[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 209 / MAGGIO 2025 (CCXL)


ambiente

L’albicocco & il melone
Credenze, usi, tradizioni e simbologie
di Giulia Cesarini Argiroffo

 

L’albicocco (Prunus armeniaca) è un albero da frutto delle Rosacee ed è una pianta latifoglia, caducifoglia alta e dalla chioma slargata. Le foglie sono tonde, acuminate, quasi cuoriformi, lisce, lucide, con i margini seghettati, messe su un lungo picciolo. Il tronco ha un colore bruno-violaceo screpolato mentre da giovane è rossastro, il legno è leggero e non pregiato. I fiori, abbastanza grandi, hanno calice rosso e petali bianchi o rosei che spuntano prima delle foglie.

 

Il frutto, l’albicocca, è una drupa di forma sferica finemente vellutata e ha un solco longitudinale alla base. La buccia sottile, quando acerba è verde, mentre se è matura va dal colore giallo chiaro al rosso aranciato e spesso rosso carminio maculato o punteggiato sul lato soleggiato. La sua polpa è gialla, succosa, dolce e profumata più o meno aderente al nocciolo (armellina) che è duro, appiattito, ruvido e di color bruno. Quest’ultimo ha un sapore amaro e si usa ad esempio per produrre sciroppi, liquori e amaretti. Il consumo dei noccioli è però limitato perché contengono amigdalina, metabolizzata in acido cianidrico che, in alte dosi risulta tossico (pure le foglie e i fiori dell’albicocco contengono un derivato dell’acido cianidrico). L’olio di nocciolo dell’albicocca si usa in cucina, in pasticceria e in cosmetica.

 

L’albicocca è commestibile, la sua raccolta va da maggio a luglio, ha un alto valore nutritivo e tante proprietà benefiche. Si mangia fresca, essiccata, sciroppata, conservata in lattina, congelata, in marmellata, nella preparazione di molti piatti dolci e agrodolci. Il suo succo di frutta è altrettanto apprezzato. L’albicocco attualmente si coltiva in molti Paesi dai climi caldi o temperati e relativamente asciutti.

 

L’albicocco in botanica si chiama Prunus armeniaca cioè ”pruno dell’Armenia” sulla scia degli Antichi Romani che lo ritenevano originario di quella zona e quindi lo avevano battezzato armenicum malum. Questa pianta proveniva invece dalla Cina settentrionale, dove ancora oggi cresce spontanea ed è così antica che già ne parlava il Chan-hai king, il “Libro dei monti e dei mari”, attribuito all’imperatore Yu il Grande, vissuto verso il 2200 a.C. indicandola con il suo ideogramma cinese: un alberello in un vaso, quasi che esso sia stato considerato l’albero per antonomasia.

 

Gradualmente l’albicocco giunse fino in Armenia dove ancora oggi si narra la seguente leggenda. Una volta l’albicocco era solo un albero ornamentale grazie alla sua chioma folta e tondeggiante, al fogliame di un verde fresco e vivace e ai fiori bianchi e profumati che spesso si schiudono già alla fine di febbraio. Quando il Paese venne invaso da un esercito straniero si dovettero abbattere tutti gli alberi improduttivi per procurare legna, e fra questi anche l’albicocco cui una bella fanciulla era molto affezionata. Costei volle trascorrere la notte della vigilia sotto l’alberello per dargli un addio affettuoso fra pianti e lacrime ma quando al mattino si risvegliò si accorse con gioioso stupore che i rami erano carichi di frutti dorati.

 

Le albicocche, dal profumo intenso e dal colore che varia dal giallo al rosa al rosso acceso, quando sono sufficientemente mature, sono state paragonate a una guancia femminile e talvolta, a causa del morbido solco che le percorre, a un tondo attributo che è superfluo specificare.

 

Nell’Antica Roma l’albicocco giunse dall’Oriente all’inizio del I secolo d.C., i suoi frutti erano molto apprezzati e spesso confusi con altri ortaggi che venivano da lontano. In ogni caso l’albicocca all’epoca si vendeva, quando era ancora rara e godeva della sua aura esotica, a prezzi esorbitanti. Si chiamava anche praecoquum o malum praecox, nome che designava forse una varietà primaticcia.

