SU ADOLFO BELIMBAU
Tra pittura, commerci, viaggi,
esposizioni ed ebraismo
di Maria
Grazia Fontani
Le rassegne d’arte, che
proliferarono nella seconda metà
dell’Ottocento, divennero un
palcoscenico cruciale per la
diffusione delle nuove tendenze
artistiche. Prima di queste
esposizioni pubbliche, il circuito
artistico era spesso dominato dalle
committenze private e dal
mecenatismo, con un gusto orientato
verso soggetti storici, religiosi o
ritrattistici, in linea con le
aspettative dell’élite sia laica che
clericale.
In Italia, addirittura prima
dell’Unità, un grande palcoscenico
per gli artisti, pittori, scultori e
incisori, fu il Concorso Ricasoli
del 1859, che, pur nella sua
specificità di competizione,
condivise con le rassegne
l’obiettivo di stimolare la
produzione artistica e di offrire
una piattaforma di visibilità,
incoraggiando temi legati al
Risorgimento e all’identità
nazionale. Si spostò l’attenzione
verso soggetti più contemporanei e
di impegno civile: vennero
rappresentati i soldati, i
sentimenti, le battaglie, la
miseria, l’attesa, il ritorno.
Dopo l’Unità d’Italia, si tennero
diverse esposizioni nazionali di
arte e industria, tra cui quella di
Firenze nel 1861 e quelle di Milano
(1872, 1881, 1894, 1906) e Torino
(1884, 1898, 1911), che grazie alla
massiccia partecipazione di pubblico
proveniente da diverse estrazioni
sociali, ampliarono notevolmente la
platea dei potenziali committenti
per gli artisti. Non più solo
l’aristocrazia e l’alto clero,
quindi, ma anche la borghesia
emergente, attratta dal progresso e
dalla modernità, iniziò a
interessarsi all’arte e ad
acquistare opere. Questo cambiamento
nella committenza portò a una
diversificazione dei soggetti
rappresentati e spesso anche nel
formato delle opere. Accanto ai temi
tradizionali, si affermarono scene
di vita quotidiana, paesaggi,
ritratti di figure borghesi e
soggetti legati al mondo del lavoro
e dell’industria, riflettendo i
nuovi interessi e i valori della
società in trasformazione. Si
assistette a una maggiore libertà
espressiva, con una pennellata più
sciolta e una ricerca di effetti di
luce e colore più immediati e
realistici. Con la pittura di
paesaggi dal vero o “en plein air” e
le prime avvisaglie del Verismo si
cominciò a rappresentare la realtà
in modo più diretto e meno
accademico, in sintonia con il nuovo
clima culturale e le aspettative di
una committenza che guardava al
presente.
In alcuni testi dedicati al
movimento macchiaiolo, il pittore
Adolfo Belimbau viene citato come
una figura secondaria ma
significativa, partecipe
dell’ambiente livornese e
influenzato dalle innovazioni
pittoriche del suo tempo. Vediamo di
analizzare le molteplici peculiarità
di questo illustre personaggio,
artista sensibile ma anche promotore
di cultura.
Adolfo Belimbau nacque al Cairo nel
1845 da una famiglia ebrea di
origine toscana. Suo padre, un uomo
d’affari, aveva intrapreso con
successo un commercio di tappeti
orientali in Egitto. Dagli atti
anagrafici risulta che il matrimonio
dei genitori (Giacomo e Fortunata
Bolaffi, appartenente ad una agiata
famiglia israelita livornese, di 22
più giovane del marito) si celebrò a
Livorno il 16 marzo 1845, quando già
Giacomo risiedeva in Egitto per i
suoi affari, e dove Fortunata lo
seguì dopo il matrimonio; nello
stesso anno nacque Adolfo, il
primogenito di quattro figli.
