[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

165 / SETTEMBRE 2021 (CXCVI)


attualità

LA CADUTA

CRONACA DEL NUOVO DISASTRO AFGHANO / PARTE I

di Gian Marco Boellisi

 

Una sconfitta militare. Un ricorso storico. Un disastro politico. Una disfatta a lungo annunciata. Una catastrofe umanitaria. Ci sono tanti modi con cui si potrebbe definire ciò che sta accandendo in queste settimane in Afghanistan, tuttavia nessuna sarebbe sufficientemente esaustiva per descrivere il dramma che un intero popolo sta vivendo.

 

La decisione statunitense del ritiro delle proprie truppe ha scoperchiato il vaso di Pandora, esponendo a un vortice di instabilità non solo l’Afghanistan ma anche l’intera regione e tutti gli stati che vi si affacciano. Per quanto ci si potesse ampiamente aspettare che il ritiro americano avrebbe creato sconvolgimenti politici, economici e sociali di non ben definita grandezza, nessuno si aspettava che lo scenario si evolvesse con tanta rapidità e che un ritiro concordato in sede di trattati internazionali si potesse tramutare in una simile catastrofe a livello mondiale. È quindi doveroso approfondire quanto sta accandendo in Afghanistan per poter comprendere come si è arrivati a ciò ma soprattutto a dove condurrà negli anni a venire.

 

L’Afghanistan non ha bisogno di presentazioni. Terra tra le più affascinanti e allo stesso tempo più complesse tra quelle esistenti sul nostro pianeta, da sempre è stata una terra di passaggio, di collegamento. Perfetto anello di congiunzione tra Oriente e Occidente, l’Afghanistan ha sempre visto il proprio suolo occupato da potenze straniere che volevano avvantaggiarsi della sua posizione strategica per i propri scopi.

 

Tuttavia il popolo afghano non si è mai piegato. I persiani, i macedoni di Alessandro Magno, i mongoli di Gengis Khan, l’Impero Britannico per più volte, l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti: nessuna di queste grandi potenze è riuscita a tenere a lungo questa aspra terra, tanto fiera della sua solitudine tra le montagne e della sua indipendenza.

 

Forte di una conformazione morfologica tra le più irregolari e complesse del globo, l’Afghanistan è stato definito a ragion veduta “il cimitero degli imperi”. E ora gli Stati Uniti fanno parte di una delle tante lapidi che contornano questa millenaria necropoli. Stati Uniti che credevano, all’indomani dei tragici attentati dell’11 settembre, di riuscire a dimostrare la propria forza militare e politica invadendo un paese apparentemente semplice da soverchiare.

 

Per quanto la conquista dell’Afghanistan si sia dimostrata effettivamente rapida e senza troppi sforzi, la tenuta del paese nei successivi venti anni non è stata tale. Il movimento armato dei talebani, i quali avevano ospitato i terroristi di Al-Qaeda sul territorio afghano prima dell’11 settembre, si è nascosto sulle alture al confine con il Pakistan e ha continuato la sua battaglia contro l’invasore anno dopo anno, fino a quando il costo della guerra è diventato insostenibile da parte di tutte le forze occupanti. E ciò ci ha portati alla situazione odierna.

 

Prima di proseguire nell’analizzare come abbiano fatto i talebani a riconquistare il paese con tanta facilità, è interessante capire chi siano questi combattenti e come sono nati. Il termine taliban significa letteralmente “studente”. Il movimento fu fondato negli anni ‘90 nella città di Kandahar dal Mullah Mohammad Omar. I membri dei talebani appartengono per lo più all’etnia pashtun, ovvero un gruppo etnico diviso tra Afghanistan e Pakistan che rappresenta la maggioranza etnica relativa all’interno del suolo afghano. I talebani sono di confessione musulmano sunnita e mirano da sempre all’instaurazione di uno stato basato interamente sulla legge islamica, la Shari'a.

