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N. 106 - Ottobre 2016 (CXXXVII)

adriano e la rivolta di bar kochba

un imperatore dai mille volti - parte i
di Alessia Vanaria

 

Adriano è uno degli imperatori che più hanno affascinato gli studiosi di storia romana, i quali spesso hanno focalizzato la loro attenzione sulla sua personalità complessa, sulle sue scelte politiche e sul suo forte filellenismo.

 

Si è parlato del suo principato come di un periodo di pace, di grande benessere, dove un ruolo di primo piano sarebbe stato rivestito senza dubbio dalla cultura. Un imperatore che le fonti letterarie ci presentano amante della letteratura greca quanto di quella latina, esperto di aritmetica, geometria e pittura, abile nel suonare quanto nel comporre versi. Per questa ragione, secondo quanto ci viene detto dall’Historia Augusta avrebbe conferito onori e ricchezze ai maestri di tali arti, ai filosofi, ai grammatici ed ai retori, ma sarebbe stato però pronto ad esautorarli dall’esercizio della propria professione nel momento in cui non apparivano più all’altezza del compito affidatogli. Adriano era, dunque, un uomo determinato, capace di imporre il proprio volere sia a Roma quanto al di fuori dei confini dell’Urbs. È stato ricordato sempre come il restauratore della pace, del benessere, il fondatore della cosiddetta età dell’oro, di quell’”impero umanistico” la cui chiave di volta era costituita proprio dalla cultura. Una personalità complessa, (Varius multiplex multiformis) che amministra l’impero in un modo che si configura, per vari aspetti, molto diverso rispetto a quello dei suoi predecessori.

 

La sua “diversità” si evince già a partire dalle scelte compiute in politica estera. Non si impegna in nuovi conflitti ma cerca unicamente di portare a termine quelli già avviati da Traiano, si adopera costantemente, come ci riferisce l’Historia Augusta “per il mantenimento della pace in tutto il mondo”. Adotta, dunque, una politica estera di contenimento, una politica che già ai contemporanei dovette sembrare eccessivamente rinunciataria. Frontone, retore contemporaneo di Adriano, nei Principia Historiae scrive, infatti, che l’imperatore preferì abbandonare le province conquistate da Traiano nel corso di varie guerre, piuttosto che difenderle per mezzo dell’esercito.

 

All’interno di una politica estera del genere, non interessata a nuove conquiste ma volta a salvaguardare e riorganizzare i territori già conquistati, diventa ancora più difficile valutare le motivazioni del più impegnativo conflitto verificatosi in questo periodo: la lunga e sanguinosa guerra giudaica, la rivolta di Simone Bar Kochba, che come vedremo non si può considerare solo di carattere difensivo. Una rivolta, su cui le informazioni fornite dalle fonti letterarie sono alquanto scarse e pertanto è necessario, per ricostruire al meglio gli eventi, servirsi del Talmud, corpus che raccoglie leggi civili e religiose, interpretazioni bibliche, ma anche leggende ebraiche, in due redazioni (gerosolimitana, di V sec., e babilonese, di VI sec.), e dei materiali scoperti in anni coevi o vicini alle scoperte dei rotoli di Qumran, vale a dire delle lettere inviate dal leader della rivolta a personaggi altrimenti ignoti, molto probabilmente suoi ufficiali o amministratori.

 

