[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 209 / MAGGIO 2025 (CCXL)


arte

SU ADOLFO BELIMBAU
Tra pittura, commerci, viaggi, esposizioni ed ebraismo

di Maria Grazia Fontani

 

Le rassegne d’arte, che proliferarono nella seconda metà dell’Ottocento, divennero un palcoscenico cruciale per la diffusione delle nuove tendenze artistiche. Prima di queste esposizioni pubbliche, il circuito artistico era spesso dominato dalle committenze private e dal mecenatismo, con un gusto orientato verso soggetti storici, religiosi o ritrattistici, in linea con le aspettative dell’élite sia laica che clericale.

 

In Italia, addirittura prima dell’Unità, un grande palcoscenico per gli artisti, pittori, scultori e incisori, fu il Concorso Ricasoli del 1859, che, pur nella sua specificità di competizione, condivise con le rassegne l’obiettivo di stimolare la produzione artistica e di offrire una piattaforma di visibilità, incoraggiando temi legati al Risorgimento e all’identità nazionale. Si spostò l’attenzione verso soggetti più contemporanei e di impegno civile: vennero rappresentati i soldati, i sentimenti, le battaglie, la miseria, l’attesa, il ritorno.

 

Dopo l’Unità d’Italia, si tennero diverse esposizioni nazionali di arte e industria, tra cui quella di Firenze nel 1861 e quelle di Milano (1872, 1881, 1894, 1906) e Torino (1884, 1898, 1911), che grazie alla massiccia partecipazione di pubblico proveniente da diverse estrazioni sociali, ampliarono notevolmente la platea dei potenziali committenti per gli artisti. Non più solo l’aristocrazia e l’alto clero, quindi, ma anche la borghesia emergente, attratta dal progresso e dalla modernità, iniziò a interessarsi all’arte e ad acquistare opere. Questo cambiamento nella committenza portò a una diversificazione dei soggetti rappresentati e spesso anche nel formato delle opere. Accanto ai temi tradizionali, si affermarono scene di vita quotidiana, paesaggi, ritratti di figure borghesi e soggetti legati al mondo del lavoro e dell’industria, riflettendo i nuovi interessi e i valori della società in trasformazione. Si assistette a una maggiore libertà espressiva, con una pennellata più sciolta e una ricerca di effetti di luce e colore più immediati e realistici. Con la pittura di paesaggi dal vero o “en plein air” e le prime avvisaglie del Verismo si cominciò a rappresentare la realtà in modo più diretto e meno accademico, in sintonia con il nuovo clima culturale e le aspettative di una committenza che guardava al presente.

 

In alcuni testi dedicati al movimento macchiaiolo, il pittore Adolfo Belimbau viene citato come una figura secondaria ma significativa, partecipe dell’ambiente livornese e influenzato dalle innovazioni pittoriche del suo tempo. Vediamo di analizzare le molteplici peculiarità di questo illustre personaggio, artista sensibile ma anche promotore di cultura.

 

Adolfo Belimbau nacque al Cairo nel 1845 da una famiglia ebrea di origine toscana. Suo padre, un uomo d’affari, aveva intrapreso con successo un commercio di tappeti orientali in Egitto. Dagli atti anagrafici risulta che il matrimonio dei genitori (Giacomo e Fortunata Bolaffi, appartenente ad una agiata famiglia israelita livornese, di 22 più giovane del marito) si celebrò a Livorno il 16 marzo 1845, quando già Giacomo risiedeva in Egitto per i suoi affari, e dove Fortunata lo seguì dopo il matrimonio; nello stesso anno nacque Adolfo, il primogenito di quattro figli.

 

Giacomo desiderava che Adolfo crescendo collaborasse con lui nell’attività commerciale, ma quando nel 1862 la famiglia fece ritorno in Italia e si stabilì a Livorno, il figlio manifestò chiaramente l’intenzione di intraprendere anche studi artistici, e così fece, sotto la guida del pittore Felice Provenzal. Un momento significativo per la sua formazione pittorica fu la frequentazione con l’amico Eugenio Cecconi, col quale condivise uno studio in Livorno. E fu proprio il Cecconi a introdurre Belimbau nell’ambiente dei Macchiaioli.

 

Sebbene si avvicinasse al gruppo dei Macchiaioli in età adulta, Belimbau ne frequentò attivamente gli esponenti a Livorno e nella celebre località di Castiglioncello, luogo di ritrovo di molti artisti. In questo contesto conobbe figure di spicco come Diego Martelli, il mecenate dei Macchiaioli, Giovanni Boldini e Giuseppe Abbati, assorbendo la loro influenza stilistica, in particolare per quanto riguarda la pittura di paesaggio e la resa della luce attraverso la “macchia”.

 

Nel 1875, Belimbau, con l’amico Cecconi, fece un viaggio in Nordafrica, dove arricchì la sua tavolozza di colori più vivaci e luminosi, tipici di quelle atmosfere, e si cimentò in soggetti insoliti.