 

Per un breve periodo storico, dal 1996 al 2001, sono riusciti a governare l’Afghanistan, a seguito della fine dell’invasione sovietica e del colpo di spalla al debole governo nazionale uscito da 10 anni di guerra contro i russi. Tuttavia nel 2001 essi furono cacciati dal potere nel paese dagli americani a seguito del rifiuto di consegnare Osama bin Laden, l’allora leader di Al-Qaeda nonché organizzatore degli attentati dell’11 settembre, il quale si trovava su suolo afghano.

 

All’epoca pochissimi stati al mondo avevano riconosciuto il governo a guida talebana: solo Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Fu proprio nel 2001 che venne fatto il primo errore di una lunga serie. Infatti l’allora Segretario della Difesa Donald Rumsfeld rifiutò di integrare i comandanti talebani che si erano arresi e offerti di collaborare per la ricostruzione del paese all’interno del nuovo esecutivo. In questa maniera i talebani furono completamente alienati sia sullo scenario nazionale che su quello internazionale. L’unica alternativa rimasta loro era combattere.

 

Nonostante ciò, essi sono riusciti a riacquistare una parziale legittimità come interlocutori politici a seguito dei contatti portati avanti da Washington dal 2018 fino a febbraio 2020. Questi incontri, in un primo momento riservati, ma poi di largo dominio pubblico, hanno condotto al Trattato di Doha, ovvero l’accordo di pace sul ritiro americano voluto dall’amministrazione Trump, con il fine ultimo di ritirarsi da tutti gli scenari di guerra ritenuti non necessari agli interessi americani.

 

La legittimazione come partner non ha solo condotto alla firma del trattato, ma ha anche sdoganato i talebani come entità politica a se stante e indipendente, motivo per il quale sono iniziati a esservi incontri con altre entità statuali, quali la Cina e Russia. Sicuramente questo uno scenario non previsto da parte di Washington, ma di sicuro non meno influente nello scacchiere internazionale.

 

Per quanto quella dei talebani possa sembrare un’organizzazione islamica come tante altre, essa presenta sostanziali differenze rispetto al panorama islamista canonico. In primis, a differenza dei ben noti gruppi di Al-Qaeda e dello Stato Islamico, i talebani non hanno interessi a internazionalizzare il proprio movimento e i propri ideali. Essendo composti prevalentemente da tribù pashtun, l’identità talebana è stata fatta coincidere con quella afghana-islamica, creando un movimento molto coeso e unito, il quale si espande al più in Pakistan ma non oltre. Nonostante siano stati 20 anni molto duri per il movimento, i talebani a oggi risultano la forza politica più unita e forte del paese, senza neanche paragonarsi al corrotto e decadente governo di Kabul. E questo il popolo afghano lo ha sempre percepito e visto con i propri occhi.

 

Altra differenza importante è la modalità di finanziamento. Mentre le altre organizzazioni terroristiche hanno fatto sempre ricorso ai più disparati mezzi per finanziarsi, i talebani hanno sempre ricorso agli stessi metodi usati da decenni. Il principale è senza dubbio il commercio di oppio, dal quale viene estratta l’eroina che finisce nei mercati europei e non. Basti pensare che almeno il 90% dell’oppio presente nel globo deriva dall’Afghanistan. Altri mezzi sono sicuramente l’estrazione e il contrabbando di metalli preziosi presenti nel sottosuolo afghano per poi ricorrere anche a diretti finanziatori esterni.

 

Le stime parlano di svariati miliardi di dollari che entrano nelle casse del movimento ogni anno, motivo per cui essi sono riusciti a proseguire la lotta così a lungo negli anni. Tuttavia sarebbe un grosso errore giudicare le azioni dei talebani delle ultime settimane con  gli stessi occhi con cui si sono palesati alla comunità internazionale nel 2001. Il movimento si è evoluto, ha imparato dai propri errori e ha capito come porsi ai grandi interlocutori della politica internazionale in maniera da ottenere qualcosa in cambio ai tavoli dei negoziati. Basti pensare alle modalità con cui è stato ripreso il paese, ovvero senza quasi sparare un colpo ed evitando (almeno per il momento) i massacri sommari che tutti si aspettavano.