 

Furono poi gli Arabi a diffonderlo ulteriormente, soprattutto in Andalusia, in Sicilia e nell’Africa del Nord, chiamandolo – sulla scia del nome latino praecoquum – al-barquq. Di qui l’italiano albicocca, il francese arcaico aubrecot poi diventato apricot, e lo spagnolo albaricoque.

 

Dal frutto, come sopracitato, si ricava una delle più diffuse e apprezzate marmellate. In particolare questa è uno dei principali ingredienti della torta Sacher, dal nome del pasticciere Eduard Sacher che la creò nel 1832 per il principe Metternich farcendo il celebre dolce viennese con la sua confettura.

 

Nonostante tutte queste qualità il fiore dell’albicocco nel vocabolario d’amore ottocentesco trasmette un messaggio triste: “il mio amore non è ricambiato”.

 

In generale dell’albicocco sono soprattutto i suoi frutti a rivestire un importante ruolo simbolico. Nello specifico quando nei sogni appare l’albicocca fresca ciò presagisce un amore passeggero, mentre se è secca o fuori stagione annuncia ferite d’amore o un ritardo in qualcosa, fino al momento in cui il frutto sarà maturo, secondo natura.

 

Inoltre il termine “albicocca” designa anche un colore, infatti si ispira alla cromia dell’omonimo frutto. Nello specifico rinvia a una sfumatura decisamente arancione e per Pastoureau indica una tonalità ordinaria, talvolta sgradevole e poco fine.

 

Esiste anche il cosiddetto “albicocco giapponese” (Prunus mune), anch’esso appartenente alla famiglia delle Rosacee e originario dell’Estremo Oriente. Questo albero può considerarsi intermedio tra un pruno e un albicocco. Rispetto a quest’ultimo è più basso ma ha molte similitudini con esso. Le foglie sono a lembo ovale finemente dentellate ai margini, la corteccia è grigio verdastro. I fiori sono piccoli ma piuttosto vistosi e di solito bianchi, seppure nelle varietà da coltivazione possono essere anche rosa o rosso intenso e precedono la foliazione. I frutti sono delle drupe sferiche e presentano un solco longitudinale, nella forma somigliano molto a quelle dell’albicocco precedentemente descritte. La buccia del frutto è verde se acerba ma poi diventa gialla a maturità così come il colore della sua polpa. Ne esistono diverse varietà e incroci. La sua fioritura è tra le piante più precoci.

 

Essa è originaria della Cina ma sin da tempi antichissimi la sua coltivazione si importò anche in Corea, in Giappone e in Vietnam per i suoi frutti e i suoi fiori. In Estremo Oriente, fin dall’Antichità, i frutti si usano per la preparazione di diversi piatti o bevande. Inoltre essa si utilizza pure come pianta ornamentale e ne esistono moltissime varietà, anche in bonsai.

 

In Europa è poco considerata mentre in Estremo Oriente il pruno, detto “albicocco giapponese”, è considerato il simbolo della Primavera, del Rinnovamento, della Giovinezza, come testimonia la pittura cinese. Grazie ai suoi fiori di un candore smagliante ha anche evocato i simboli della Purezza e dell’Immortalità.

 

 “Melone” è un termine che indica tanto la pianta quanto il suo frutto ch’è commestibile e di cui ne esistono molte varietà. Oggi si coltiva in tutti i Pesi caldi e temperati. Nello specifico, il melone (Cucumis melo) o popone è un’erbacea annua, monoica, con fusto ramoso, rampicante o strisciante, dotato di cirri semplici. Le foglie sono angolose, lobate, scabre, cordate, color verde pallido. I fiori gialli sono monoici e campanulari. Il frutto è un peponide globoso che, a seconda delle varietà, può essere più o meno compresso e allungato, con polpa gialla, arancione o verdognola, succosa e profumatissimae i semi sono appiattiti e giallicci.

 

Ad esempio esiste il “melone retato o reticolato”, ovoidale, con buccia verde sottile e corrugata che forma una sorta di reticolo biancastro, con polpa bianca, gialla o verdiccia. Il “melone cantalupo” sferico, dalla scorza robusta e costoluta a spicchi pronunciati, con polpa arancione. Tale nome deriva dal fatto che i missionari asiatici li portarono per la prima volta al castello pontificio di Cantalupo, sui colli romani. Il “melone inodorus”, con buccia liscia, polpa biancastra o rosata costituisce un piatto tipico natalizio della tradizione siciliana. I frutti sono perlopiù dolci e profumati ma esistono alcune varietà come quello “serpentino” (diffuso in Asia) di forma allungata, dalla buccia e polpa verde e che, per aspetto e sapore, somiglia al cetriolo.