Giacomo desiderava che Adolfo
crescendo collaborasse con lui
nell’attività commerciale, ma quando
nel 1862 la famiglia fece ritorno in
Italia e si stabilì a Livorno, il
figlio manifestò chiaramente
l’intenzione di intraprendere anche
studi artistici, e così fece, sotto
la guida del pittore Felice
Provenzal. Un momento significativo
per la sua formazione pittorica fu
la frequentazione con l’amico
Eugenio Cecconi, col quale condivise
uno studio in Livorno. E fu proprio
il Cecconi a introdurre Belimbau
nell’ambiente dei Macchiaioli.
Sebbene si avvicinasse al gruppo dei
Macchiaioli in età adulta, Belimbau
ne frequentò attivamente gli
esponenti a Livorno e nella celebre
località di Castiglioncello, luogo
di ritrovo di molti artisti. In
questo contesto conobbe figure di
spicco come Diego Martelli, il
mecenate dei Macchiaioli, Giovanni
Boldini e Giuseppe Abbati,
assorbendo la loro influenza
stilistica, in particolare per
quanto riguarda la pittura di
paesaggio e la resa della luce
attraverso la “macchia”.
Nel 1875, Belimbau, con l’amico
Cecconi, fece un viaggio in
Nordafrica, dove arricchì la sua
tavolozza di colori più vivaci e
luminosi, tipici di quelle
atmosfere, e si cimentò in soggetti
insoliti.
A partire dagli anni Ottanta
dell’Ottocento, Belimbau partecipò
regolarmente a importanti mostre
nazionali, esponendo a Torino,
Milano, Venezia e Firenze.
Inizialmente i suoi soggetti
prediletti furono scene di vita
popolare, raffiguranti operai,
artigiani e gente umile. Tuttavia,
con il tempo, si dedicò sempre più a
rappresentare scene di vita
borghese, ritratti eleganti e
paesaggi della campagna toscana,
rispecchiando il suo ambiente
sociale e le sue inclinazioni. Come
scrive Luigi Chiranti, citato dal de
Gubernatis:
“Una volta questo artista preferiva
temi della vita faticosa del popolo:
operai, artigiani, povera gente
d’ogni maniera; ora con più accordo
con le sue inclinazioni signorili e
di gentiluomo, preferisce soggetti
più adatti a figurare in quelle sale
nelle quali si appendono alle pareti
oggetti d’arte per lusso e decoro
della casa”.
Adolfo Belimbau ebbe anche una
funzione importante nella sua città
d’adozione: quella di essere fra i
promotori della Prima Esposizione
di Belle Arti del 1886, che fu un
evento di risonanza nazionale:
inaugurata dal Duca d’Aosta, vide
l’adesione di più di cento artisti,
provenienti da varie regioni, per un
totale di più di cinquecento opere,
sia di pittura che di scultura.
Questo evento attirò moltissimi
visitatori forestieri ponendo
Livorno fra le città di interesse
per un turismo di alto livello
culturale. A questa circostanza fa
riferimento il seguente trafiletto
sul Corriere Israelitico, n°5 del
1886:
“Esposizione artistica livornese.
Lo splendido successo
dell’Esposizione artistica tenutasi
nella città nostra, nella passata
stagione balnearia, e che si è
chiusa in questi giorni, torna ad
onore dell’Israelitismo dappoiché fu
un correligionario livornese,
l’egregio pittore Adolfo Belimbau,
il cui nome suona già famoso nei
fasti dell’arte, che ne fu
l’ispiratore, il creatore, e per
così dire l’anima. Aggiungiamo che
il Belimbau e altri correligionari
fra cui annoverar dobbiamo la
distinta e valente signorina Matilde
Modigliani, esposero lavori
altamente apprezzati dagl’inelligenti,
e che trovarono compratori a prezzi
molto vantaggiosi”.
Firmato Rabbino Leone Racah.
Le opere esposte venivano spesso
vendute ai visitatori o costituivano
i premi di una lotteria. Così
accadde ad un importante dipinto di
Belimbau, come testimoniato da fonti
certe.