 

Di tutte le cose accadute nelle ultime settimane, sicuramente la rapidità dell’avanzata talebana è stato l’elemento che ha colpito maggiormente gli osservatori internazionali. Infatti erano svariati anni ormai che ci si aspettava uno scenario simile, con un abbandono del paese al proprio destino da parte delle forze occidentali. Tuttavia nessun analista avrebbe mai immaginato che il tutto si sarebbe svolto con una tale rapidità.

 

Parte di queste rapide tempistiche sono sicuramente imputabili alle forze NATO presenti in Afghanistan, le quali hanno avviato il ritiro delle proprie truppe senza vincolarlo a un concreto progresso nei colloqui di pace o alla dimostrazione a lungo termine da parte delle forze insorte di venire incontro alle richieste occidentali. Questo a testimoniare quanta fretta avesse l’Occidente tutto, e in particolare Washington, a uscire dal pantano afghano. O forse, più semplicemente, di quanto in fretta stessero per finire i soldi.

 

Dall’altro lato vi è stata una rapidissima avanzata dei talebani, i quali hanno sfruttato il momento propizio e hanno sistematicamente preso il controllo delle zone rurali del paese per poi negoziare con le autorità (o ciò che ne restava) per il controllo dei centri urbani. Questo con il solo scopo di isolare e tagliare fuori completamente le città dall’esterno, costringendo i vari governatorati a venire a patti con le forze talebane, vista l’assenza totale di alternative, politiche o militari che fossero. I leader talebani sono stati molto scaltri nello sfruttare la millenaria frammentazione tribale afghana, portando dalla loro parte i capi tribù sia con promesse di grandi vantaggi una volta preso il potere sia con minacce di gravi ritorsioni in caso di mancato supporto.

 

C’è anche da considerare il fatto che in molte province il potere del cosiddetto “stato centrale” era inesistente da anni, con burocrati che si atteggiavano a signori locali senza alcun pensiero se non per l’arricchimento di se stessi. In questi casi i talebani sono stati accolti come veri e propri liberatori, non come nemici.

 

Se la rapida avanzata dei talebani ha dimostrato quanto efficiente sia diventato il movimento in questi anni, dall’altro lato l’esercito nazionale afghano, o Afghan National Security Forces (ANSF), ha provato la sua completa inadeguatezza sul campo, nonostante gli anni di addestramento e i miliardi di dollari spesi in equipaggiamento e formazione. Non appena si è diffusa la notizia di un’offensiva generale dei talebani nel paese, i soldati dell’ANSF hanno abbandonato le armi e le proprie postazioni, scappando nelle campagne, arrendendosi al nemico o addirittura passando dalla parte dei talebani stessi.

 

Già nelle settimane passate alcuni battaglioni, intuendo quanto sarebbe accaduto, avevano provato a varcare il confine con il Tagikistan per cercare salvezza. Anche qui purtroppo i talebani hanno visto lungo. Consci del timore di ritorsioni che si era instaurato negli anni tra gli uomini dell’ANSF, i talebani hanno subito offerto un’amnistia generale a tutti i membri delle forze armate del vecchio governo afghano, a patto che essi consegnassero tutte le armi, gli equipaggiamenti hi-tech e le postazioni di difesa in loro possesso. E così hanno riottenuto in un battito di ciglia l’intero paese.

 

Una considerazione che si può fare già ora, nonostante gli eventi siano ancora in atto, è la profondità con cui le forze armate afghane abbiano sottovalutato il proprio nemico. In primis ha giocato un ruolo molto importante la disparità numerica. Infatti, prima della loro scomparsa, le forze dell’ANSF contavano oltre 300.000 uomini, mentre i talebani si stimano essere circa in 75.000 combattenti. Questi tuttavia negli anni non hanno mai abbandonato la lotta e hanno continuato a rinfoltire i propri ranghi nonostante le importanti perdite occorse durante la guerra. C’è anche da non dimenticare il fatto che i talebani siano grandi conoscitori del territorio afghano, cosa che ha permesso loro di sopravvivere e di nascondersi alle forze NATO. negli anni.