 

In generale il melone si consuma al naturale, all’interno di pietanze dolci o salate ma anche in alcune bevande o cotto per ottenere marmellate.

 

L’origine del melone è incerta.Per alcuni autori, come Cattabiani, il melone proviene dell’Asia occidentale e meridionale. Invece per altri autori dall’Africa, forse gli Antichi Egizi iniziarono a importarlo nel bacino del Mediterraneo già nel V secolo a.C. ma in Italia arrivò solo nella prima età imperiale. Recenti studi archeologici corroborano tale teoria. Infatti in Sardegna si sono ritrovati semi di melone databili tra il 1310-1120 a.C. (Età del Bronzo), quindi d’epoca molto antecedente.

 

In ogni caso è sicuro che, durante l’Impero Romano il melone era ampiamente diffuso, di solito in uso come verdura, come ad esempio descriveva Plinio il Vecchio nel I secolo d.C. nella sua Naturalis Historia. Inoltre pare che al tempo dell’imperatore Diocleziano si emise un editto per tassare i meloni che superavano i 200 grammi (attuali) di peso.

 

I meloni coltivati dagli Antichi Romani, dopo alcuni secoli di dimenticanza,si riscoprirono nel Medioevo.

 

Alcuni medici nel passatoli ritennero nocivi e imputarono loro la morte di quattro imperatori e di due pontefici. Castore Durante (1529-1590) a sua volta nel suo Herbario Novo del 1585 ammoniva di non mangiarne troppi “perché sminuivano il seme genitale”. Certo, come già avvertiva il naturalista romano, il melone è controindicato per i diabetici, i dispeptici e le persone che soffrono di irritazioni all’apparato digerente. Ma per chi non ha di questi disturbi è rinfrescante, diuretico e lassativo.

 

Si narra che Alexandre Dumas amasse i meloni, soprattutto quelli conosciuti in Francia come Cavaillon, per la zona di produzione. Pertanto propose alla biblioteca della città uno scambio tra le sue opere (circa 400 volumi) e una rendita vitalizia di 12 meloni l’anno, che durò fino alla sua morte nel 1870. Fu così che in suo onore venne istituita la Confraternita dei Cavalieri dei meloni di Cavaillon.

 

Secondo De Gubernatis (1840-1913) il vero motivo del simbolismo dei meloni è collegato alla fecondità di questi frutti e alla loro straordinaria capacità generatrice, vista come una forza cieca, incontrollata, ossia il contrario dell’intelligenza. Che la tesi di De Gubernatis non sia da respingere lo conferma il fatto che questo simbolismo è stato evocato anche da altri ortaggi come il cetriolo e la zucca, ricchissimi di semi.

 

Oggigiorno il melone è simbolo di Generazione e di Fecondità grazie ai suoi numerosissimi semi ma anche di Sciocco e di Goffo. Tant’è vero che una volta uno stolto veniva detto “mellone”, mentre una scemenza era detta “mellonaggine”. Eppure questo frutto non è eccezionalmente grande come la zucca o il cocomero.

 

Quando il melone appare nei sogni preannuncia l’amore, un’unione che farà dimenticare le frustrazioni ma che non apporterà risultati tangibili sul piano della realizzazione di progetti o di affari.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Biedermann, Hans, Enciclopedia dei Simboli, Garzanti, Milano 1991.

Cattabiani, Alfredo, Florario, Mondadori, Milano 2016.

Cattabiani, Alfredo, Il Lunario, Mondadori, Milano 2002.

Coupal, Marie, I simboli dei sogni. Analisi psicologica, psicoanalitica, esoterica e mitologica, Il Punto d’Incontro Editore, Vicenza 2000.

Went, Fritzs W., e dai redattori di LIFE, Le Piante, Mondadori, Milano 1965.

Pastoureau, Michael, I colori del nostro tempo, Ponte delle Grazie, Milano 2010.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]