L’albicocco & il melone
Credenze, usi, tradizioni e
simbologie
di Giulia
Cesarini Argiroffo
L’albicocco (Prunus armeniaca)
è un albero da frutto delle Rosacee
ed è una pianta latifoglia,
caducifoglia alta e dalla chioma
slargata. Le foglie sono tonde,
acuminate, quasi cuoriformi, lisce,
lucide, con i margini seghettati,
messe su un lungo picciolo. Il
tronco ha un colore bruno-violaceo
screpolato mentre da giovane è
rossastro, il legno è leggero e non
pregiato. I fiori, abbastanza
grandi, hanno calice rosso e petali
bianchi o rosei che spuntano prima
delle foglie.
Il frutto, l’albicocca, è una drupa
di forma sferica finemente vellutata
e ha un solco longitudinale alla
base. La buccia sottile, quando
acerba è verde, mentre se è matura
va dal colore giallo chiaro al rosso
aranciato e spesso rosso carminio
maculato o punteggiato sul lato
soleggiato. La sua polpa è gialla,
succosa, dolce e profumata più o
meno aderente al nocciolo (armellina)
che è duro, appiattito, ruvido e di
color bruno. Quest’ultimo ha un
sapore amaro e si usa ad esempio per
produrre sciroppi, liquori e
amaretti. Il consumo dei noccioli è
però limitato perché contengono
amigdalina, metabolizzata in acido
cianidrico che, in alte dosi risulta
tossico (pure le foglie e i fiori
dell’albicocco contengono un
derivato dell’acido cianidrico).
L’olio di nocciolo dell’albicocca si
usa in cucina, in pasticceria e in
cosmetica.
L’albicocca è commestibile, la sua
raccolta va da maggio a luglio, ha
un alto valore nutritivo e tante
proprietà benefiche. Si mangia
fresca, essiccata, sciroppata,
conservata in lattina, congelata, in
marmellata, nella preparazione di
molti piatti dolci e agrodolci. Il
suo succo di frutta è altrettanto
apprezzato. L’albicocco attualmente
si coltiva in molti Paesi dai climi
caldi o temperati e relativamente
asciutti.
L’albicocco in botanica si chiama
Prunus armeniaca cioè ”pruno
dell’Armenia” sulla scia degli
Antichi Romani che lo ritenevano
originario di quella zona e quindi
lo avevano battezzato armenicum
malum. Questa pianta proveniva
invece dalla Cina settentrionale,
dove ancora oggi cresce spontanea ed
è così antica che già ne parlava il
Chan-hai king, il “Libro dei monti e
dei mari”, attribuito all’imperatore
Yu il Grande, vissuto verso il 2200
a.C. indicandola con il suo
ideogramma cinese: un alberello in
un vaso, quasi che esso sia stato
considerato l’albero per
antonomasia.
Gradualmente l’albicocco giunse fino
in Armenia dove ancora oggi si narra
la seguente leggenda. Una volta
l’albicocco era solo un albero
ornamentale grazie alla sua chioma
folta e tondeggiante, al fogliame di
un verde fresco e vivace e ai fiori
bianchi e profumati che spesso si
schiudono già alla fine di febbraio.
Quando il Paese venne invaso da un
esercito straniero si dovettero
abbattere tutti gli alberi
improduttivi per procurare legna, e
fra questi anche l’albicocco cui una
bella fanciulla era molto
affezionata. Costei volle
trascorrere la notte della vigilia
sotto l’alberello per dargli un
addio affettuoso fra pianti e
lacrime ma quando al mattino si
risvegliò si accorse con gioioso
stupore che i rami erano carichi di
frutti dorati.
Le albicocche, dal profumo intenso e
dal colore che varia dal giallo al
rosa al rosso acceso, quando sono
sufficientemente mature, sono state
paragonate a una guancia femminile e
talvolta, a causa del morbido solco
che le percorre, a un tondo
attributo che è superfluo
specificare.
Nell’Antica Roma l’albicocco giunse
dall’Oriente all’inizio del I secolo
d.C., i suoi frutti erano molto
apprezzati e spesso confusi con
altri ortaggi che venivano da
lontano. In ogni caso l’albicocca
all’epoca si vendeva, quando era
ancora rara e godeva della sua aura
esotica, a prezzi esorbitanti. Si
chiamava anche praecoquum o
malum praecox, nome che
designava forse una varietà
primaticcia.