 

Un secondo elemento a sfavore delle truppe regolari afghane è stato la scomparsa, dal giorno alla notte, del supporto militare occidentale. Se infatti fino a poco tempo fa le forze statunitensi impegnavano costantemente i combattenti talebani dove fosse necessario, alcuni mesi orsono tutte le operazioni militari sono cessate in quanto clausola degli Accordi di Doha del 2020. Ciò ha completamente cancellato dall’equazione strategica del paese il considerevole deterrente tecnologico e militare rappresentato dalle truppe straniere in Afghanistan. Senza di esso, l’ANSF non è riuscita a resistere all’offensiva talebana che ha interessato letteralmente ogni centimetro del paese.

 

È curioso osservare come la conquista talebana dell’Afghanistan sia stata un vero e proprio effetto domino. Il 6 agosto 2021 i ribelli hanno conquistato la loro prima città nonché capitale della provincia sud-occidentale di Nimruz, Zaranj. Ciò è stato reso possibile dalla fuga sia del governatore locale sia delle truppe ivi stanziate. Il 7 agosto è stata la volta di Shibirghan, capitale della provincia settentrionale di Jawzjan, mentre l’8 agosto sono cadute nel nord le città di Kunduz, Sar-i-Pul e Takhar. Da qui in poi tutte le altre tessere del domino sono cadute a seguire. Il 9 agosto sono cadute Aybak a Samangan, il 10 l’importante centro urbano di Farah e infine i centri nevralgici di Kandahar, Laskar Gah e Herat.

 

In Afghanistan si dice che “chi controlla Kandahar, controlla l’Afganistan”, e anche questa volta ciò si è dimostrato vero. Controllando Kandahar si ha il potere su tutto il sud del paese mentre per Laskar Gah lo si ha sull’est. Degna di nota è stato anche l’abbandono e la successiva conquista talebana di Bagram, principale base aerea del paese. Oltre a essere stata abbandonata in pochissime ore, le forze statunitensi hanno anche lasciato elicotteri, droni e tutta una serie di armi hi-tech in mano ai talebani. Alcune sono state distrutte da successivi raid aerei, ma la maggior parte è ancora oggi nelle mani dei ribelli.

 

Il 14 agosto è stata la volta di Mazar-i-Sharif, anche qui senza sparare un solo colpo. Storicamente Mazar-i-Sharif ha sempre rappresentato l’epicentro dell’Alleanza del Nord, simbolo della resistenza, ai tempi della guerra civile. Alla caduta di questa città, distante peraltro poche centinaia di chilometri dalla capitale, il governo centrale aveva capito che i giochi erano ormai chiusi. Il 15 agosto Kabul è caduta senza neanche l’ombra di uno scontro a fuoco in città, come mostrato in diretta dai telegiornali di tutto il mondo.

 

Le immagini che ci porteremo dietro saranno sicuramente quelle degli elicotteri americani che evacuano l’ambasciata la mattina di ferragosto, riportando alla memoria le immagini di Saigon nel 1975 e ricalcando un analogo fallimento politico e militare.

 

Un punto su cui l’opinione pubblica globale non si è soffermata più di tanto in queste settimane sono le modalità con cui i talebani hanno ripreso il potere. Infatti conquistare 13 capoluoghi di provincia e 9 province in meno di una settimana non è un qualcosa di umanamente possibile, a meno che, ovviamente, non ci sia un largo supporto della popolazione locale.

 

Una prova fra tutte può essere la presa stessa di Kabul, nella quale non solo si è vista l’assenza di scontri ma addirittura in alcuni quartieri la popolazione ha accolto i talebani con felicità sperando mettessero fine ai saccheggi e furti perpetrati dalle varie bande criminali. È quindi ovvio dedurre che, per quanto i 20 anni di occupazione straniera abbiano indiscussamente portato a dei grandi progressi in campo di diritti umani e in generale di sviluppo nel paese, il popolo afghano era semplicemente stufo di essere occupato da forze straniere.