L’Esposizione Nazionale Italiana del
1881, o anche Esposizione
Industriale Italiana, fu la prima
grande esposizione
industriale che
si potesse realmente
definire nazionale e si tenne a
Milano. La precedente si era svolta
a Firenze nel
1861, anno della nascita del nuovo
Regno d’Italia unitario.
La contessa
Ines Castellani Fantoni Benaglio,
scrittrice con lo pseudonimo di
Memini, fornisce una accurata e
partecipata recensione delle opere
d’arte esposte in questa rassegna,
anche se non esplicitamente citata.
Ma in base all’anno di
pubblicazione, il 1882, e alle sue
descrizioni si evince che si tratta
certamente di questa esposizione
milanese.
Da Fra
quadri & statue - Impressioni e
Chiacchiere di Memini:
"Fra questi ultimi, voglio citato il
Belimbau, col suo: Dopo il lavoro,
cioè l’uscita delle operaie da una
fabbrica. Siamo in una città
meridionale, e sulla quale
azzurreggia un cielo, fosco a furia
di sereno. Come se non bastasse, le
operaie sono, chi più, chi meno,
tutte vestite di bleu; l’effetto
d’intonazione riesce d’un riflesso
un po’ metallico e non è troppo
variato. (…) Il Belimbau ha côlto,
con un gran tatto artistico, quel
momento di effervescenza, forse
nervosa, che determina nella donna
il primo momento di libertà dopo il
lavoro. C’è, più che dell’arte, c’è
della filosofia nel suo quadro.
Purtroppo non si conoscono
riproduzioni di quest’opera, che
doveva essere veramente
significativa. Che il dipinto fosse
effettivamente esposto a Milano
risulta in almeno due fonti: la
prima è il Catalogo Ufficiale della
esposizione nazionale in Milano del
1881 nel quale si accerta la
presenza del pittore nella sala XVI
con i dipinti Dopo il lavoro e
Chiacchiere e la seconda è la
Relazione
Generale dell’esposizione dove
viene indicato come premio
acquistato per la lotteria nazionale
di Milano, confermando l’ipotesi che
il fatto che sia andato da subito in
una collezione privata ne abbia
impedito la diffusione: “71. Dopo il
lavoro, pittura, Belimban A. (con il
cognome errato n.d.r.)”.
Diversa invece la sorte di uno dei
dipinti più famosi del Belimbau.
Di nuovo il de Gubernatis:
“(...) non solo riuscìi egli stesso
a dipingere quadri lodati, ma ebbe
il merito di promuovere in Livorno
una gara
artistica, ordinando e creando per
la massima parte nell’estate del
1886 quella Mostra livornese di
Belle Arti che destò una lieta
meraviglia in tutti i numerosi
frequentatori di quella importante
stazione estiva di bagni. I suoi
quadri non sono molti, ma alcuni
sono importanti; tra i più
fortunati, ricordiamo: L’uscita dal lavoro
(più noto come Dopo il lavoro
n.d.r.), ove si vede una lunga fila
di donne che escono intrecciate, in
vario atteggiamento, con vario
aspetto, umore e sentimento, da una
fabbrica, sfogando evidentemente in
una ciarla animatissima il silenzio
lungamente contenuto durante il
lavoro; il quadro ebbe molte lodi
alla Mostra di Milano e vi trovò il
compratore. Piacquero alla Mostra di
Venezia del 1887 Aiselia e Prima del minuetto
(...).
Alla Promotrice di Firenze piacquero
di recente e furono venduti due
quadri del Belimbau: Una Fonte a Livorno,
una scena animatissima, con la quale
l’artista ritorna felicemente alla
sua prima maniera popolare, rendendo
con molta evidenza varii gruppi di
donne livornesi che vanno ad
attingere alla fonte (questo quadro
fu acquistato da S. M. il Re), e Une page d’Amour ,
una vaga lettrice sorridente innanzi
a una pagina probabilmente più
maliziosa che sentimentale”.