Furono poi gli Arabi a diffonderlo
ulteriormente, soprattutto in
Andalusia, in Sicilia e nell’Africa
del Nord, chiamandolo – sulla scia
del nome latino praecoquum –
al-barquq. Di qui l’italiano
albicocca, il francese arcaico
aubrecot poi diventato
apricot, e lo spagnolo
albaricoque.
Dal frutto, come sopracitato, si
ricava una delle più diffuse e
apprezzate marmellate. In
particolare questa è uno dei
principali ingredienti della torta
Sacher, dal nome del pasticciere
Eduard Sacher che la creò nel 1832
per il principe Metternich farcendo
il celebre dolce viennese con la sua
confettura.
Nonostante tutte queste qualità il
fiore dell’albicocco nel vocabolario
d’amore ottocentesco trasmette un
messaggio triste: “il mio amore non
è ricambiato”.
In generale dell’albicocco sono
soprattutto i suoi frutti a
rivestire un importante ruolo
simbolico. Nello specifico quando
nei sogni appare l’albicocca fresca
ciò presagisce un amore passeggero,
mentre se è secca o fuori stagione
annuncia ferite d’amore o un ritardo
in qualcosa, fino al momento in cui
il frutto sarà maturo, secondo
natura.
Inoltre il termine “albicocca”
designa anche un colore, infatti si
ispira alla cromia dell’omonimo
frutto. Nello specifico rinvia a una
sfumatura decisamente arancione e
per Pastoureau indica una tonalità
ordinaria, talvolta sgradevole e
poco fine.
Esiste anche il cosiddetto
“albicocco giapponese” (Prunus
mune), anch’esso appartenente
alla famiglia delle Rosacee e
originario dell’Estremo Oriente.
Questo albero può considerarsi
intermedio tra un pruno e un
albicocco. Rispetto a quest’ultimo è
più basso ma ha molte similitudini
con esso. Le foglie sono a lembo
ovale finemente dentellate ai
margini, la corteccia è grigio
verdastro. I fiori sono piccoli ma
piuttosto vistosi e di solito
bianchi, seppure nelle varietà da
coltivazione possono essere anche
rosa o rosso intenso e precedono la
foliazione. I frutti sono delle
drupe sferiche e presentano un solco
longitudinale, nella forma
somigliano molto a quelle
dell’albicocco precedentemente
descritte. La buccia del frutto è
verde se acerba ma poi diventa
gialla a maturità così come il
colore della sua polpa. Ne esistono
diverse varietà e incroci. La sua
fioritura è tra le piante più
precoci.
Essa è originaria della Cina ma sin
da tempi antichissimi la sua
coltivazione si importò anche in
Corea, in Giappone e in Vietnam per
i suoi frutti e i suoi fiori. In
Estremo Oriente, fin dall’Antichità,
i frutti si usano per la
preparazione di diversi piatti o
bevande. Inoltre essa si utilizza
pure come pianta ornamentale e ne
esistono moltissime varietà, anche
in bonsai.
In Europa è poco considerata mentre
in Estremo Oriente il pruno, detto
“albicocco giapponese”, è
considerato il simbolo della
Primavera, del Rinnovamento, della
Giovinezza, come testimonia la
pittura cinese. Grazie ai suoi fiori
di un candore smagliante ha anche
evocato i simboli della Purezza e
dell’Immortalità.
“Melone” è un termine che indica
tanto la pianta quanto il suo frutto
ch’è commestibile e di cui ne
esistono molte varietà. Oggi si
coltiva in tutti i Pesi caldi e
temperati. Nello specifico, il
melone (Cucumis melo) o
popone è un’erbacea annua, monoica,
con fusto ramoso, rampicante o
strisciante, dotato di cirri
semplici. Le foglie sono angolose,
lobate, scabre, cordate, color verde
pallido. I fiori gialli sono monoici
e campanulari. Il frutto è un
peponide globoso che, a seconda
delle varietà, può essere più o meno
compresso e allungato, con polpa
gialla, arancione o verdognola,
succosa e profumatissimae i semi
sono appiattiti e giallicci.
Ad esempio esiste il “melone retato
o reticolato”, ovoidale, con buccia
verde sottile e corrugata che forma
una sorta di reticolo biancastro,
con polpa bianca, gialla o
verdiccia. Il “melone cantalupo”
sferico, dalla scorza robusta e
costoluta a spicchi pronunciati, con
polpa arancione. Tale nome deriva
dal fatto che i missionari asiatici
li portarono per la prima volta al
castello pontificio di Cantalupo,
sui colli romani. Il “melone
inodorus”, con buccia liscia, polpa
biancastra o rosata costituisce un
piatto tipico natalizio della
tradizione siciliana. I frutti sono
perlopiù dolci e profumati ma
esistono alcune varietà come quello
“serpentino” (diffuso in Asia) di
forma allungata, dalla buccia e
polpa verde e che, per aspetto e
sapore, somiglia al cetriolo.