 

Oltre a questo bisogna unire il malessere nei confronti di un governo locale che ha dimostrato in un’infinità di occasioni la sua totale noncuranza verso il popolo afghano ma di tenere solo al proprio rendiconto particolare.

 

Ovviamente simili avvenimenti hanno impattato sulle cancellerie di tutte le nazioni del mondo, ma in particolar modo su quella statunitense. Neanche a dirlo, la tempesta perfetta si è abbattatuta sulla Casa Bianca, essendo gli americani stati accusati di aver abbandonato il popolo afghano a se stesso e di non aver ponderato una exit strategy coerente con quanto cercato di costruire negli ultimi 20 anni.

 

Nonostante le insistenze degli alleati e di parte della comunità internazionale gli Stati Uniti hanno ribadito la loro posizione: il ritiro dall’Afghanistan è incondizionato. Il che rende de facto gli Stati Uniti e la NATO. le parti uscite sconfitte dal conflitto, a cui ora non rimane altro che cercare di contenere le perdite e i danni collaterali, sia politicamente sia militarmente.

 

Secondo alcune stime della Brown University, Washington in questi 20 anni avrebbe speso una cifra astronomica, circa 900 miliardi di dollari, per sostentare la propria missione in Afghanistan. E, per quanto Biden e il suo staff cerchino di edulcorare la situazione, la verità è che al netto di tutti i soldi spesi, di migliaia di ragazzi americani morti e di centinaia di migliaia di afghani uccisi ciò che rimane in mano a Washington è solamente un cumulo di cenere.

 

Il tutto ha avuto origine a Doha nel 2020, quando l’amministrazione Trump siglò gli omonimi accordi con i rappresentanti dei talebani, nei quali venivano stabiliti i termini del ritiro statunitense. Il punto cardine degli accordi era da un lato la garanzia dei talebani di non ospitare più cellule terroristiche di Al-Qaeda come fatto in passato, e dall’altro la garanzia statunitense di effettuare il ritiro completo del proprio personale civile e militare entro il 2021.

 

Tra le varie condizioni al contorno vi era anche la garanzia statunitense di non effettuare più azioni militari contro i talebani, e dall’altro lato di cercare di porre in essere tutta una serie di tregue concordate per dare del respiro sia alle truppe regolari afghane sia alle forze straniere stesse. È curioso pensare come solo qualche anno fa Washington avrebbe negato anche solo la possibilità di trattare con i talebani. Visto in prospettiva, fu proprio questo accordo l’evento che diede inizio alla fine della guerra e ciò che vediamo in queste settimane è solamente l’epilogo di quanto iniziato nelle trattative diplomatiche del 2018.

 

Se da un lato i talebani sono usciti enormemente rafforzati dagli accordi, essendo stati riconosciuti de facto anche se non de iure come entità politica, dall’altro il governo legittimo di Kabul ne è uscito quasi del tutto delegittimato e anche tradito dai suoi stessi alleati americani. Infatti in sede di negoziato il governo è stato praticamente escluso dai colloqui ed è stato anche costretto ad applicare i termini di un trattato a cui non ha partecipato.

 

Un esempio fra tutti, nonostante le vibranti proteste, il governo di Kabul ha dovuto rilasciare oltre 5.000 prigionieri talebani dalle proprie carceri. Risulta inoltre paradossale come gli accordi di Doha siano stati avviati dall’amministrazione Trump nell’ottica di rendere la ritirata dal paese una “ritirata strategica” e non una disastrosa rotta. Cosa che di fatto è stata.

 

Proprio in merito a ciò le accuse all’attuale presidente Biden non sono mancate e sono abbondate specialmente in occasione dei vari discorsi tenuti alla nazione americana durante i giorni del ritiro. Benchè sia stato criticato aspramente per le modalità disastrose di disimpegno, il presidente è stato chiaro e incisivo: la guerra in Afghanistan, a distanza di 20 anni, non poteva essere risolta con mezzi militari e arrivati a questo punto il popolo afghano deve decidere del proprio destino.

