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N. 22 - Marzo 2007

l'accordo di monaco

Un nuovo appeasement?

di Daniel Arbib Tiberi

 

Il titolo di questo articolo è volutamente provocatorio. Ancora una volta Monaco. Ancora una volta la capitale della Baviera viene scelta dai Grandi della Terra come sede, fin troppo ospitale forse, per la discussione sui problemi rilevanti del nostro mondo. Se nel “lontano” 1938, Monaco fu la sede della resa ad Hitler e dell’incomprensione delle reali intenzioni del nazismo, il 10 febbraio ha ospitato la Conferenza sulla Sicurezza del Quartetto internazionale per la Road Map (Onu, Russia, UE, Stati Uniti e Gran Bretagna). Tema del summit era la crisi del governo palestinese e l’intesa, raggiunta a La Mecca l’8 febbraio, tra Al Fatah e Hamas per un nuovo governo di unità nazionale con l’obiettivo, oggi remoto, di permettere all’ Anp di superare lo stato di crisi.

 

Il Quartetto ha commentato positivamente l’accordo raggiunto tra il partito di Meshal (leader di Hamas in esilio a Damasco) e quello di Abu Mazen. Tuttavia ha chiesto alle parti un impegno ufficiale per l’accettazione delle tre condizioni base per ottenere l’avvallo internazionale e di Israele stesso:

 

1 - riconoscimento dello Stato di Israele;

 

2 - accettazione di tutti i precedenti trattati di pace firmati tra le parti;

 

3 - fine della violenza.

 

Sino a questo punto la semplice cronaca dei fatti. Ma come sempre urge almeno un piccolo commento. Il ritiro da Gaza del 2004, la vittoria di Hamas nel gennaio 2006 e la recente guerra del Libano rappresentano i dati centrali da cui la riflessione deve partire. Il ritiro da Gaza ha segnato un momento storico per l’area. Israele, dopo aver lasciato il Sinai nel 1978 e il Golan nel 2000, aveva accettato unilateralmente di abbandonare l’area al confine con l’Egitto, considerandola di proprietà del popolo palestinese e base di partenza da cui costruire un dialogo più ampio.

 

La Comunità internazionale, da parte sua, aveva salutato l’evento come la chiave di volta per giungere ad una soluzione di pace definitiva.

 

Ma così non è stato. Le fazioni palestinesi hanno iniziato una guerra civile per il controllo della Striscia di Gaza e la crisi ha raggiunto l’apice con la vittoria del movimento fondamentalista di Hamas alle elezioni del 2006. Il rapimento del caporale Shalit e la guerra tra Israele e Hezbollah (derivata, anche in questo caso, dal rapimento di due soldati israeliani) hanno poi fatto il resto. Il risultato finale è stato quello far sentire Israele sempre più solo (e qualche governo europeo ha contribuito volentieri), creare una crisi economica ancora più grave nei Territori e generare uno stato diffusa di sfiducia.

 

A mio modo di vedere il Quartetto per la Road Map non dovrebbe limitarsi a imporre precise condizioni al nuovo governo palestinese. Tutta la Comunità internazionale dovrebbe invece avere una visione dei problemi più generale. Iran, Siria, Hezbollah, Territori palestinesi e Israele sono parte di uno stesso problema.

 

Remare tutti da una parte sola nei confronti delle pazzie di Mahmud Ahmadinejād  significherebbe avere il coraggio di isolare definitivamente l’Iran mettendolo in crisi al suo interno, senza dover usare alcuna forza militare. Secondo la mia logica (ma forse sbaglio), l’isolamento iraniano provocherebbe una reazione a catena.

 

Genererebbe infatti un mutamento obbligato delle posizioni di Damasco (già in parte avvenuto), di Hezbollah e di Hamas determinato dal fatto che queste due di queste tre realtà dipendono direttamente da ordini esterni del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzioni.

 

A lungo andare, privi della linfa vitale e con condizioni adeguate, la Siria dovrebbe rivolgersi nuovamente a Tel Aviv per negoziare sul Golan, Hamas non potrebbe dire no ad Abu Mazen per il riconoscimento di Israele e Hezbollah (per poter sopravvivere) dovrebbe giungere ad un compromesso con i sunniti e i cristiani libanesi. Ovviamente se tutto questo si avverasse anche Israele dovrebbe fare la sua parte. Il ritiro da Gaza, al contrario di quello che pensano molti oggi, è stato un bene. Ha mutato le condizioni e ha posto i palestinesi dinnanzi alle loro contraddizioni.

 

Nel caso l’Iran venisse isolato e si riaprissero nuovi scenari, Israele dovrebbe essere pronto a coglierli. Le aperture di Assad dovrebbero essere considerate (così come fece Barak nel 2000) e bisognerebbe ritrovare il coraggio di rinominare il famoso “ritiro dalla Cisgiordania” (per il quale Kadima è nato). Il tutto però, stavolta si, in accordo con il governo palestinese.

 

Gli unilateralismi (almeno alcuni, tra cui Gaza) possono rappresentare un inizio per rimuovere uno stato di impasse, ma bisogna sempre ricordare che una pace non la si può mai fare da soli.

 

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