A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, Belimbau partecipò regolarmente a importanti mostre nazionali, esponendo a Torino, Milano, Venezia e Firenze. Inizialmente i suoi soggetti prediletti furono scene di vita popolare, raffiguranti operai, artigiani e gente umile. Tuttavia, con il tempo, si dedicò sempre più a rappresentare scene di vita borghese, ritratti eleganti e paesaggi della campagna toscana, rispecchiando il suo ambiente sociale e le sue inclinazioni. Come scrive Luigi Chiranti, citato dal de Gubernatis:

 

“Una volta questo artista preferiva temi della vita faticosa del popolo: operai, artigiani, povera gente d’ogni maniera; ora con più accordo con le sue inclinazioni signorili e di gentiluomo, preferisce soggetti più adatti a figurare in quelle sale nelle quali si appendono alle pareti oggetti d’arte per lusso e decoro della casa”.

 

Adolfo Belimbau ebbe anche una funzione importante nella sua città d’adozione: quella di essere fra i promotori della Prima Esposizione di Belle Arti del 1886, che fu un evento di risonanza nazionale: inaugurata dal Duca d’Aosta, vide l’adesione di più di cento artisti, provenienti da varie regioni, per un totale di più di cinquecento opere, sia di pittura che di scultura. Questo evento attirò moltissimi visitatori forestieri ponendo Livorno fra le città di interesse per un turismo di alto livello culturale. A questa circostanza fa riferimento il seguente trafiletto sul Corriere Israelitico, n°5 del 1886:

 

“Esposizione artistica livornese.

Lo splendido successo dell’Esposizione artistica tenutasi nella città nostra, nella passata stagione balnearia, e che si è chiusa in questi giorni, torna ad onore dell’Israelitismo dappoiché fu un correligionario livornese, l’egregio pittore Adolfo Belimbau, il cui nome suona già famoso nei fasti dell’arte, che ne fu l’ispiratore, il creatore, e per così dire l’anima. Aggiungiamo che il Belimbau e altri correligionari fra cui annoverar dobbiamo la distinta e valente signorina Matilde Modigliani, esposero lavori altamente apprezzati dagl’inelligenti, e che trovarono compratori a prezzi molto vantaggiosi”.

 

Firmato Rabbino Leone Racah.

 

Le opere esposte venivano spesso vendute ai visitatori o costituivano i premi di una lotteria. Così accadde ad un importante dipinto di Belimbau, come testimoniato da fonti certe.

 

L’Esposizione Nazionale Italiana del 1881, o anche Esposizione Industriale Italiana, fu la prima grande esposizione industriale che si potesse realmente definire nazionale e si tenne a Milano. La precedente si era svolta a Firenze nel 1861, anno della nascita del nuovo Regno d’Italia unitario.

La contessa Ines Castellani Fantoni Benaglio, scrittrice con lo pseudonimo di Memini, fornisce una accurata e partecipata recensione delle opere d’arte esposte in questa rassegna, anche se non esplicitamente citata. Ma in base all’anno di pubblicazione, il 1882, e alle sue descrizioni si evince che si tratta certamente di questa esposizione milanese.

 

Da Fra quadri & statue - Impressioni e Chiacchiere di Memini:

 

"Fra questi ultimi, voglio citato il Belimbau, col suo: Dopo il lavoro, cioè l’uscita delle operaie da una fabbrica. Siamo in una città meridionale, e sulla quale azzurreggia un cielo, fosco a furia di sereno. Come se non bastasse, le operaie sono, chi più, chi meno, tutte vestite di bleu; l’effetto d’intonazione riesce d’un riflesso un po’ metallico e non è troppo variato. (…) Il Belimbau ha côlto, con un gran tatto artistico, quel momento di effervescenza, forse nervosa, che determina nella donna il primo momento di libertà dopo il lavoro. C’è, più che dell’arte, c’è della filosofia nel suo quadro. Purtroppo non si conoscono riproduzioni di quest’opera, che doveva essere veramente significativa. Che il dipinto fosse effettivamente esposto a Milano risulta in almeno due fonti: la prima è il Catalogo Ufficiale della esposizione nazionale in Milano del 1881 nel quale si accerta la presenza del pittore nella sala XVI con i dipinti Dopo il lavoro e Chiacchiere e la seconda è la Relazione Generale dell’esposizione dove viene indicato come premio acquistato per la lotteria nazionale di Milano, confermando l’ipotesi che il fatto che sia andato da subito in una collezione privata ne abbia impedito la diffusione: “71. Dopo il lavoro, pittura, Belimban A. (con il cognome errato n.d.r.)”.

 

Diversa invece la sorte di uno dei dipinti più famosi del Belimbau.

