrato in possesso del manoscritto, Solženicyn diede l’autorizzazione alla sua pubblicazione in Occidente.

Nel mese di dicembre del 1973, i mezzi di comunicazione occidentali annunciarono l’imminente pubblicazione dell’opera.  Il 7 gennaio del 1974 si svolse una riunione del Politbjuro che si occupò del caso Solženicyn. Presieduta da Brežnev, alla presenza di Andropov, Grišin, Gromyko, Krilenko, Kosygin, Podgornyj, Polianskij, Suslov, Šelepin, Demičev, Solomencev, Ustinov, Kapitonov e Katušev, la riunione espresse due orientamenti: processare Solženicyn in base alle leggi vigenti in URSS, oppure espellerlo. Andropov proponeva di “espellere Solženicyn dal Paese con procedura amministrativa”, e di “chiedere ai nostri ambasciatori di presentare un’interpellanza ai Paesi che indico nella mia nota (in primo luogo la Repubblica Federale Tedesca), perché lo accolgano”. Gromyko si dimostrò perplesso in merito alla proposta di Andropov, in quanto se avessero espulso lo scrittore “senza il suo consenso, la propaganda borghese potrebbe rivoltarsi contro di noi […] sarebbe bene espellerlo consensualmente, ma lui non darà mai il suo consenso”. Podgornyj era invece convinto che fosse meglio processarlo in patria: “in molti Paesi, in Cina, la gente viene giustiziata apertamente; in Cile il regime fascista fucila e tortura, noi invece abbiamo a che fare con un nemico accanito e lasciamo correre”.

Brežnev approvò la proposta di Podgornyj. La risoluzione finale, incaricava “i compagni Andropov e Rudenko di stabilire le modalità e la procedura per l’istruttoria ed il processo”  a carico dello scrittore. Andropov, consapevole che “le conseguenze negative dell’arresto e del processo a Solženicyn se le sarebbe ritrovate sulla sua groppa”, riuscì a mutare la decisione presa il 7 gennaio, trovando il Paese disposto ad accogliere lo scrittore dissidente: la RFT di Willy Brandt.

Il 2 febbraio il cancelliere tedesco si disse pronto ad accogliere Solženicyn. Arrestato il 12 febbraio del 1974, Solženicyn trascorse una notte nella prigione di Lefortovo, ed il 13 venne imbarcato in un aereo alla volta della RFT. Accolto dallo scrittore Heinrich Böll, si trasferì prima in Svizzera dal 1974 al 1976, e poi in Vermont, negli Stati Uniti (il paesaggio qui gli ricordava la Russia), dove tuttora vive.

Come un Paese, governato da un regime totalitario, sacrifica le sue menti migliori in nome della ragion politica.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Labedez, Solzhenitsyn. A documentary record, London, Allen Lane the Penguin press, 1970

Aleksandr Solženicyn, La quercia e il vitello, Milano, Mondadori, 1975

Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič, Torino, Einaudi, 1963

Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, Milano, Oscar Classici Mondadori, 1995

 

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