Incerte appaiono ancora oggi le cause della rivolta, su cui Cassio Dione e l’ Historia Augusta forniscono informazioni divergenti. Lo storico severiano (69,12, che leggiamo oggi in epitome) scrive che Adriano, nel 130 – quindi durante la sua visita nella provincia – aveva deciso di fondare una nuova città sul sito della vecchia Gerusalemme, e di darle il nome di Aelia Capitolina, dove sarebbe dovuto sorgere un tempio in onore di Giove in sostituzione di quello che gli Ebrei avevano eretto al proprio dio, Iehova; da ciò si sarebbe originata la rivolta di Bar Kokhba (che Xifilino - l’epitomatore di Dione - peraltro non menziona per nome), scoppiata nel 132, quando l’imperatore si trovava ad Atene, e domata solo nel 135-136 con la presa di Béthar. Cassio Dione ritiene, quindi, che tutto sia stato determinato dalla fondazione di Aelia Capitolina, di una città pagana sul suolo della sacra Gerusalemme. L’imperatore era cosciente di quello che significava conferire ad un determinato territorio lo statuto giuridico di colonia e non di municipium. La colonia infatti, come spiega chiaramente Aulo Gellio (16,13,3) era più controllata dal potere centrale e meno libera (magis obnoxia et minus libera), mentre il municipio godeva di una maggiore autonomia, e manteneva i suoi costumi e le sue leggi. L’imperatore conosceva pertanto cosa, a livello organizzativo e amministrativo, implicava la creazione di una colonia nella città sacra agli Ebrei: non c’era spazio da questo momento in poi per nessuna autonomia, ma solo per le leggi e le istituzioni romane. Aelia Capitolina non ricevette neanche il privilegio del ius Italicum − come viene detto anche nel Digesto (50, 15, 1, 6) concesso dall’imperatore e contemplante che quel dato territorio fosse considerato ager romanus, con la possibilità, quindi, di avere il dominium ex iure Quiritium sul suolo provinciale, l’esenzione dalle imposte fondiarie e di capitazione.

 

Un atto simile non poteva non suscitare una rivolta da parte dei Giudei, che avevano sempre sperato in una ricostruzione di Gerusalemme, ma la fondazione di una città pagana e l’erezione di un tempio pagano sul suolo santo mettevano definitivamente fine a queste speranze. Perché Adriano sceglie di agire in tal modo? Gli studiosi moderni hanno elaborato, a tal proposito, teorie diverse: c’è stato chi come Benjamin Isaac ha messo in risalto l’importanza della colonia a livello militare, e chi come Daniel Golan ha ritenuto Adriano consapevole della reazione che un atto simile avrebbe potuto suscitare negli Ebrei, ma se si fossero ribellati, sarebbe stato pronto ad affrontare la situazione con fermezza e determinazione.

 

L’Historia Augusta individua, invece, la causa della rivolta nel divieto imposto da Adriano ai Giudei di praticare la circoncisione. Tale pratica era diffusa non solo tra i Giudei ma anche tra le varie popolazioni dell’impero, anche se questi ultimi hanno dato ad essa una grande importanza, considerandola segno tangibile del patto tra Dio ed il popolo di Israele, da Abramo in poi. Divergenti le opinioni degli studiosi moderni in merito: Alfredo Rabello ha rintracciato in tale divieto la causa della rivolta, Mary Smallwood una conseguenza, e dunque, una misura punitiva adottata al fine di evitare nuovi tumulti. Al di là delle cause, (oggi è preferibile pensare ad una pluralità di cause) la rivolta scoppiò all’improvviso, ma era stata preparata con cura. Cassio Dione dice che i Giudei rimasero tranquilli fin quando Adriano si trovava in Siria, ma cominciarono a preparare le armi che gli sarebbero servite per la rivolta. In realtà si trattava di armi, la cui fabbricazione era richiesta loro da parte dei Romani, armi che vennero costruite “appositamente difettose” in modo da potersene servire nel momento in cui questi le avessero rifiutate − pare che già dal 130 d.C. i ribelli fossero pronti a scontrarsi con i Romani.

 

Inoltre i Giudei occuparono preventivamente le posizioni migliori all’interno del territorio, le munirono di cunicoli e di mura per poter avere facile vie di fuga in caso di sconfitta. Tali cunicoli vennero costruiti anche per incontrarsi di nascosto, e pertanto furono dotati di fori nella parte superiore perché ricevessero luce ed aria. I ribelli, guidati con abilità da Simon Bar Kochba, esercitarono un’attività di guerriglia, evitando scontri in campo aperto con le preponderanti forze nemiche; in tal modo riuscirono ad infliggere gravi danni ai romani. In effetti, come sottolinea anche Firpo molti furono i successi conseguiti inizialmente dai ribelli, alla cui ottima organizzazione faceva da contraltare l’impreparazione dei Romani e le non eccelse doti strategiche del governatore della provincia, Tineio Rufo, il quale non ebbe capacità con le sue truppe di sedare la sommossa e ristabilire l’ordine pubblico.