 

Di nuovo il de Gubernatis:

 

“(...) non solo riuscìi egli stesso a dipingere quadri lodati, ma ebbe il merito di promuovere in Livorno una gara artistica, ordinando e creando per la massima parte nell’estate del 1886 quella Mostra livornese di Belle Arti che destò una lieta meraviglia in tutti i numerosi frequentatori di quella importante stazione estiva di bagni. I suoi quadri non sono molti, ma alcuni sono importanti; tra i più fortunati, ricordiamo: L’uscita dal lavoro (più noto come Dopo il lavoro n.d.r.), ove si vede una lunga fila di donne che escono intrecciate, in vario atteggiamento, con vario aspetto, umore e sentimento, da una fabbrica, sfogando evidentemente in una ciarla animatissima il silenzio lungamente contenuto durante il lavoro; il quadro ebbe molte lodi alla Mostra di Milano e vi trovò il compratore. Piacquero alla Mostra di Venezia del 1887 Aiselia e Prima del minuetto (...).

Alla Promotrice di Firenze piacquero di recente e furono venduti due quadri del Belimbau: Una Fonte a Livorno, una scena animatissima, con la quale l’artista ritorna felicemente alla sua prima maniera popolare, rendendo con molta evidenza varii gruppi di donne livornesi che vanno ad attingere alla fonte (questo quadro fu acquistato da S. M. il Re), e Une page d’Amour , una vaga lettrice sorridente innanzi a una pagina probabilmente più maliziosa che sentimentale”.

 

Quella che è rappresentata nell’opera di grandi dimensioni (circa 120 cm x 175 cm) Una fonte a Livorno (o La fonte del Gigante dal toponimo del luogo dove si trovava) è la Fonte Igea progettata e realizzata dall’architetto Pasquale Poccianti per portare acqua in un sobborgo urbano di Livorno. Essa era costituita da una base circolare sormontata da una colonna e una statua raffigurante la dea Igea, rappresentata nel modo più classico. La realizzazione del dipinto fu “postuma” rispetto alla fonte, smantellata nel 1887 per motivi contingenti, ma l’idea di realizzare un tale soggetto era stata certamente precedente come documentano alcuni bozzetti preparatori al dipinto donati dall’autore stesso nel 1881 alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze dove attualmente l’opera si trova, essendo stata acquistata dal Re Umberto I (e che poi divenne proprietà dello Stato) che la notò all’esposizione della Società d’Incoraggiamento delle Belle Arti di Firenze dove fu esposta, come ci dice il de Gubernatis.

 

Nonostante si possa parlare di realismo, non vi si rappresenta il popolo con i suoi problemi e le sue sofferenze ma al contrario si lascia percepire una atmosfera gioiosa nella quotidianità di un gesto consueto, e questo, come abbiamo già osservato nell’opera Dopo il lavoro, è un tratto distintivo nella produzione di Belimbau.

 

Il pittore continuò a dipingere fino a tarda età partecipando a importanti esposizioni. Inoltre si prodigò per la diffusione della cultura ebraica: fin dai primi del Novecento era attiva a Livorno la Fondazione Livornese di Studi Ebraici Adolfo Belimbau, dal lui stesso fondata. Traccia di questa importante associazione è il concorso bandito nel 1903 sulla vita e le opere di un celebre rabbino livornese del Settecento, Malahì Accoen.

 

Ma il Belimbau rivela anche un lato giocoso, in quanto risulta fra i collaboratori (probabilmente con vignette satiriche) del settimanale letterario di genere umoristico livornese quasi omonimo di una vivace e arguta commedia di Vittorio Bersezio di pochi anni prima, dal titolo La bolla di saponeGiornale senza capo né coda. Fondato nel 1871, risulta ancora attivo nel 1873 ma sicuramente era cessato nel 1890. Pubblicazioni di questo genere, caratterizzate da satira politica e sociale, caricature di personaggi locali e un tono generalmente leggero e divertente, animavano la vita sociale cittadina, specialmente nella stagione balneare.

 

Adolfo Belimbau morì a Firenze all’età di 93 anni; pochi anni prima aveva disegnato l’urna sepolcrale per la morte della moglie Anna Blum, realizzata in un piccolo recinto del Cimitero non Cattolico di Firenze, dove, sopravvenuta la morte nel 1938, venne posta anche la sua lastra tombale con la semplice scritta “Adolfo Belimbau – Pittore”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

M.Luzzati Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938), Belforte Editore Libraio, Livorno 1990,108.

I.Castellani Fantoni Benaglio (Memini), Fra quadri & statue-Impressioni e Chiacchiere, Bergamo, stabilimento Gaffuri e Gatti, 1882, 199-202.

A.Terruggia, Relazione Generale, Milano Tipografia Bernardoni cap. XX,1883, CXXXVIII.

Catalogo Ufficiale della esposizione nazionale in Milano del 1881, Milano, Sonzogno, 132.

L.Battisti-M.G.Fontani, L’arte, riflesso dell’uomo, Livorno, Iguazo Editora, 2023, 49-50.

A. de Gubernatis, Dizionario degli artisti italiani viventi, fascicolo primo, Firenze, Luigi e A.S. Gonnelli editori 1889, 45.

G.Wiquel Dizionario di persone e cose livornesi, Bastogi Editore, Livorno, 80.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]