In generale il melone si consuma al
naturale, all’interno di pietanze
dolci o salate ma anche in alcune
bevande o cotto per ottenere
marmellate.
L’origine del melone è incerta.Per
alcuni autori, come Cattabiani, il
melone proviene dell’Asia
occidentale e meridionale. Invece
per altri autori dall’Africa, forse
gli Antichi Egizi iniziarono a
importarlo nel bacino del
Mediterraneo già nel V secolo a.C.
ma in Italia arrivò solo nella prima
età imperiale. Recenti studi
archeologici corroborano tale
teoria. Infatti in Sardegna si sono
ritrovati semi di melone databili
tra il 1310-1120 a.C. (Età del
Bronzo), quindi d’epoca molto
antecedente.
In ogni caso è sicuro che, durante
l’Impero Romano il melone era
ampiamente diffuso, di solito in uso
come verdura, come ad esempio
descriveva Plinio il Vecchio nel I
secolo d.C. nella sua Naturalis
Historia. Inoltre pare che al
tempo dell’imperatore Diocleziano si
emise un editto per tassare i meloni
che superavano i 200 grammi
(attuali) di peso.
I meloni coltivati dagli Antichi
Romani, dopo alcuni secoli di
dimenticanza,si riscoprirono nel
Medioevo.
Alcuni medici nel passatoli
ritennero nocivi e imputarono loro
la morte di quattro imperatori e di
due pontefici. Castore Durante
(1529-1590) a sua volta nel suo
Herbario Novo del 1585 ammoniva
di non mangiarne troppi “perché
sminuivano il seme genitale”. Certo,
come già avvertiva il naturalista
romano, il melone è controindicato
per i diabetici, i dispeptici e le
persone che soffrono di irritazioni
all’apparato digerente. Ma per chi
non ha di questi disturbi è
rinfrescante, diuretico e lassativo.
Si narra che Alexandre Dumas amasse
i meloni, soprattutto quelli
conosciuti in Francia come Cavaillon,
per la zona di produzione. Pertanto
propose alla biblioteca della città
uno scambio tra le sue opere (circa
400 volumi) e una rendita vitalizia
di 12 meloni l’anno, che durò fino
alla sua morte nel 1870. Fu così che
in suo onore venne istituita la
Confraternita dei Cavalieri dei
meloni di Cavaillon.
Secondo De Gubernatis (1840-1913) il
vero motivo del simbolismo dei
meloni è collegato alla fecondità di
questi frutti e alla loro
straordinaria capacità generatrice,
vista come una forza cieca,
incontrollata, ossia il contrario
dell’intelligenza. Che la tesi di De
Gubernatis non sia da respingere lo
conferma il fatto che questo
simbolismo è stato evocato anche da
altri ortaggi come il cetriolo e la
zucca, ricchissimi di semi.
Oggigiorno il melone è simbolo di
Generazione e di Fecondità grazie ai
suoi numerosissimi semi ma anche di
Sciocco e di Goffo. Tant’è vero che
una volta uno stolto veniva detto “mellone”,
mentre una scemenza era detta “mellonaggine”.
Eppure questo frutto non è
eccezionalmente grande come la zucca
o il cocomero.
Quando il melone appare nei sogni
preannuncia l’amore, un’unione che
farà dimenticare le frustrazioni ma
che non apporterà risultati
tangibili sul piano della
realizzazione di progetti o di
affari.
Riferimenti bibliografici:
Biedermann, Hans, Enciclopedia
dei Simboli, Garzanti, Milano
1991.
Cattabiani, Alfredo, Florario,
Mondadori, Milano 2016.
Cattabiani, Alfredo, Il Lunario,
Mondadori, Milano 2002.
Coupal, Marie, I simboli dei
sogni. Analisi psicologica,
psicoanalitica, esoterica e
mitologica, Il Punto d’Incontro
Editore, Vicenza 2000.
Went, Fritzs W., e dai redattori di
LIFE, Le Piante, Mondadori,
Milano 1965.
Pastoureau, Michael, I colori del
nostro tempo, Ponte delle
Grazie, Milano 2010.