 

L’insurrezione si diffuse così in breve tempo in tutta la Palestina ed anche oltre le sue frontiere. A sostegno dei rivoltosi affluirono anche rinforzi dall’esterno, così che alla fine l’intero mondo era in tumulto. I Romani riuscirono a ripristinare l’ordine grazie a Giulio Severo, che riuscì dopo lunghi e logoranti combattimenti a domare la rivolta. L’ultima decisiva battaglia si svolse nell’estate del 135 intorno alla roccaforte di Bether, non molto distante da Gerusalemme secondo Eusebio (Hist. Eccl. 4, 6, 13) e situata con ogni probabilità sul luogo dell’attuale Bettir, dove Bar Kochba ed i suoi sostenitori si erano rifugiati. Dopo una lunga e ostinata resistenza anche questo baluardo fu conquistato, e i Romani perpetrarono una vera e propria strage, durante la quale morì anche Simon Bar Kochba. La strage è raccontata con espressioni di grande impatto emotivo nel Talmud gerosolimitano: “I romani uccisero tanti (Giudei) e fecero una strage così grande che un cavallo sprofondava nel sangue fino alle narici. Il sangue fece rotolare rocce del peso di quaranta sea e si riversò in mare (colorandolo di rosso) fino a quattro miglia dalla costa. Se tu dici che (Bether) era vicina al mare, (non è vero!). Non era forse quaranta miglia lontana dal mare? Si disse: i cervelli di trecento bambini furono trovati (in Bether) su una pietra, e si trovarono tre ceste di filatteri tagliati”.

 

Il testo aiuta a comprendere come Giudei vivessero i momenti terribili della strage, di cui rimase sempre vivido il ricordo nella memoria collettiva. La descrizione fornitaci da Cassio Dione è meno partecipe ma altrettanto tragica. Lo storico racconta, infatti, che solo pochi riuscirono a salvarsi, cinquanta delle loro più solide fortezze furono distrutte, vennero rasi al suolo 985 dei loro principali villaggi, caddero in battaglia 580.000 Giudei, senza calcolare coloro che morirono per la diffusione di malattie o per la fame. Immensa fu la moltitudine di coloro che furono venduti schiavi, e al mercato annuale al Terebinto, presso Hebroin, il prezzo di un Giudeo equivaleva a quello di un cavallo. La Giudea era divenuta, stando a Cassio Dione, praticamente un deserto. Guardando adesso al fronte romano, la vittoria fruttò ad Adriano la seconda acclamazione ad imperator, ed altri importanti riconoscimenti furono concessi ad ufficiali e soldati. È bene sottolineare, però, come sia stata una vittoria ottenuta a duro prezzo. Le perdite furono così gravi, che Adriano nella sua lettera al senato omise la solita formula di apertura comunemente usata dagli imperatori: “Se voi e i vostri figli siete in buona salute, va bene: io e l’esercito lo siamo”.

 

Non è facile definire se alla base della rivolta vi siano state anche motivazioni di natura sociale e, in caso positivo, in che misura. La finalità prima dell’insurrezione era molto probabilmente la redenzione o la libertà di Israele, che consisteva da un lato nella piena e rigorosa attuazione delle disposizioni religiose e civili della legge mosaica; dall’altra, come mette in evidenza Firpo, nella ripresa del disegno di guerra totale contro l’idolatria e la potenza che la incarnava. Era, dunque, un programma molto simile a quello portato avanti dai ribelli del 66, l’unica differenza sembra essere costituita dal disinteresse di Bar Kochba e dei suoi seguaci verso una ridistribuzione delle ricchezze e dunque verso azioni aventi tale obiettivo.

 

A questa grande rivolta mancò, senza dubbio, quello che potremmo definire un cronista degli eventi, chi la tramandasse ai posteri, ne raccontasse tutte le diverse fasi come aveva fatto Flavio Giuseppe per la prima guerra giudaica. Una “mancanza” che lascia insoluti, ancora oggi, numerosi interrogativi e condanna questo inusuale scontro di età adrianea entro i confini del “regno del probabile”.



 

 

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