 

Per quanto possa sembrare un discorso in cui l’amministrazione statunitense si lavi le mani di un problema da essa stessa creato, vi è della verità in queste parole del presidente. Biden ha inoltre considerato l’esito della missione in Afghanistan una “missione compiuta”, essendo stato negato ai terroristi di Al-Qaeda un terreno fertile dove proliferare liberamente negli scorsi decenni. Per quanto possa sembrare paradossale affermare una cosa del genere, il fondo del barile è stato raggiunto quando il presidente ha affermato che gli Stati Uniti “non sono andati in Afghanistan per costruire una nazione”.

 

Al netto dei fatti, delle tante parole spese in 20 anni di pura propaganda che affermavano l’esatto contrario e delle tante vite bruciate in una inutile campagna militare, si può capire come queste parole rappresentino il totale fallimento statunitense, non tanto della sola campagna in Afghanistan, ma dell’intera campagna del “War on Terror” inaugurato da Bush Jr. ormai 20 anni orsono.

 

Per quanto riguarda invece l’ormai decaduto governo “legittimo” di Kabul, dire che è scomparso come neve al sole sarebbe riduttivo. Se per Wahington l’inizio della fine ha coinciso con la firma degli accordi di Doha, per il governo afghano instaurato dall’Occidente essa ha avuto inizio nelle elezioni del 2014.

 

Qui è stata messa di fronte agli occhi di tutta la comunità internazionale quanto fosse corrotta la struttura stessa su cui fondava la cosa pubblica dell’Afghanistan, a prescindere dai canditati o dai relativi partiti. Oltre a non aver avuto un chiaro vincitore uscente dalle urne, i candidati si sono accusati entrambi di brogli elettorali, e la cosa buffa è che probabilmente avevano entrambi ragione.

 

Basando il proprio consenso elettorale più sull’appartenenza clanica che sull’ideologia, le varie formazioni politiche afghane non hanno tentato veramente di intavolare un confronto tra di loro per il bene del paese. E da tutto ciò il neo-eletto presidente Ghani ne è uscito con un mandato debole e un peso internazionale praticamente inesistente.

 

È proprio qui dove si dimostra che il tentativo di cercare di instaurare in un paese frammentato in tribù e clan da svariati secoli come l’Afghanistan un prototipo mal riuscito di democrazia occidentale è stata solo un’illusione. Democrazia peraltro che si è dimostrata corrotta fin dal primo giorno della sua esistenza, e la responsabilità di questo cancro è da cercarsi esclusivamente della coalizione occidentale che l’ha creata. Infatti la presenza militare straniera ha fatto affluire nel paese decine di miliardi di dollari per gli scopi più disparati, primo fra tutti il combattimento dei talebani.

 

Vista la natura settaria del paese, si è assistito a veri e propri scontri tra le varie fazioni afghane là dove arrivavano più fondi, con il solo di scopo di appropriarsene e mostrare poi alle potenze occidentali quanto si fosse efficienti nel contrasto dei ribelli. Tutte queste dinamiche erano ben note all’interno della società afghana, tanto che i talebani hanno più volte diffuso via social contenuti espliciti e purtroppo inconfutabili della corruzione dei membri del governo. La miopia dei leader afghani li ha inoltre indotti a credere che questa situazione di afflusso di fondi potesse potenzialmente durare in eterno, facendogli completamente perdere ogni timore di essere scoperti.

 

Alle prime avvisaglie di avanzata dei talebani, l’ormai ex presidente Ghani aveva affermato di voler compiere un gesto conciliante e inglobare i talebani in un nuovo governo di unità nazionale, escludendone tuttavia l’opzione di uno di transizione ad interim in cui il governo “democraticamente eletto” nel 2014 non fosse presente.

 

La storia non ha dato ragione a Ghani. Emulando i migliori film di fantapolitica, non appena i talebani hanno iniziato a prendere controllo della capitale, il presidente Ghani ha lasciato il paese per rifugiarsi in Uzbekistan, a detta di alcuni con i borsoni pieni di soldi. Scenario anche questo largamente prevedibile. Ciò a riprova soprattutto del grande senso dello stato che il vecchio esecutivo ha coltivato negli anni verso la sua stessa popolazione.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]