Quella che è rappresentata
nell’opera di grandi dimensioni
(circa 120 cm x 175 cm) Una fonte
a Livorno (o La fonte del
Gigante dal toponimo del luogo
dove si trovava) è la Fonte Igea
progettata e realizzata
dall’architetto Pasquale Poccianti
per portare acqua in un sobborgo
urbano di Livorno. Essa era
costituita da una base circolare
sormontata da una colonna e una
statua raffigurante la dea Igea,
rappresentata nel modo più classico.
La realizzazione del dipinto fu
“postuma” rispetto alla fonte,
smantellata nel 1887 per motivi
contingenti, ma l’idea di realizzare
un tale soggetto era stata
certamente precedente come
documentano alcuni bozzetti
preparatori al dipinto donati
dall’autore stesso nel 1881 alla
Galleria d’Arte Moderna di Firenze
dove attualmente l’opera si trova,
essendo stata acquistata dal Re
Umberto I (e che poi divenne
proprietà dello Stato) che la
notò all’esposizione della Società
d’Incoraggiamento delle Belle Arti
di Firenze dove fu esposta, come ci
dice il de Gubernatis.
Nonostante si possa parlare di
realismo, non vi si rappresenta il
popolo con i suoi problemi e le sue
sofferenze ma al contrario si lascia
percepire una atmosfera
gioiosa nella quotidianità di un
gesto consueto, e questo, come
abbiamo già osservato nell’opera
Dopo il lavoro, è un tratto
distintivo nella produzione di
Belimbau.
Il pittore continuò a dipingere fino
a tarda età partecipando a
importanti esposizioni. Inoltre si
prodigò per la diffusione della
cultura ebraica: fin dai primi del
Novecento era attiva a Livorno la
Fondazione Livornese di Studi
Ebraici Adolfo Belimbau, dal lui
stesso fondata. Traccia di questa
importante associazione è il
concorso bandito nel 1903 sulla vita
e le opere di un celebre rabbino
livornese del Settecento, Malahì
Accoen.
Ma il Belimbau rivela anche un lato
giocoso, in quanto risulta fra i
collaboratori (probabilmente con
vignette satiriche) del settimanale
letterario di genere umoristico
livornese quasi omonimo di una
vivace e arguta commedia di Vittorio
Bersezio di pochi anni prima, dal
titolo La bolla di sapone –
Giornale senza capo né coda.
Fondato nel 1871, risulta ancora
attivo nel 1873 ma sicuramente era
cessato nel 1890. Pubblicazioni di
questo genere, caratterizzate da
satira politica e sociale,
caricature di personaggi locali e un
tono generalmente leggero e
divertente, animavano la vita
sociale cittadina, specialmente
nella stagione balneare.
Adolfo Belimbau morì a Firenze
all’età di 93 anni; pochi anni prima
aveva disegnato l’urna sepolcrale
per la morte della moglie Anna Blum,
realizzata in un piccolo recinto del
Cimitero non Cattolico di Firenze,
dove, sopravvenuta la morte nel
1938, venne posta anche la sua
lastra tombale con la semplice
scritta “Adolfo Belimbau – Pittore”.
Riferimenti
bibliografici:
M.Luzzati Ebrei di Livorno tra
due censimenti (1841-1938),
Belforte Editore Libraio, Livorno
1990,108.
I.Castellani Fantoni Benaglio (Memini),
Fra quadri & statue-Impressioni e
Chiacchiere, Bergamo,
stabilimento Gaffuri e Gatti, 1882,
199-202.
A.Terruggia, Relazione Generale,
Milano Tipografia Bernardoni
cap. XX,1883, CXXXVIII.
Catalogo Ufficiale della esposizione
nazionale in Milano del 1881,
Milano, Sonzogno, 132.
L.Battisti-M.G.Fontani, L’arte,
riflesso dell’uomo, Livorno,
Iguazo Editora, 2023, 49-50.
A. de Gubernatis, Dizionario
degli artisti italiani viventi,
fascicolo primo, Firenze, Luigi
e A.S. Gonnelli editori 1889, 45.
G.Wiquel Dizionario di persone e
cose livornesi, Bastogi Editore,
Livorno, 80.